Il piano era semplice, concludere il 2024 con la prima parte della rubrica coprendo quanti più compleanni coeniani possibili, come ad esempio i primi trent’anni del film di oggi che per altro è il perfetto titolo per il periodo natalizio, mi piacciono i piani ben riusciti (cit.) quindi bentornati tutti all’ultimo capitolo dell’anno solare (prima della ripresa di gennaio) della rubrica… Coen, storia vera!
I fratelli Coen hanno questo enorme problema, che poi non è strettamente legato a loro ma ai cinefili che gli ruotano attorno, vengono considerati due registi “alti”, quando è chiaro che i loro cuoricini battano per il Noir, che amino i generi cinematografici più di molti veri o presunti appassionati di cinema e che abbiano avuto un inizio di carriera in cui, il regista a due teste come sono stati soprannominati, era quasi un regista a tre teste, l’ultima quella di Sam Raimi.
Dopo il successo e i premi a Cannes di Barton Fink, i nostri sono entrati nel circoletto dei registi considerati colti sì, ma nel modo sbagliato, quelli che se per caso dovessero mettersi in testa di sfornare un’altra screwball comedy con dosi abbondanti di Frank Capra, andrebbero presi subito a mazzate, natalizie, ma sempre mazzate.
Il soggetto di “Mister Hula Hoop”, traduzione in inglese più masticabile di un titolo originale ovviamente in inglese ma meno intuitivo al primo colpo, ovvero “The Hudsucker Proxy”, che arriva dritto dal periodo in cui i Coen vivevano in una sorta di comune hippie newyorkese insieme a Sam Raimi e scrivevano tutto il giorno, non è un caso che anche qui torni il nome Hudsucker (non più carcere ma azienda miliardaria) e che la storia inizi con un innocente in pericolo di morte, per poi riavvolgersi – letteralmente – per diventare un lungo flashback, insomma tratti distintivi in comune con il film che gli stessi cinefili e critici di cui sopra, hanno sempre cercato di nascondere sotto il tappeto, ovvero I due criminali più pazzi del mondo. Anzi, a dirla proprio tutta, per i maniaci dei dettagli come me, i grembiuli con la scritta Hudsucker Industries comparivano anche in Arizona Junior, dove si sentiva la stessa canzoncina intonata dall’angelo Hudsucker, quindi la continuità è innegabile, ma anche la sfortuna legata a questo progetto.
Il titanico produttore Joel Silver (con una predilezione per le coppie di fratelli registi, visto che nel 1999 avrebbe replicato) perse la testa per i Coen e il loro copione e non se lo fece ripetere due volte di produrlo, con un budget di venticinque milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti, successivamente lievitati a quaranta con la post produzione, Silver voleva Tom Cruise come protagonista, i Coen riuscirono a mediare per avere l’attore che desideravano loro, quel Tim Robbins caldo come una stufa nel 1994, che nell’anno di quell’altro grosso titolo famosino, qui con il suo Norville Barnes a tratti riesce ad essere più Forrest Gump di beh, Forrest Gump.
Eastwood in altre faccende affaccendato lasciò campo libero ad un altro grande vecchio come Paul Newman per il ruolo di Sidney J. Mussburger, mentre l’attrice più dimenticata della storia, Jennifer Jason Leigh, colei che ogni volta che torna tutti si ricordano di quanto è brava per poi scordarla un minuto dopo, già straordinaria a parere dei Coen per i provini di Crocevia della morte, era la scelta perfetta per la Lois Lane di turno, quella Amy Archer pensata per ricordare le grandi dive del passato come Katharine Hepburn e Rosalind Russell.
“The Hudsucker Proxy” è stato, ed è ancora, vittima di un classismo francamente inspiegabile e anche un po’ odioso, l’unica spiegazione che mi sono dato in questi trent’anni è che davvero il pubblico e i cinefili con decisamente più puzzetta sotto il naso dei Coen, da loro si aspettino prodotti alti, non è un caso secondo me se poi il regista a due teste si è lanciato nella satirica “Trilogia dell’idiota”, perché questo film per quanto mi riguarda è un gioiellino, la cui unica colpa è quello di essere considerato non lo so? Buonista? Natalizio? Ma d’altra parte se l’ispirazione sono titoli come “La vita è meravigliosa” (per la questione suicidi e la presenza di un angelo), “Mister Smith va a Washington” (l’ingenuo manovrato dal potere) e “È arrivata la felicità” (la giornalista senza scrupoli) come dovrebbe essere, scusatemi tanto eh?
A ben guardarlo “Mister Hula Hoop” è una sorta di Una poltrona per due (l’uomo qualunque messo a capo di un’azienda) con più soldi in ballo di un semplice dollaro – perché per i Coen sono sempre i soldi l’olio che unge e fa muovere gli ingranaggi del mondo – e abbondanti dosi di Frank Capra, il tutto con dialoghi a mitragliatrice scritti e recitati alla grande, tutte le facce giuste anche nei ruoli minori (dal barista beat Steve Buscemi, al narratore John Goodman fino a Sam Raimi che compare solo in silhouette) il film funziona alla grande, stracarico di satira in puro stile Coen e proprio per questo, malgrado l’ambientazione dicembrina, anti-natalizio proprio come il classico di Landis, solo che questo non passa in tv così spesso, il fatto che abbia incassato pochissimi e sia stato un sanguinoso flop al botteghino ha determinato la sua fama per i suoi primi trent’anni, proviamo ad invertire la tendenza? Sono qui per questo.
“The Hudsucker Proxy” oltre ad essere una riuscita satira sul potere e sul capitalismo, ben riassunta da scene fulminanti come Norville Barnes che cerca lavoro ma gli propongono solo ruoli che richiedono esperienza, oppure la perfetta formazione che l ricede il suo primo giorno («… E loro decurtano!») identica a quella che chiunque ha ricevuto o riceverà il suo primo giorno in qualunque posto di lavoro del mondo, riesce ad essere un grande film sul tempo, che gira e gira come beh, un Hula Hoop.
Come da tradizione i Coen iniziano con una voce narrante, un’abitudine collaudata nel loro cinema, il narratore, che più avanti scopriremo essere Moses (Bill Cobbs), fondamentale anche se compare solo in due scene, perché il resto del tempo ha il dovere di far funzionare il grande orologio Hudsucker che fa da metronomo a tutti i personaggi (e quando si ferma, salva loro la vita come in un grande deus ex machina con lancette), ci introduce ai minuti finali del 1958, un attimo prima che l’anno scivoli via e con lui, forse la vita del protagonista sul cornicione.
Dopodiché il narratore omnisciente e i Coen in versione demiurgo a due teste, controllano il tempo riavvolgendolo e riportandoci all’inizio della storia, mettendo in chiaro che tutti i personaggi sono in corsa contro Padre Tempo, lo è la giornalista che ricorda a tutti il suo premio Pulitzer impersonata da Jennifer Jason Leigh, che non guarda in faccia nessuno per trovare uno scoop sempre in corsa con le scadenze e circondata da maschietti spavaldi come il collega Smitty, impersonato dal pretoriano e amico di Raimi, un Bruce Campbell favoloso nel suo recitare con lo stile di un vero divo di Hollywood degli anni ’50, anche questa parte piccolissima, non la prima ma nemmeno l’ultima apparizione per lui in un film dei Coen.
Tutto il reparto smaltimento posta, con le sue spaventose lettere blu è dominato dal tempo così come l’ufficio di Sidney J. Mussburger, talmente potente da poterlo fermare per un secondo (quando al suo stop si bloccano anche le sfere dello scacciapensieri sulla sua scrivania), ma solo per un momento comico incredibilmente riuscito, perché alle sue spalle, in una scelta visiva e scenografica straordinaria (anche qui la fotografia è curata da Roger Deakins, scusate se è poco) l’enorme quadrante dell’orologio Hudsucker proietta la sua ombra e fa rimbombare il suo ticchettio alle spalle di Mussburger.
Tempo e soldi, quello a cui la società capitalistica ambisce e allo stesso tempo sente la mancanza costantemente, come Monty Brewster anche Norville Barnes ha un tempo limitato (fino a capodanno) per far inconsapevolmente perdere soldi alle Hudsucker Industries e farne guadagnare tantissimi allo Scrooge di turno, Mussburger, anche lui perseguitato per certi versi dagli spettri dei suoi ex soci in affari come nel racconto di Dickens.
Di mezzo una serie di sequenze una più mitica dell’altra, frutto di un gran lavoro di cinematografia e montaggio, sparando nel mucchio si può solo scegliere la vostra preferita, vogliamo parlare della doppia cucitura dei pantaloni che salva la vita a Mussburger? Oppure del “Montage” musicale sul lancio del grande progetto della vita di Norville, l’Hula Hoop messo sul mercato ad un dollaro e settantantanove centesimi, poi svenduto, regalato e infine diventato un enorme successo commerciale nel tempo di un brano epico di pochi minuti (Onore alle musiche di Carter Burwell)? La regia dei Coen non si discute, “The Hudsucker Proxy” è pieno di trovate visivamente brillanti tipiche del periodo in cui i due fratellini del Minnesota, giravano risentendo positivamente dell’influenza del loro terzo gemello (diverso) Sam Raimi.
Non so davvero cosa si possa criticare ad un film del genere, riesce a risultare classico e dinamico allo stesso tempo, fa ridere ed è costellato di prove di recitazione una migliore dell’altra, a tratti sembra di guardare un classico degli anni ’50, però a colori e con un regia ultra dinamica e delle trovate quasi meta narrative (non voglio usare la grande parola con la “D” che mette paura ai cinefili) che altrove, vengono normalmente celebrate anche quando sfoggiate in maniera molto meno brillante di come accade qui.
La colpa di “The Hudsucker Proxy” è quella di non aver spaccato i botteghini ed essere figlio del preconcetto di troppi cinefili per cui i Coen siano solo quelli della gente morta ammazzata male, anche se va detto, qui il numero di persone che si spiattella sul marciapiede volando per quarantacinque piani (quarantaquattro contando il mezzanino) è piuttosto alto e nel prossimo film di questa rubrica, saranno ancora di più. Ma questo sarà materiale per l’inizio del 2025, per ora ci prepariamo ai festeggiamenti di Natale e con i Coen ci vedremo dopo l’epifania… Storia vera!
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