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Mute (2018): Berlin Runner (i figli dell’era silente)

Non sono uno di quelli che ama citare Quentin Tarantino per darsi un tono, ma il regista di Knoxville da grande conoscitore delle carriere di tanti suoi colleghi ha messo giù una teoria interessante.

Quella per cui quando un regista riesce finalmente a trovare i fondi per dirigere un titolo a cui tiene molto, il più delle volte viene fuori un mezzo disastro, oppure un grosso flop al botteghino, Tarantino parlava avendo in mente Il falò delle vanità di Brian De Palma, ma si potrebbe quasi dire lo stesso per Duncan Jones e la sua nuova fatica, “Mute” che a dispetto del titolo, sta facendo molto parlare di sé. Specialmente male.

Io sono figlio di un cantautore che sembra felice poi cambia umore. In un anno l’avrò visto un paio d’ore, una volta ha detto anche il mio nome alla televisione.

Niente oggi sono di umore “Citazionariello”, tornano buone la parole di Caparezza quando in “Figli d’arte” riassumeva la condizione di tanti figli famosi, tra cui potrebbe annoverare anche Duncan Jones che immagino tutti sappiate essere il figlio di David Bowie.

Se pensate che il 2016 sia stato un anno di merda perché abbiamo dovuto salutare per sempre il Duca Bianco che è tornato sul suo pianeta (ciao David), provate a pensare di che materiale dev’essere stato il 2016 di Duncan, che oltre a perdere il padre, ha sbattuto il naso contro uno scoglio chiamato “Warcraft”, un disastro fantasy che sapeva tanto di clamorosa battuta di arresto per una carriera fino a quel momento promettente.

Meglio il freddo Berlinese in maglietta, pur di non dirigere mai più orchi dentuti in CGI.

Già non è semplice essere il figlio di uno degli artisti più unici della storia della musica, inoltre dopo l’ottimo esordio con “Moon” (2009) e il solido “Source Code” (2011), gli orchi dentuti di Warcraft non si potevano proprio guardare per più di una ragione. Quindi, il nostro Duncan è corso nuovamente tra le braccia amorevoli della fantascienza, un genere che pare molto più nelle sue corde, il risultato è “Mute”, una storia a cui Jones lavorava da 14 anni, dove ha riversato moltissimo di se stesso, basta dire che il film è dedicato alla memoria di suo padre e alla bambinaia che lo ha cresciuto, quindi tornano buone le parole di Caparezza.

Ora, se fossimo ad Hollywood, questa storia finirebbe con Duncan Jones che zittisce tutti, al grido di «MUTI!» con un film che ci lascia tutti senza parole come il protagonista, invece, eh… Invece ciccia, perché “Mute” non è proprio pesche e crema, purtroppo.

A ben guardarlo, è sicuramente un lavoro molto coerente, in questa Berlino futura dell’anno 2052, il protagonista Leo Beiler (Alexander Skarsgård) è muto fin dalla tenera età per colpa di un incidente, fa il barista in una discoteca e, a pensarci, è proprio il lavoro per lui visto che con la musica alta di solito nei locali si comunica a gesti. Quando la sua fidanzata dai capelli blu Naadirah (Seyneb Saleh) scompare, Leo s’improvvisa investigatore per ritrovarla ed è qui che incrocia la strada di due medici americani in fuga e in attesa di documenti nella città tedesca, il primo è Cactus (Paul Rudd con baffoni a manubrio cespugliosi) il secondo è Duck (l’ossigenato Justin Theroux). Il primo è un trafficone con delle brutte camice, il secondo per certi versi pure peggiore.

Il blu è un colore caldo (Questa la capiranno in dodici)

Nelle intenzioni di Jones, “Mute” è una specie di “sequel spirituale” del suo “Moon”, questo spiega anche in parte il piccolo cameo di Sam Rockwell, insomma Jones si lascia tentare dall’idea dell’ennessimo universo espanso cinematografico, per ora nessuno ha ancora avuto il coraggio di battezzarlo come “Duncanverso”, ma se dovesse prendere piede, ricordatevi dove lo avete letto per la prima volta, poi, semmai Jonsey, io e te aggiustiamo dopo.

A ben guardarlo, i segni di continuità del cinema di Jones non mancano, Leo è di nuovo un uomo “Rotto” un po’ come accadeva in “Source Code”, purtroppo il film ha diversi difetti, primo tra tutti una certa ambizione di fondo.

Sì, perché se “Moon” si rifaceva idealmente e con un dodicesimo del budget a “2001 Odissea nello spazio” (1968) di Stanley Kubrick, “Mute” ha l’insana idea di elaborare un altro titolone di fantascienza, ovvero Blade Runner di Ridley Scott. Il problema è che gli unici a fornire a Jones dei fondi per produrre la sua idea sono stati quelli di Netflix, ancora alla ricerca di una credibilità che quando si parla di produrre serie televisive hanno, per i film, decisamente meno.

Sushi. So hat meine Ex-Frau mich immer genannt. Kalter Fisch (speriamo di non aver insultato nessuno in tedesco!)

Ora, restatemi vicini che questo mio passaggio cerebrale è un po’ contorto. Se vedo un film in cui il protagonista è muto e con un’evidente connessione con l’elemento acquatico, ormai non posso non pensare al bellissimo La forma dell’acqua di Guillermo Del Toro, dove il personaggio di Richard Jenkins sosteneva di essere nato troppo presto, oppure troppo tardi rispetto al suo tempo, ecco, si potrebbe quasi dire lo stesso di “Mute”.

Con un budget di una ventina di ex presidenti defunti stampati su carta verde, Jones non ha davvero i mezzi per rivaleggiare con il Ridley Scott dei tempi d’oro, il risultato finale è l’ennesimo futuro buio, piovoso e illuminato con i neon che ormai sa di fotocopia di “Blade Runner”, un tipo di iconografia che, per assurdo, non è stata ripresa nemmeno nel sequel ufficiale del film, ovvero Blade Runner 2(049), il che fa intuire che Denis Villeneuve sia un po’ più astuto, oppure meno votato al suicidio. Perché così facendo, rischi che il tuo film, sembri una puntata a caso della serie “Altered Carbon” prodotta proprio da Netflix, anche lei enormemente debitrice del look creato da Ridley Scott e per altro estremamente pallosa, mi sono smaronato dopo due episodi, ma i miei informatori mi confermano che andando avanti non migliora.

La locandina in stile “Casablanca” non è male, anche se un po’ ambiziosa.

Dare un’ambientazione Berlinese al film, è un chiaro omaggio a papà David, una mossa molto azzeccata, in cui Jones s’impegna a creare un mondo credibile sfruttando i dettagli, i più gustosi sono i poster del campionato “8 Nation” di Rugby (che immagino nel 2052 prevederà anche la Germania, chissà se per allora l’Italia sarà riuscito a vincerne uno), oppure il drone volante per la consegna del cibo a casa, ecco quello farebbe comodo anche a me!

Purtroppo le trame del film sembrano fare costantemente a pugni e piano piano l’ambientazione futurista perde completamente di importanza ai fini della trama, resta giusto un tocco di colore che serve a mostrare personaggi vestiti in modo stravagante e la palma del peggio vestito la vince Dominic Monaghan, il Charlie di Lost, qui conciato in versione “Memorie di una Geisha”, una roba orribile, non fatemici pensare!

Il personaggio di Leo Beiler è interessante, funziona l’idea di farlo interpretare a quel cristone di Alexander Skarsgård, questo Amish che rifiuta la tecnologia in un mondo iper tecnologico, uno che usa ancora la carta e la matita, quando tutti digitano e “Spimpolano” schermi digitali, peccato che l’intuizione vada totalmente persa, oserei dire come lacrime nella pioggia, giusto per stare in tema.

Una sveglia analogica (rotta) in un mondo digitale.

Sì, perché svariati minuti vengono rosicchiati dal personaggio di Cactus, il medico ex militare, però, non risulta interessante come il barista muto e recalcitrante nei confronti della tecnologia, inoltre mi viene da pensare che sia stata una scelta voluta quella di Duncan Jones, di far interpretare un mansueto Amish ad uno Svedese alto 1.94, mentre affidare il ruolo dell’ex militare all’1 e 78 di Paul Rudd. Anche se sull’altezza non mi metterei a scherzare con Rudd che nei panni di Ant-Man ha dimostrato di poter cambiare statura a piacimento.

Quelli che risultano essere quasi due protagonisti alla pari, sono al centro di trame che non si amalgamano bene tra loro, quando poi la storia chiede al personaggio di Justin Theroux di salire di colpi, purtroppo risulta ben poco carismatico, o forse a quel punto ero io che non avevo più alcun interesse per questa indagine ben poco avvincente.

Lo ammetto candidamente: il momento in cui “Mute” ha perso tutto il mio interesse è stato quando Naadirah si è messa a scrivere un indirizzo sul libretto degli appunti del suo fidanzato Leo. Il classico momento da spettatore in cui hai voglia di urlare al protagonista: «Hello! Hello MacFly? C’è nessuno in casa? Passa con una matita sopra il foglio per ricalcare l’indirizzo scritto sulla pagina strappata hellooooooo».

Cosa che lo sveglissimo Leo, decide di fare solo dopo una quarantina buona di minuti, peccato che questa trovata usata e stra abusata nei classici Hard Boiled a cui avidentemente “Mute” s’ispira, ormai non abbia più senso, perché nel 1998 i Fratelli Coen hanno messo fine per sempre ad ogni discussione, quando hanno diretto “Il grande Lebowski” un film che metabolizzava così bene i classici Hard Boiled da poterli prendere in giro alla perfezione. Se vi ricordate come finiva la scena del taccuino ricalcato con una matita da Dude (o Drugo se preferite il doppiaggio italiano) in quel capolavoro, potete immaginare che risate mi sono fatto io guardando “Mute”.

«Amico mio, stai per entrare in una valle di lacrime. Smokey, segna zero» (Cit.)

Voi dite che vedo citazioni dove non ci sono? Forse, ma allora perché dopo la scena del taccuino, Duncan Jones mette Paul Rudd e Justin Theroux impegnati a parlare del più e del meno, proprio durante una partita di Bowling? Tana per Duncan!

Forse un giorno, quando la filmografia di Duncan Jones sarà lunga e piena di titoli, vedremo questo film come una nota in un grande pentagramma pieno di idee estremamente coerenti, ma per ora sembra un’indagine poco avvincente e una pellicola non completamente risucita, da uno come Duncan Jones mi aspetto di più di così.

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