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Mississippi Burning (1988): In quale stato devi tirare indietro l’orologio di un secolo?

Eeeh! Ehhhh! Belli voi! Facile voler bene a Gene Hackman per
film come “Il braccio violento della legge” (1971, sempre sia lodato!), ma
personalmente ho un culto per il vecchio Eugenio per un sacco di titoli, tra i quali “Il più bel film della storia del cinema” che per tutti gli altri s’intitola Hoosiers – Colpo vincente.
Insomma, visto che ormai si è ritirato dalla recitazione l’unico modo per vedere
Hackman in azione è in qualche suo vecchio film, per fortuna qualche
compleanno servirà a riportare Eugenio Mazzatore in auge, almeno qui sulla Bara
Volante.

Il 1988 è stata un’annata piena di titoli mica da ridere,
cioè, almeno uno parecchio da ridere,
però avete capito, no? Non sono mancati titoli che ancora oggi vengono ricordati
come dei grandi classici, vediamo se un po’ alla volta troverò il modo di
presentarli qui sulla Bara, ma siccome sono un essere contorto che fa tutte le
cose alla sua maniera (quella peggiore) partiamo da “Mississippi Burning”, per
due ragioni: la prima, sbaglio sempre a scrivere “Mississippi” mi scappa sempre
qualche lettera di troppo oppure in meno, quindi se scrivo un post su “Mississippi
Burning” di sicuro alla fine lo saprò scrivere giusto, la tecnica Bart Simpson
funziona sempre. Seconda ragione, forse un po’ più seria: passano gli anni, ma
questo film continua a restare purtroppo sempre attuale.

Qualche anno fa alla macchinetta del caffè con una mia
collega, mi sono ritrovato a dire che alcuni discorsi di Mario Borghezio,
sembravano quelli del sindaco Tilman di questo film, per altro, paragonando
Borghezio a R. Lee Ermey, ho fatto un gran complimento al primo e un brutto
insulto al secondo, da parte mia posso discolparmi dicendo che questa è l’unica
mia frase scritta o pronunciata su Borghezio che non preveda insulti e
bestemmie che non vi riporto perché metti che poi la Disney si compra anche
questo blog? Non voglio mica farmi licenziare dal mio stesso blog io, tzè!

“A chi cazzo mi hai paragonato soldato! Io ti faccio sputare l’anima! Giù e fammene venti!”.

Quando passavano in tv “Mississippi Burning” era sempre una
tappa obbligata, uno di quei film “Importanti”, che allora non sapevo neanche
davvero il perché tipo “Il colore viola” (1985) di Spielberg, da guardare con
su la faccia seria come se stessi davvero capendo tutto tutto. In realtà, non
capivo poi davvero tutto, però sapevo che c’erano dei poliziotti, uno era Eugenio
Mazzatore e l’altro uno con gli occhiali e la faccia strana, capivo che
l’indagine era roba grossa, che i cattivi erano particolarmente stronzi e il
clima rovente come quello del Mississippi, stato americano che forse oggi
imparerò a scrivere con tutte le lettere al suo posto, insomma: mi piaceva
quella roba.

Negli anni me lo sono rivisto alcune volte, non molte, ma
qualcuna sì, come ho fatto qualche giorno fa, con il tempo e le visioni i volti
che popolano il film mi sono diventati familiari (tipo, Willem Dafooooe) così come il suo regista, Alan Parker, uno che mi
ha preso a sberle con “Fuga di mezzanotte” (1978), “Pink Floyd The Wall” (1982)
ed esaltato con un mio cult personale “The Commitments” (1991).

Oddio adesso continuerò a ripetere Willem Dafooooe per ore! Willem Dafooooooooooe.

“Mississippi Burning” è ispirato all’assassinio degli
attivisti per i diritti civili del Mississippi, avvenuto nella contea di
Neshoba, appunto nel Mississippi (oh, se non imparo questa volta non imparo
più!) nella notte tra il 21 e il 22 giugno del 1964. Ed il 1964 è proprio
l’anno in cui il film è ambientato, quindi questo già mette sul tavolo la prima
caratteristica del film di Alan Parker, sì, perché gli Americani come tutti,
hanno tanti difetti, ma anche la caratteristica di utilizzare il cinema per
elaborare la loro storia anche recente, alla base di questa pellicola la
volontà chiara di guardare al proprio passato recente, con lo spirito critico
di chi sa benissimo che tra il 1964 e il 1988 qualcosa è cambiato, ma non poi
così tanto. Che poi, è più o meno come rivedere un film come questo datato 1988
oggi, nell’anno 2018 e poi guardarsi intorno e capire che sì, tutto bello, ma
davvero i progressi fatti non sono poi stati così tanti, anzi oggi più che mai
sembrano pochissimi.

Alan Parker mette subito in chiaro l’aria che tira fin dai
titoli di testa: fontanelle per l’acqua separate, “White” da una parte e
“Coloured” dall’altra, basta questo per capire che sono già stati gentili a
scrivere così e non una parola che inizia per “N” che fa incazzare Spike Lee (e
non solo).

Prima scena del film, e poi ditemi che i primi cinque minuti non sono importanti.

Poi, giusto per stare tranquilli, si parte con un
inseguimento in auto e due attivisti con un ragazzo di colore vengono
fermati dall’accento sudista di quel mito di Michael Rooker che, però, nel 1988
non era ancora così particolarmente famoso, malgrado il botto di quella
bombetta di “Henry, pioggia di sangue” (1986), quindi accettava piccolo ruoli,
pensate che in Nico gli è andata pure
peggio, lo si vede per circa tre secondi. Il problema per i tre ragazzi in
auto? Che Rooker qui somiglia più a quello di “Henry” che a quello di Nico.
BANG! La frittata è fatta, tocca mandar giù qualcuno ad indagare.

Siccome la questione razziale è un tema caldo, l’FBI non
bada a spese e manda due “Strambi sbirri”, la solita coppia male assortita di
agenti che per una volta è a ruoli invertiti, perché quello più alto in
grado è l’agente speciale Alan Ward (Willem Dafoe) giovane, ma non inesperto,
però molto scalpitante per risolvere il caso il più in fretta possibile e senza
scatenare un vespaio, o almeno, uno più grosso, l’altro, invece, è l’anziano, il
veterano che, però, deve prendere ordini l’agente Rupert Anderson che ha la
faccia stropicciata di Gene Hackman e penso sia l’agente EFFE BI AI meno
ordinato mai visto al cinema, camiciotto e cravatta, sembra più Sipowicz di
“New York Police Department” che il vostro classico agente del Bureau stirato e
inamidato. Uno dai metodi grezzi ma efficaci, farlo interpretare a quello che
ha vinto l’Oscar per “Il braccio violento della legge” è un’ottima intuizione,
se hai Eugenio Mazzatore, ti porti dietro tutto il suo bagaglio di personaggi,
tutta roba che tornerà buona nel finale.

“La camicia a maniche corte non è consentita” , “Tanto non frega a nessuno, qui al massimo indossano cappucci bianchi”.

Anderson canticchia irriverente la canzoncina del Ku Klux
Klan, sostiene che una risata a volte è tutto quello che ti resta e ci regala
il primo di tanti dialoghi tiratissimi e ben scritto di questo film: «In quale
stato devi tirare indietro l’orologio di un secolo? Il Mississippi».

“Dai ammettilo, è una grande battuta. Lo so che vuoi ridere ti vedo sotto quegli zigomi a punta”.

I due sbirri seminano subito lo scompiglio, si fanno notare
quando si siedono accanto ad un ragazzo di colore nell’area del ristorante a
loro dedicata facendo fin troppe domande e fanno subito “amicizia” con la
fauna locale, qui davvero le facce da cinema si sprecano.


Il vicesceriffo Clinton Pell ha le occhiaie e la faccia
rassicurante di Brad Dourif, fresco fresco dall’aver prestato la sua voce a
Chucky, la bambola assassina, no
giusto per farvi capire che soggettini si trovano davanti i nostri due sbirri.
Pell è spavaldo e viscido in parti uguali, uno così stronzo che ti fa pensare: “Ma come cacchio fa un bastardo del genere a stare con una caruccia come sua
moglie?”, per altro interpretata da Frances McDormand, al suo primo film non diretta
dai Fratelli Coen, a vederla così, viene da pensare che la Sig.ra Pell dopo il
gran casino di questo film, sia invecchiata per diventare l’incazzata
protagonista di Tre manifesti a Ebbing,Missouri.

“Di solito stai dall’altra parte della lama, non è vero… Chucky?”.

Una menzione speciale la merita l’adorabile sindaco Tilman,
un R. Lee Ermey che dopo aver cazziato in malo modo (e con ogni parolaccia
possibile) il soldato Palla di lardo in “Full Metal Jacket” (1987) è venuto
direttamente qui per continuare l’opera. La sua visione di come le persone di
colore dovrebbero stare al loro posto in questa porzione di America che espone
fiera la bandiera a stelle e strisce, ma con accanto SEMPRE quella confederata,
diventa difficilmente condivisibile, la bravura di Ermey sta nel non far mai
sembrare il sindaco Tilman il “Cattivo cattivissimo”, quello che si deve
opporre ai buoni e quindi posticcio, anzi per come parla risulta fin troppo
realistico.

Il bello di “Mississippi Burning” è anche la sua notevole
messa in scena: Alan Parker è bravissimo nel portare in scena un postaccio dove
l’odio si annusa nell’aria, grazie all’ottima fotografia di Peter Biziou (premiato con un Oscar), ti
basta guardare il film per sentirti i vestiti che ti si appicciano addosso dal
caldo, ma dove comunque la temperatura è il minore dei problemi.

“È troppo sperare che ci sia un concerto di Marilyn Manson in città?”.

Alan Ward con il suo budget infinito non bada a spese, serve
spazio per la base operativa? Lui compra un intero teatro! Servono persone per
battere la palude alla ricerca dei corpi? Lui fa venire giù l’esercito della
salvezza. Più cerca di usare la mano pesante, più il clima si fa pesante,
infatti le chiese e i luoghi di ritrovo delle persone di colore vanno a fuoco
con sinistra precisione e da questo nido di vespe, anzi di serpenti a sonagli
non se ne esce, a loro modo i due agenti lo capiscono, Gene Hackman si esibisce
in un «Quaggiù dicono che i serpenti a sonagli non si suicidano», mentre Willem
Dafoe riassume l’aria che tira dicendo: «Ma cos’ha in corpo questa gente?». Si
è capito che trovo i dialoghi del film una bomba?

Alla fine, però, un autore deve tenere sempre conto
dell’elemento cinematografico, quindi Alan Parker e il suo sceneggiatore Chris
Gerolmo, portano in scena quelle che potremmo etichettare come inesattezze
storiche, ma che mi è chiarissimo essere concessioni alla settima arte, come, ad
esempio, il fatto che il testimone chiave, quello che ha portato agli arresti
dei colpevoli nella realtà sia rimasto senza identità (e ci credo! Se voleva
continuare a vivere lì, le alternative erano poche), ma al cinema viene
impersonato dal personaggio di Frances McDormand.

Frances strappata a forza da un set con i Coen ed uno con Raimi.

 Alan Parker intelligentissimo ci mostra la scena chiave in
cui il “corteggiamento” (professionale, ma magari non solo quello) che sta alla
base delle dinamiche tra la signora Pell e l’agente Anderson avviene in bella
vista, ma non udito da nessuno. Parker inquadra i due personaggi dietro alla
vetrina del negozio dove lavora la signora Pell, da spettatori capiamo cosa si
stanno dicendo anche senza bisogno di sentire i dialoghi, il montaggio audio si
concentra sulle urla e gli insulti che arrivano dalla strada, durante la parata
pacifista della popolazione nera della città: narrare per immagini, è quello
che dovrebbe sempre fare il cinema.

Una parola, due sillabe, lingua, bocca, mangiare! Hai fame Gene? Ho indovinato?

A questo punto lo scontro arriva anche per i due agenti
dell’EFFE BI AI, proprio nel momento in cui la situazione tra bianchi e neri
diventa una polveriera, persino il fino a quel momento pacifico pastore della
comunità afroamericana, interpretato dal bravo Frankie Faison, sbraga malamente nel suo discorso mettendo in chiaro che
arriva il momento in cui certe barbarie non sono più accettabili («Guardate la
faccia di questo giovane e vedrete la faccia di un nero. Ma se guardate il
sangue che viene versato è rosso è come il vostro! È proprio come il vostro!»).

Il bello di questa stramba coppia di agenti è il loro essere
opposti nei metodi («Non mi metta sul suo piedistallo, signor Ward» , «E lei
non mi trascini nelle sue fogne, signor Anderson»), ma quando il momento lo
richiede persino l’integerrimo Ward capisce che «Questo barattolo di vermi sarà
possibile aprirlo soltanto dall’interno» e da qui in poi “Mississippi Burning”
diventa come un romanzo di Joe R. Lansdale quando i personaggi “Champion Joe”
passano al contro attacco. Non importa più se sei bianco, nero o se vai in giro
tutto ordinato e pettinato, conta solo fare la cosa giusta e per fare il bullo
con i bulli torna buono avere Gene Hackman dalla tua.

“Sono qui per indossare il mio capello e dare calci nel culo. E ho già messo il cappello”.

Il monologo del nero, a libro paga per l’agente Anderson,
che minaccia di tagliare i gioielli di famiglia al sindaco Tilman è la classica
scena che ti fa fare “Gulp!” anche se il sindaco è un gran bastardo, per
ritrovare qualcosa di tanto truculento ho dovuto aspettare di diventare un
lettore dei fumetti di Garth Ennis, quando mette da parte il registro grottesco
in favore di quello più realistico.

Una delle “Scene trauma” più sottovalutate della storia del cinema.

Quelli radunati all’agente Anderson sono
una tale banda di bastardi che per darvi un’idea vi dirò solo che uno di
loro (anche se si vede per circa mezzo secondo) è interpretato da Tobin Bell e
quando tra i tuoi puoi contare il crudele Jigsaw,
direi che sì, hai radunato una squadra che fa piuttosto paura!

“Salve, voglio fare un gioco con voi…”.

Il finale del film, quello in cui i serpenti a sonagli
iniziano a suicidarsi è piuttosto canonico, per me poteva anche concludersi con
lo sguardo sornione di Eugenio Mazzatore che fa ruotare le manette davanti al
naso di Michael Rooker, senza nemmeno bisogno di aggiungere altro per portarlo
dietro le sbarre.

Provate a dire a chi non è piaciuto questo film? A Spike Lee,
ovviamente, che da trent’anni muove sempre la stessa critica a tutti i film che
trattano la questione razziale, ovvero: la mancanza di un personaggio di colore
di rilievo. In questo caso è anche vero, ma è una critica da poco, perché
l’intento di “Mississippi Burning” è diverso, una volontà di guardarsi indietro
e capire che dal 1964 al 1988 non molto è cambiato, basta dire che nemmeno il
successo di critica e pubblico di questo film è servito poi a tanto, la prima
condanna per la morte dei tre attivisti è attivata solo nel 2000 (storia vera).

Faccia bianca, e cuore (incazzato) nero.

Quindi, per dirla come avrei detto da bambino: perché
“Mississippi Burning” è un film “Importante”? Perché ho finalmente imparato a
scrivere correttamente “Mississippi”? Anche, ma soprattutto per essere un
costante “Memento”, siamo sicuri che sia davvero l’unico Paese del mondo dove
bisogna tirare indietro l’orologio di un secolo? Non ne sono così convinto.

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