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Murder à la Mod (1968): comincia il viaggio nel cinema di Brian De Palma

Da diverso tempo, al sicuro dall’alto della mia Bara,
osservo, scruto, spio, in attesa del momento giusto per colpire, direi che i
tempi sono maturi, dopo averla più volte promessa, il momento per iniziare una
rubrica su Brian De Palma è arrivato, quindi vi do il benvenuto al primo
capitolo di… Life of Brian!

Classe 1940, Brian Russell De Palma (elencare il nome per intero
denota subito la mia professionalità, vera o presunta) nasce a Newark nel New Jersey e cresce a Philadelphia, ancora oggi è ricordato come uno dei registi più influenti della New Hollywood,
ma queste sono le informazioni che conoscono tutti, quella che un po’ viene
ignorata è la sua lunga gavetta. Per essere stato un ragazzo appassionato di fisica, che
amava costruire computer, videocamere e altri dispositivi di vario genere
(insomma un vero nerd), il nostro Brian aveva sviluppato un interesse per le
registrazioni degli omicidi famosi, in particolare quello del presidente
Kennedy, uno così da grande poteva diventare solo due cose: un sociopatico
oppure uno dei registi più famosi del pianeta, grazie ai suoi film ossessionati
dalle immagini, dall’atto di osservare le vite altrui e tutto quello che
comporta.

De Palma con un paio di amici suoi, credo siano due registi, roba così.

Da buon nerd esordisce con un paio di cortometraggi:
“Icarus” (1960) è la storia del Dio Pan sbarcato a New York, mentre “660124:
The Story of an IBM Card” (1961) parla di un pittore che deperisce sempre più mentre procede con la sua creazione, un lavoro definito dallo stesso De Palma come folle, terribilmente pretenzioso nel suo ispirarsi spudoratamente a Ibsen, con tanto di simboliche partite a scacchi. Tra i tanti lavori giovanili di De Palma, il regista passa attraverso
diversi formati mettendo in scena tutte le sue influenze, che vanno da Michael Powell a Jean-Luc Godard (di cui
per un po’ De Palma, ambiva ad essere la versione americana, storia vera) fino,
ovviamente, Alfred Hitchcock, il più
palese tra i nomi di riferimento del regista di Newark.

Con “Woton’s Wake” (1962) De Palma porta in scena tutta la
sua passione per Godard, ma anche lo spirito estremamente citazionista del suo
cinema, con una storia che potremmo per comodità etichettare come horror, anche
se a ben guardalo sembra un incrocio tra un film di Bergman e un video di Bob
Dylan, considerando che non manca la citazione alla partita a scacchi di “Il
settimo sigillo” (1957), prende amorevolmente in giro “La dolce vita” (1960) con un finale che strizza l’occhio al King Kong del 1933, visto che il
protagonista Woton, interpretato da William Finley (attore feticcio di De
Palma, presente in molti dei suoi primi lavori) che è una specie di creatura
mostruosa con cappello a cilindro e passatempi da guardone e quando non spia
coppiette dai lucernari si ritrova incastrato in una storia tipo la bella e la
bestia, con abbondante utilizzo di musiche e momenti di umorismo grottesco,
quasi una palestra per i futuri fantasmi del palcoscenico Depalmiani.

Le prove generali per i Winslow Leach che verranno.

Non ho avuto modo di vedere “Jennifer” (1964) e “Bridge That
Gap” (1965), anche se De Palma non li ama, il primo in particolare è stato un lavoro voluto dai suoi professori dell’istituto Sarah Lawrence dove lavorava, Brian avrebbe voluto girare un secondo capitolo di “Woton’s Wake” (storia vera). Posso dirvi, invece, che per quanto piuttosto divulgativo nella forma, “The
Responsive Eye” (1966) offre già una primissima chiave di interpretazione per
tutto il cinema futuro di De Palma, il cortometraggio è a tutti gli effetti un
breve documentario su una mostra d’arte moderna tenuta presso pensate un po’,
The Museum of Modern Art di New York, non fa una piega. Tra le varie interviste
agli organizzatori, William Seitz, il conservatore del MoMa, illustrando la
optical art spiega come l’esperienza percettiva non corrisponda spesso ai dati
fisici, perché le opere degli artisti agiscono in modo da stimolare la visione.
Siamo agli albori del cinema di De Palma è giù pronti via, ecco un tema chiave:
l’esperienza percettiva, il gioco di specchi (scriverò questa frase mille volte
da qui alla fine della rubrica, garantito al limone), che è un punto
fondamentale di tutto il cinema di De Palma.

Non si sta mai tranquilli in un museo, de De Palma è in zona.

“Show Me a Strong Town and I’ll Show You a Strong Bank”
(1966) ha un titolo fighissimo che promette grandi scene di rapine in banca, in
realtà è solo un altro corto, commissionato dal dipartimento del tesoro, su un
sopralluogo a sorpresa che dovrebbe fare da deterrente ai delinquenti, poca
roba, insomma, utile a DePalma ad accumulare un po’ di fondi per i suoi lavori successivi, ma è con “Murder à la Mod” (1968) che Brian De Palma comincia a
fare sul serio.

Scritto, diretto e montato da De Palma, “Murder à la Mod”
non solo è un titolo perfetto per riassumere al mondo tanto del cinema futuro
del regista, ma è una commedia con momenti da Thriller, in cui il nostro può
iniziare ad elaborare le influenze dei suoi maestri.

Dimmi che registi ti piacciono, senza dirmi che registi di piacciono.

Subito dopo i titoli di testa con tanto di canzoncina
orecchiabile che canticchia il titolo del film (una settimana per togliersela
dalle orecchie, storia vera), il film, in realtà, è il secondo girato da De
Palma, ma essendo uscito in sala prima di “Oggi sposi” (1969) è a tutti gli
effetti ricordato come l’esordio del buon vecchio Brian, che qui ci racconta la
stessa storia da tre punti di vista molto diversi uno dall’altro.

La trama principale ruota attorno ad un delitto: una giovane
modella (bionda, alla moda Hitchcockiana) s’innamora di un regista di film
indipendenti, che le fa girare una scena dove viene uccisa con un punteruolo da
ghiaccio conficcato nell’occhio, salvo poi poco dopo a riflettori spenti,
venire uccisa proprio nello stesso modo, la vita (o la morte?) che imita l’arte,
ma soprattutto, De Palma che paga il suo debito con L’occhio che uccide, io vi avviso, non sarà di certo l’ultima volta
che lo farà in carriera. Basta dire che è proprio De Palma a prestare la voce al regista fuori campo, mentre intervista l’attrice, un trucco che ripeterà identico anche in “Black Dahlia” (storia vera).

Vi ho beccati che guardate eh? Degenerati.

De Palma ci racconta l’omicidio attraverso tre punti di
vista differenti: il primo per ovvie ragioni, quello della ragazza, senza
tirare via la mano sui vari contorni romantici del suo coinvolgimento amoroso
con il regista, il secondo punto di vista è quello del regista stesso, qui De
Palma può scatenarsi utilizzando momenti di suspence, tutti debitori del cinema
di Alfred Hitchcock. L’ultimo punto di vista è quello che abbraccia uno stile più
grottesco, De Palma analizza parte del contenuto del film nel film stesso,
affidandosi come narratore al suo attore feticcio, il solito William Finnley,
che qui interpreta un attore di film horror sordomuto, in una porzione di
cinema tutta basata su gag visive a metà tra Godard e il cinema muto. Ci sarà
un motivo se De Palma è considerato il più citazionista dei registi della New
Hollywood, no? Quella sua capacità di partire da elementi consolidati, se
vogliamo anche già visti, per portare lo spettatore altrove, lo rende ancora
oggi il padrino del post-moderno, così ho utilizzato una bella frase da
cinefilo colto, come se lo fossi davvero (seee! Credici).

Bill Finnley, il primo degli attori feticcio Depalmiani, lo troveremo spesso da qui alla fine della rubrica.

Al suo primo film uscito in sala, De Palma rende già omaggio
ai suoi tre maestri e qui non si rischia di fare la figura dei cinefili con la
pipa e gli occhiali, dicendo che s’intravedono già tutte le ossessioni
cinematografiche del regista del New Jersey, i semi di quei temi che verranno
sviluppati di più e meglio nei suoi futuri lavori, a breve su queste Bare.

“Murder à la Mod” richiede un minimo di sforzo durante la
visione, ma con i modelli di riferimento di De Palma chiari nella testa, è
molto più semplice seguire la vicenda e capire dove il regista voglia portarci,
più difficile sarà togliervi dai neuroni la canzoncina sui titoli di testa: Muuuuuurder
à la Mooooood! Praticamente un trapano nel cervello.

I titoli di testa, validi anche come Karaoke.

“Murder à la Mod” è una visione interessante per scoprire le
origini e la gavetta di un futuro Maestro della settima arte, lo stesso De
Palma non lo ha mai amato troppo questo film, per sua stessa ammissione
etichettato frettolosamente come “Un brutto Corman o piuttosto un Bergman che
cerca di copiare Roger Corman”, severo e autocritico, questo bisogna
riconoscerlo a De Palma, ma bisogna riconoscergli anche che come uno degli
assassini dei suoi film, sarebbe tornato su questi stessi temi ancora (e ancora
e ancora!) con risultati davvero notevoli.

Come assaggio e introduzione a questa rubrica che si
prospetta lunga, oggi ci fermiamo qui, la prossima settimana, invece, andremo
più nel dettaglio, perché arriveranno altri dei primi lavori del regista di
Newark, risparmiate il fiato, questa sarà una maratona!

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