Ormai conoscete lo schema, un titolo sicuro, su commissione a patto di potersi esprimere come artista (anche battagliando con la produzione, se necessario) e poi un titolo più personale, meglio se un thriller. Questo è il doppio andamento che ha tenuto banco nella porzione centrale della filmografia di Brian De Palma, pronto ad una nuova “Mission”, questa volta non “Impossibile”, ma su Marte, anche se l’assonanza di titoli non è la vera ragione per cui il regista del New Jersey ha deciso di dirigere questo film.
La verità è che la Touchstone Pictures ci aveva investito due lire su questo film, cioè due lire, diciamo pure cento milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti. Perché “Mission to Mars” è stato uno di quei casi, non rari nella storia di Hollywood, per cui una casa di produzione annuncia un film e le sue concorrenti si mettono a correre per sfruttare l’idea, gli esempi sarebbero tanti, Tombstone vs. “Wyatt Earp” (1994), Armageddon contro “Deep Impact” (1998), volendo mettiamoci anche “Alexander” (2004) di Oliver Stone, contro quello poi mai realizzato da Baz Luhrmann. Succede, succede molto spesso e qui il concorrente era Pianeta Rosso, prodotto dalla Warner Brothers uscito a novembre del 2000, sei mesi dopo il film di… Gore Verbinski. No aspetta, come Gore Verbinski? Non è mica una rubrica sulla mia ex nemesi questa.
Già, perché Verbinski era ancora in quella fase della carriera in cui io, non troppo amichevolmente, lo avevo ribattezzato il non-regista, visto che dirigeva solo progetti che sarebbero usciti comunque, con lui o senza di lui, proprio come “Mission to Mars”, abbandonato da Verbinski per andare a dirigere una roba moscia con la Roberts sbagliata (non Eric, il Roberts giusto) e sostituito in corsa da… Beh, chiunque direi, se alla Touchstone hanno pensato che quello giusto per un film di fantascienza, fosse un esperto di thriller come De Palma, dovevano essere proprio disperati.
Perché Brian da Newark abbia accettato di dirigerei il suo primo (e mi sento di aggiungere, anche unico) film di fantascienza in carriera? Forse per lo stesso principio per cui ai tempi accettò qualcosa di completamente diverso da quello che i critici si aspettavano da lui, buttandosi su un film di gangster come Scarface, per non restare etichettato. Ma anche perché, parliamoci chiaro, era un lavoro, immagino pagato bene, che rispettava la sua strategia, solo che qualcosa questa volta nello schema, fa saltare il banco.
Questo film andai a vederlo al cinema, spazio, Marte, cast di primo livello e poi De Palma, di cui i miei amici non conoscevano nemmeno un titolo, però li ho rassicurati io, questo sa il fatto suo. Che poi è la verità, però mannaggia a me! Anche perché “Mission to Mars” è uno di quei film, con la non proprio virtuosa capacità di scapparmi dai neuroni, chissà che magari scrivendone, io riesca a fissarmi il ricordo della sua trama in testa una volta per tutte, perché di quella sera al cinema mi ricordavo solo la bella sequenza con protagonista Tim Robbins e poi vaghi spezzoni di un finale che, ancora oggi, faccio fatica ad associare al cinema di De Palma.
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La faccia di Robbins quando si ricorda di essere stato diretto da De Palma si, ma in un film di fantascienza. |
Anche perché il film è stato scritto da Jim e John Thomas, due che dopo Predator e Predator 2 non ne hanno mai più azzeccata mezza, infatti il copione è stato poi rimaneggiato da Graham Yost, uno che si era fatto un nome grazie ai film d’azione, quindi questo conferma che in missione verso il pianeta rosso, per battere sul tempo… Beh, Pianeta Rosso, la Touchstone aveva imbarcato una serie di professionisti, ma nessuno poi così esperto di fantascienza che, a ben guardare, sembra anche lo spunto di partenza di “Mission to Mars”.
Brian De Palma, uno che per dirigere male, deve avere una banda di danesi che lo percuotono sui maroni usando dei bastoni nodosi e anche così di fare completamente pietà proprio non è capace, figuriamoci se non ci mette personalità anche in un lavoro da cento milioni, su commissione, uscendo dalla panchina per sostituire uno che nel 2000 era un non-regista. Infatti, “Mission to Mars” come Le due sorelle, comincia con una finta di corpo fatta allo spettatore, una scena che fa sembrare tutt’altro, in questo caso sembra di stare guardando un decollo verso il pianeta Rosso, invece è un piccolo razzo che vien sparato in aria, durante una festa (molto americana) in cortile, con birra in lattina, amici e barbeque.
Si festeggia l’imminente partenza del gruppo di astronauti capitanati da Tim Robbins che qui sfoggia un ciondolo di Flash Gordon e si chiama Woody, anche se forse Buzz sarebbe stato più indicato. Con lui la moglie Connie Nielsen, il compare Don Cheadle, manca solo l’unico che era già stato diretto da De Palma in precedenza, il preferito di uno dei miei cani, Gary Sinise. Lasciato a Terra a gestire il lutto subìto, ovvero la perdita di sua moglie.
Stacco, tredici mesi dopo la missione di Woody è prossima ad atterrare su Marte, facendo gli auguri di buon compleanno a Sinise rimasto a casa, con 20 minuti di differita perché il segnale copra la distanza Marte-Terra, appena atterrata, però, la missione viene vaporizzata da alcuni… Graboidi? La sabbia marziana prende la forma di vermoni giganti e la CGI mostra tutti, ma dico proprio tutti i giorni trascorsi in questi ventitre anni dall’uscita del film.
Bisogna tirare su al volo una seconda missione di soccorso, ovviamente a capitanarla è Gary Sinise, insieme ad una banda di astronauti radunati dal direttore del casting pescando nomi come Jerry “Il mio amico Ultraman” O’Connell, anche perché dopo la tempesta, sul suolo marziano è spuntata una gigantesca montagna a forma di volto umano su cui bisogna indagare. A mio avviso, ci è andata bene non fosse un dito medio, però si sa che gli Americani le antifone non le capiscono.
Per un regista che ha fatto del post moderno una cifra stilistica, capace di rielaborare alla sua maniera gli spunti offerti da altri film, per De Palma, “Mission to Mars” diventa l’occasione per dirigere il suo “Uomini sulla Luna” (1950), il film di Irving Piche a cui il regista dichiara di essersi ispirato, anche se è impossibile non pensare a titoli come “2001 – Odissea nello spazio” (1968) e a parecchio Spielberg, d’altra parte nel gruppetto di regista della New Hollywood, quello in rapporti migliori con De Palma è proprio quello che ha diretto Incontri ravvicinati del terzo tipo, quindi viene un po’ da pensare che il nostro Brian abbia passato che troppo tempo con Spielberg.
Anche perché la parte migliore di “Mission to Mars”, oltre a quella dove gli effetti speciali hanno retto decisamente meglio la prova del tempo, resta il secondo atto del film, la porzione dove De Palma rielabora a suo modo Kubrick e, guarda caso, si ritrova a dirigere una scena di suspence, questa volta nello spazio profondo.
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Come Tom Cruise, ma senza corde di sicurezza. |
Sarebbe un gioco al massacro cercare tracce di De Palma dove non ci sono, paragonare la riuscita scena del balletto a gravità zero, alle altre scene di ballo tra personaggi Depalmiani mi sembra una forzatura, trovo molto più sensato, invece, sottolineare come l’unica scena che ricordo, dalla visione in sala del film nell’anno 2000 (la corsa della morte) sia anche la migliore, la macchina l’astronave del capo ha un buco nella gomma (e noi l’aggiusteremo con il chewing gum) e che perde ossigeno, diventa l’occasione per De Palma per orchestrare una bella scena di tensione, in cui Tim Robbins diventa il protagonista e ogni volta, mi colpisce il modo “scientifico” in cui il suo personaggio affronta la situazione e si rassegna al destino, fa due conti al volo, capisce che la sua vita sarebbe la perdita minore rispetto al sacrificare nave ed equipaggio e dopo essersi calcolato le percentuali a suo sfavore di essere recuperato, fluttua nello spazio verso il destino, quasi in pace come un matematico davanti ad un’equazione risolta, per quanto drammaticamente contro i suoi interessi. Un momento di tensione e dramma diretto alla grande da De Palma che, per certi versi, ha anticipato altri svolazzamenti spaziali, come George Clooney che va a vendere il caffè agli alieni, perdendosi in “Gravity” (2013).
La faccenda degli alieni creazionisti “spiegoni”, del 3% di differenza di materiale genetico tra noi umani e che ne so, le scimmie (anche se avrei girato molto meno), condito dalla grafica in stile “Super Quark” per illustrare la loro storia e i loro piani, non solo rende tutto un po’ troppo espositivo, didascalico e invecchiato male, non solo per il design delle creature, ma di nuovo per la CGI che sfoggia tutte le sue rughe. Ma a dirla tutta è anche piuttosto palloso, poco in linea con il cinismo Depalmiano, qui si vede che il film per il regista del New Jersey è su commissione, una cosa è utilizzare il suo tocco post-moderno per rielaborare alla sua maniera (nel limite del possibile, visti i vincoli dell’operazione) alcuni classici della fantascienza, ben altro paio di maniche De Palma ottimista, speranzoso nel guardare le stelle.
Tutta roba che addosso a Spielberg calza a pennello, dove persino James Cameron ha dimostrato di essere a suo agio (anche se nel suo caso guardando l’abisso, alla faccia di Nietzsche), cavolo! Persino John Carpenter ne è uscito molto meglio affrontando un tema del genere.
Il problema non è, quale di questi registi sia più bravo, piuttosto è chi sia più adatto a dirigere che cosa. De Palma che fa un film di fantascienza suona strano, più o meno come quando nel 1983 ne diresse uno di gangster, la differenza di risultato è abissale questo è chiaro, ma bisogna considerare anche la produzione alle spalle, i nomi coinvolti e sì, anche le motivazioni del regista, che per De Palma, va detto, non stavano proprio alle stelle.
Nei vari libri e interviste su De Palma che ho consumato per prepararmi a questa rubrica, “Mission to Mars” non trova quasi mai spazio (ah-ah), il che la dice lunga su quanto il suo regista lo tenga in considerazione. Il nostro Brian da Newark è uno che raramente parla bene perfino dei suoi film oggettivamente più riusciti, non ha parole buone per i suoi classi(d)i figuriamoci per questo. Eppure, nel fondamentale documentario “De Palma” (2015) di Noah Baumbach e Jake Paltrow, il regista del New Jersey schietto e sincero archivia questo film, costato cento milioni di dollari, capace di incassarne centoundici in totale, come quello che è: sto rispettando il budget e il piano di lavorazione? Sì. Mi sto divertendo? È quello che voglio fare per il resto della mia carriera? Proprio no.
L’unica soluzione per De Palma è continuare il suo schema, tornando al thriller, ma questa volta lontano da Hollywood, ormai un sistema che all’inizio degli anni 2000 stava iniziando a fare a meno degli autori, con tutte le conseguenze del caso. Dopo aver piantato la sua bandiera su Marte, per De Palma la prossima terra di conquista è l’Europa, per la precisione il tappeto rosso di Cannes, ma di questo parleremo tra sette giorni, sempre qui, con il prossimo capitolo della rubrica, fino ad allora, non dimenticatevi la rubrica Marziana di Lucius, per altri esempi di film dedicati al pianeta rosso.