Sono profondamente convinto che una scimmia possa migliorare ogni cosa, specialmente un film, quindi anche questa rubrica si gioca il fattore scimmia con il nuovo scimmiesco capitolo di… Lui è leggenda!
Ormai lo sanno anche i sassi, la mia passione per i film con le scimmie è un’ossessione manifesta che non ho mai nemmeno provato a nascondere, nel vasto mondo dei “Monkey Movies” la sottocategoria horror delle scimmie assassine è un capitolo a parte, ho voluto bene a titoli come “Shakma – La scimmia che uccide” (1990), oppure al più celebre Link, film inglese che ha un po’ inaugurato il genere nel 1983, però parliamoci chiaro: se il tuo assassino è una scimmia, in pochi saranno disposti a prenderti davvero sul serio, bisogna costruirci attorno tutto un gran circo (sì, sto pensando ad un certo film di Dario Argento che non cito per non rovinare il finale a chi non lo avesse mai visto), oppure avere un enorme talento per tirare fuori qualcosa di valido da una premessa del genere. E sapete chi ha due pollici e talento da vendere? George A. Romero!
“Monkey Shines”, tratto dal romanzo del 1983 di Michael Stewart, non solo ha una scimmia assassina, ma un protagonista quadriplegico che può muovere solo il volto e la sua sedia a rotelle elettrica per mezzo di un comando azionato con la bocca e, a volerlo analizzare anche bene, nella trama c’è anche un “Mad doctor” che fa esperimenti sugli animali. Voi provate a chiedere a qualunque regista di dover gestire questi tre elementi quasi da B-Movie che già presi singolarmente potrebbero mettere i bastoni tra le ruote a qualunque pellicola e il risultato sarà qualcosa di buono giusto per una serata alcolica tra amici, oppure al pubblico ludibrio in rete, magari con qualche scena estrapolata dal contesto. Ma George A. Romero (a “A” sta per scimmiA “Amore”, lo dirò ad ogni capitolo della rubrica) non è uno qualunque e “Monkey Shines” è un film, un vero film, anzi, anche uno di quelli veramente belli!
Figlio di una produzione idilliaca in cui tutto è filato liscio come l’olio? Ma figurati! Dopo aver completato la sua (prima) trilogia sugli zombie, Romero ha firmato questo film minore, per altro, su commissione, visto che si tratta della prima collaborazione tra due leggende: da una parte il nostro zio George e dall’altra la mitica Orion Pictures, ma con tutti questi miti tutti insieme, le scintille sono arrivate presto.
La Orion aveva il disperato bisogno di un film in grado di fare soldoni per risollevarsi dalla difficoltà economiche, una volta completate le riprese della pellicola nella solita Pittsburgh (città natale di Romero) la casa di produzione cercò di convincere in ogni modo il regista di aggiungere un finale lieto, rispetto a quello ben più ambiguo scritto e girato dalla Leggenda. Incassato il sonoro “NO!” di zio George, la Orion ha comunque modificato il finale inserendo una scena per far saltare il pubblico sulla sedia che ha fatto inviperire il grande regista che da allora non ha più voluto saperne di collaborare con una grande casa di produzione (storia vera).
Malgrado questi rimaneggiamenti (lasciatemi l’icona aperta, più avanti ci torniamo) “Monkey Shines” è un film bellissimo perché con la sua scrittura Romero tratteggia personaggi credibili, realistici con cui è molto facile patteggiare e provare empatia ed è un film girato benissimo. Per me sono i titoli considerati minori nelle filmografie che danno la vera misura del talento di un regista, considerando che Romero ancora oggi è (purtroppo) solo ricordato per i suoi film con gli zombie, “Monkey Shines” non può proprio invertire la tendenza, il che è profondamente ingiusto, perché gli appassionati di film con la scimmie già lo adorano, ma anche rivisto oggi, trent’anni dopo la sua uscita resta un film vero, grandioso e riuscitissimo, girato con soluzioni di regia che sono oro, Hitchcock aveva un protagonista con le gambe ingessate e Grace Kelly, Romero uno quadriplegico e una scimmia, ma il risultato è un thriller riuscitissimo che ha tutto per appassionare il pubblico anche oggi, su questo non ho il minimo dubbio, mai nella vita!
La Leggenda adatta il romanzo di Michael Stewart, alla sua poetica e ci racconta di Allan Mann (un bravissimo Jason Beghe!) grazie a cinque minuti iniziali che sono perfetti, non ve lo ripeto più: i primi cinque minuti di un film ne determinano tutto l’andamento. Qui Romero li utilizza al meglio per presentarci un personaggio e il suo tremendo dramma.
Allan è un atleta con una bella fidanzata di nome Linda (Janine Turner), una mattina si sveglia, si carica uno zaino di mattoni sulle spalle e va a correre, una roba che farebbe venire il fiatone anche a Son Goku, la musica di David Shire parte speranzosa come la giornata di Allan, mentre Romero con la macchina da presa inquadra le gambe del protagonista mentre filano un passo dopo l’altro sull’asfalto, va tutto bene, quando la musica svolta in maniera drammatica, una distrazione, un primo piano stretto sul radiatore di un camion e pum! La vita di Allan cambia per sempre, Romero ce lo fa capire solo mostrando i mattoni che volano in aria, per poi infrangersi a terra, come il corpo del suo protagonista. Questo si chiama, narrare per immagini, giovani aspiranti registi in lettura, potete prendere appunti se volete.
Il dottore che ha in cura Allan è un cretino, anche se Dorothy l’invasiva madre di Allan (Joyce Van Patten) lo definisce un genio, di fatto è il responsabile della condizione dell’uomo, ad interpretarlo è uno Stanley Tucci ad inizio carriera e con (quasi) tutti i capelli sulla testa che, per non farsi mancare proprio niente, nel frattempo si è anche spupazzato Linda, la fidanzata del suo paziente con una buona propensione per l’infedeltà, molto meno, invece, per le visite in ospedale durante la convalescenza del compagno. Insomma, quando pensate di aver avuto una brutta giornata, pensate ad Allan.
Il poveretto torna in una casa che conosce bene e anche se è stata completamente attrezzata per supportare la sua nuova condizione, non può fare davvero niente per alleviarla, nemmeno avere la sua castrante madre di nuovo in giro per casa è un bene, dài, cacchio, come può esserlo? La donna è addirittura raggiante, come se il suo bambino fosse tornato tale, nuovamente bisognoso della mamma per ogni sua aspetto della vita come quando era in fasce, volete sapere la mia? A me basta davvero questo per patteggiar per Allan, non credo ci sia nulla di più spaventoso di così.
Nemmeno l’infermiera pagata dalla madre fornisce il minimo aiuto concreto ad Allan, Maryanne è una generalessa che pare avere più a cuore il suo pappagallino Humphrey (si, come Bogart) piuttosto che il suo paziente, ad interpretarla è Christine Forrest, l’allora signora Romero che da sola garantisce la quota minima di attori provenienti dalla “Factory” del regista in questo film.
Vittima di un corpo che lo ha tradito, Allan è prigioniero dentro sé stesso, la sua condizione è il modo con cui Romero in questo film introduce un tema chiave e sempre presente nella sua filmografia: la perdita dell’identità. Allan non si trasforma in uno zombie, oppure si lascia corrompere dalla fama come accadeva ad alcuni dei cavalieri di Knightriders, però allo stesso modo Romero ci ricorda quando dover ripensare completamente a sé stessi a alla propria vita può essere doloroso.
Solo questo scenario iniziale, fa di “Monkey Shines – An Experiment in Fear” (titolo originale per esteso) un film molto più profondo e curato di qualunque vostro film con scimmia assassina, ma si sa che una buona idea per una storia, spesso è data dall’incontro tra due elementi agli antipodi che trovano il modo di funzionare insieme, proprio come accade ad Allan e alla sua scimmia cappuccina Ella.
Il miglior amico di Allan è uno scienziato parecchio eccentrico, ma armato di buone intenzioni di nome Geoffrey (il caratterista John Pankow), la sua ossessione è un esperimento per migliorare l’intelligenza che consiste nel somministrare ad alcune scimmie Cappuccine (che non sono quelle che vi portano la Brioches la mattina) una specie di “Succo di cervello”, una siringata di ghiandole presa da cervelli umani (si spera non “AB normal”) che pare sortire ben pochi effetti sulle scimmiette, tranne che sulla numero 6 ribattezzata presto Ella.
Ma con le preteste degli anti-vivisezionisti in corso, il capo di Geoffrey vuole risultati subito, con le promesse per il futuro non ci fai nemmeno l’insalata, quindi per proteggere Ella, il suo risultato scientifico più vicino a poter diventare un successo, Geoffrey affida la scimmietta alla bionda Melanie (Kate McNeil) addestratrice di scimmie cappuccine a supporto dei portatori di handicap e da lì a poco il posso che poterà Allan ed Ella ad incontrarsi sarà molto breve.
Ora, visto che mi sono auto battezzato “Scimmiologo” (noi pazzi facciamo di queste cose, non preoccupatevi), vi faccio vedere che due cose sulle SIMMIE le so per davvero, ad esempio che tra tutte le tipologie di scimmie, quelle cappuccine sono le più intelligenti e complice anche la piccola taglia, in alcuni Paesi come, ad esempio, gli Stati Uniti, vengono utilizzate proprio per supportare i disabili, un po’ come i cani guida per ipovedenti, ma dotate di pollice opponibile. Se vi state chiedendo se è possibile avere una scimmia cappuccina come animale domestico in uno strambo Paese a forma di scarpa, mi spiace la risposta è no, lo so perché mi sono informato e alla fine mi sono accontentato di un cane che sembra una scimmia (storia vera).
Tra Allan ed Ella è subito intesa, non è difficile comprendere il perché con una fidanzata scappata via con quel cretino del suo dottore e una madre castrante che lo tratta come un bambino, l’uomo beneficia subito della presenza di Ella, soprattutto dell’affetto di un animale che lo ama senza secondi fini, senza alcuna malizia e che non gli fa mai pesare la sua condizione, anzi lo aiuta nello svolgere le attività giornaliere, Allan ritrova il senso dell’umorismo (chiama Ella “la mia ragazza”) e dichiara che è rinato grazie a lei, insomma la porzione di film in cui tutto è pesche e crema.
Se una delle tematiche Romeriane ricorrenti è la perdita dell’identità, l’altra è sicuramente il modo in cui il “Mostro” ci viene raccontato, sempre immerso in una dimensione realistica come accadeva alle streghe di La stagione della strega o al vampiro in Martin, ma soprattutto per Romero i veri mostri, non sono mai quelli che lo sembrano davvero, se “Monkey Shines” fosse un film molto più banale di quello che è, Ella impazzirebbe e basta per dare il via alla parte sanguinosa della storia, mentre anche in un film minore su commissione (il vero banco di prova del talento di un autore) Romero tiene fede alla sua poetica.
Per prima cosa, sfido chiunque a guardare “Monkey Shines” e a non correre ad informarsi se è possibile avere una scimmia cappuccina come animale da compagnia (vi ho già risposto, mettetevi l’anima in pace) perché Ella è adorabile, sul serio è impossibile non trovarla più che fantastica, la scimmietta che la interpreta si chiamava Boo e per dare più espressività ai suoi versi (e le sue urla più avanti nella pellicola) è stato chiamato a “doppiarla” il mitico Frank Welker, doppiatore che prestava la voce ai molti dei Transformers e che curava tutti i versi degli animali in “Jumanji” (1995).
Quando da spettatore hai completamente capito il dramma di Allan e vorresti portati a casa Ella, a quel punto Romero ha creato lo scenario perfetto per trasformare tutto in un thriller incredibilmente efficace, sì perché il rapporto tra i due personaggi così uniti, diventa quasi simbiotico, Allan nelle sue notti agitate sogna di vedere il mondo attraverso gli occhi di Ella che, in qualche modo, trova sempre il modo di uscire di casa da sola, anche perché ogni giorno che passa, la scimmietta diventa sempre più intelligente, attirando le attenzioni di Geoffrey.
Nella poetica Romeriana noi umani siamo i veri mostri ed Ella qui risponde ai desideri e all’odio accumulato da Allan, a cui basta lasciarsi scappare un (nemmeno poi così incomprensibile viste le condizioni) desiderio di morte per la fidanzata che lo ha mollato e per il dottore con cui è scappata, che il giorno dopo arriva la notizia che entrambi sono morti nell’incendio della loro casa.
La Leggenda che con questo film gira una delle sue pellicole più eleganti dal punto di vista della regia, ci mostra una scintilla di fiammifero nel buio, per farci capire tutto quello che è successo, anche qui, altro materiale per gli appunti dei giovani aspiranti registi. Ella non è malvagia di suo, ma nel suo diventare sempre più intelligente, purtroppo sta imparando dall’umano di cui si fida totalmente, per dirla con le parole di Allan sta imparando a peccare. Io, invece, la direi in modo diverso, io direi che sta prendendo lezioni dall’animale peggiore che esista al mondo: l’uomo.
Tutto quello che succede ad Allan crea una reazione esagerata nella violenza di Ella, insieme diventano il braccio e la mente e se la mente è guidata dall’odio accumulato da Allan nel cuore per il suo destino avverso, la situazione non può che esplodere, se il pappagallino dell’infermiera Maryanne paga il prezzo più alto, colpevole di aver svolazzato pericolosamente troppo vicino al volto e agli occhi di Allan, provate ad immaginare quando l’uomo intreccerà una relazione con la bionda Melanie cosa potrebbe accadere…
In questo senso non mi capacito come uno come Jason Beghe, dopo un film così sia apparso un po’ ovunque (specialmente in tante serie televisive) senza sfondare mai, qui davvero riesce ad essere passivo aggressivo come il ruolo e la condizione del suo personaggio richiedono, dovendo recitare una gamma di sentimenti (detti e non detti) che metterebbe in difficoltà qualunque attore, soltanto con il volto. Una buona parte della riuscita del film la dobbiamo anche a lui, non solo alla piccola Boo.
George A. Romero apparecchia la tavola per un finale bellissimo, dove ogni piccolo dettaglio crea vera tensione nel pubblico (il filo del telefono che blocca la sedia di Allan, ad esempio) e in cui la regia della Leggenda risulta davvero perfetta, i primi piani sul volto del personaggio non solo ti, non voglio usare l’espressione “Inchiodano alla sedia” che uso sempre per non risultare indelicato, però avete capito. Se il volto è tutto quello che resta ad Allan, Romero punta su quello per mandare in scena una gara d’astuzia tra un uomo e un animale che ha imparato il peggio dalla nostra razza, una lunga sequenza realizzata alla grande che non si dimentica, una gara a chi è più intelligente, che si risolve tirando fuori il lato più bestiale di entrambi gli sfidanti, non aggiungerò una sola sillaba su questo bellissimo finale, andate a vederlo (o rivederlo) perché resta bellissimo anche a trent’anni dalla sua uscita.
Sappiate, però, che la scena piuttosto splatter (non potete mancarla, arriva dritta sparata in faccia al pubblico) è sì piuttosto riuscita, ma si tratta della porzione di film che è stata rimaneggiata dalla Orion, lasciatemi chiudere quell’icona lasciata aperta ad inizio post: il finale pensato originariamente da Romero prevedeva un epilogo con protagonista il capo di Geoffrey, il dottor Dean Burbage (Stephen Root) che dopo aver iniettato tutto quello che restava del “Succo di cervello” alle altre scimmiette del laboratorio, viene aggredito dai contestatori anti-vivisezionisti fuori dal laboratorio, il suo odio verso questo gli animalisti fa agitare le scimmie, in un finale che sarebbe stato la versione in grande del film appena visto, ma soprattutto molto più cinico e in linea con il pessimismo dei finali Romeriani.
Non so se “Monkey Shines” sarebbe stato un film migliore con questo finale, sta di fatto che anche nella versione voluta dalla Orion il pubblico non ha dimostrato di apprezzare, al netto di un budget di sette milioni di ex presidenti defunti stampati su carta verde, il film ne ha portati a casa appena cinque (gulp!) un’ingiustizia per un film così bello che nemmeno il tempo, forse, ha concesso la rivalutazione che merita.
Sta di fatto che al banco di prova del film minore su commissione, George A. Romero ha risposto non solo con un bellissimo thriller condito da ottimi momenti horror, ma ha anche sfornato uno dei più bei Monkey-Movies di sempre, se non è talento questo, allora il talento non esiste!
Prossima settimana, purtroppo basta con le SIMMIE, ma questa rubrica oltre ad una leggenda nel cinema horror, ne avrà ben due, entrambe diaboliche, tra qualche giorno qui, non mancate. Intanto, non perdetevi la locandina originale d’epoca di questo film, sulle pagine di IPMP e la recenZione del Zinefilo!
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