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Nato il quattro luglio (1989): la lunga strada verso casa

La guerra per qualcuno è un ideale, quasi uno stato di nobiltà, per altri è un’industria che ti mastica e ti sputa, questa Bara che ama solo le guerre dell’immaginario apprezza da sempre chi sa raccontarla, con la testa ben avvitata sulle spalle, come il titolare del nuovo capitolo della rubrica… Like a Stone.

Talk Radio è stato un film arrabbiato, bellissimo e purtroppo dimenticato, perché la Storia viene scritta dai vincitori e ad Hollywood sei tale se il tuo film porta a casa soldi e magari qualche premio, ma per Oliver Stone la guerra del Vietnam è molto più che un’ossessione o un tema ricorrente. Qualcuno sostiene che la definizione facile di autore sia un artista che tratta sempre lo stesso tema, magari da svariate angolazioni, o con diverse sfumature, è una semplificazione ma ha un senso, anche se a ben guardare per il nostro Oliviero Pietra il ‘Nam è una tesi da analizzare, un caso di studio, un clamoroso errore da cui si può uscire davvero solo affrontandolo, per cercare di capirlo fino in fondo nella speranza di non ripeterlo più. Questo approccio richiede verità e la verità è spesso scomoda, poco gentile, anche un po’ maleducata, insomma tutti termini che si adattano bene anche al cinema di Stone.

Come abbiamo visto “Nato il quattro luglio” è stata una lunga rincorsa, un veterano soccorso, caricato a bordo durante la sua marcia nella giungla di Hollywood, nel tentativo di portare il suo soggetto del cuore sul grande schermo. Non me la sento di dire che sia una sceneggiatura sentita e ricercata dal regista tanto quando quella di Platoon, giusto una tacca in meno forse, perché come abbiamo visto nel corso della rubrica, la prima bozza di “Born on the Fourth of July”, tratto dall’autobiografia omonima di Ron Kovic, avrebbe dovuto essere un film diretto da Sidney Lumet e interpretato da Al Pacino prima di naufragare, e rinascere dalla volontà di Stone di continuare a trattare quello che per lui è un tema da studiare. Con Platoon il regista ci ha portati laggiù, raccontando la verità dal punto di vista dei soldati, per altri meno testardi sarebbe stato un punto di arrivo, per Stone la punta dell’iceberg, la “sporca guerra” è stata un affare così marcio da meritare ben più approfondimento, perché per ogni (ex) ragazzo come Oliviero Pietra che ce l’ha fatta a tornare, quasi sano di mente, con tutti i pezzi del suo corpo al loro posto e funzionanti, altri non sono stati così fortunati, a tanti è andata come a Ron Kovic.

Ci vogliono due veterani per spiegare davvero l’assurdità della guerra.

Ironicamente nato il giorno dell’indipendenza americana, nel primo anno subito dopo la Grande Guerra, quella combattuta dalla generazione dei migliori che si sono opposti al Nazismo, Ron Kovic è figlio oltre che dei coniugi Kovic, anche di una dottrina che non poteva che essere di parte, Dio, Patria, Santa Guerra (o Guerra Santa) che non solo era considerata giusta, ma quasi un rito di passaggio prima di laurea, matrimonio e villetta con giardino, cane e un paio di marmocchi. Il famigerato “American way of life” degli anni ’50 che si è scontrato di faccia con la realtà degli anni ’60 e soprattutto con la guerra del Vietnam.

Oliver Stone non ha mai nascosto, nemmeno nella sua autobiografia intitolata “Cercando la luce” (2020, edita da la nave di Teseo) che l’incontro con Ron Kovic gli ha cambiato la vita e un po’ anche le posizioni politiche, critico con l’amministrazione Reagan, Stone ha trovato nell’ex marine e poi attivista e scrittore degna spalla, infatti la sceneggiatura del film i due l’hanno scritta a quattro mani facendola girare parecchio sulle scrivanie di Hollywood, i tempi si sono dimostrati maturi solo nel 1989 anche grazie all’interessamento di un altro nome in rampa di lancio, quello di Tom Cruise.

Tommaso Missile, in rampa di lancio, capito no? (Ok la smetto!)

Nessuno in realtà era poi così disposto a finanziare un soggetto del genere con l’attore di roba per ragazzini come “Risky Business” (1983) o “Cocktail” (1988), ma Tommaso Missile era anche quelle delle prove generali per i ruoli da Oscar di “Rain Man” (1988), la sua determinazione la conosciamo bene, è quella che ancora oggi lo ha conservato in vetta lassù, tra i migliori di Hollywood, però nulla mi toglie dalla testa che messo da parte l’instabile Charlie Sheen, Stone provasse un certo gusto nello sbandierare l’ironia di fondo: il divo di un film di propaganda come Top Gun nel ruolo di Ron Kovic. Puro Stone al 100% dico io!

Testa dura per testa dura, con Cruise il regista si capisce al volo, la leggenda urbana che circola è che i due fossero ben d’accordo per combinare per qualche tecnica che paralizzasse sul serio le gambe all’attore, in preda all’actor studio più estremo, venendo a mancare la sicurezza di una tale mossa (folle), Cruise ha comunque optato per passare molte più ore del necessario sulla sedia a rotelle per calarsi nel ruolo e le chiacchiere per quello che mi riguarda stanno a zero: qui Tommaso Missile ha dimostrato di non essere solo patrimonio dei poster per le pareti delle camerette delle ragazzine, ma anche un attore, con la sua ben nota determinazione votata a due cause, una quella di Stone e l’altra, l’obbiettivo di portarsi a casa un Oscar. Missione tutt’ora impossibile per il futuro Ethan Hunt, che ci ha ferocemente riprovato dieci anni dopo, diretto da Kubrick e da Pitì Anderson, ma poi l’ha definitivamente data su, abbracciando un altro obbiettivo, quello di morire in sacrificio per noi sul grande schermo, eseguendo il prossimo stunt impossibile in prima persona.

Lui sì che ha davvero il desiderio di morte fin troppo familiare a tanti reduci (solo che lo utilizza a modo suo)

“Born on the Fourth of July” è il più Spielberghiano dei film di Oliver Stone e non mi riferisco solo al coinvolgimento di John Williams, che con la sua colonna sonora porta a undici il livello di enfasi di parecchie scene, la volontà di Oliviero è quella di raccontare una parabola americana, quella che altrove o in un mondo ideale, finirebbe con un trionfo a stelle e strisce, ma siccome la Storia è andata leggermente a Sud, il tutto ci viene raccontato nel puro stile di Stone, con quella sua feroce volontà di realismo sempre lanciata in faccia al pubblico in maniera anche spudorata, perché tante volte è l’unico modo di raccontarla, anche al costo di esporsi a critiche di retorica.

Il primo atto di “Nato il quattro luglio” è tutto così, bambini che giocano alla guerra e parate per il giorno dell’indipendenza, tutta una lunga preparazione al giorno in cui sarebbero diventati uomini, e a ben guardare la storia del piccolo Ron Kovic, con il suo berretto da baseball e i trionfi sul diamante sembrano i sogni di gloria del personaggio di De Niro in The Fan, con la madre che in preda ad un Edipo che lèvati ma lèvati proprio, per il figlio azzecca predizioni in cui un giorno parlerà alla folla sì, ma non come arriverà a farlo poi per davvero. I fuochi d’artificio, il primo bacio ad una ragazza, John Williams che ci da dentro, sembra la fine di un film di Spielberg invece è l’inizio di uno di Stone e si capisce dai piccoli tocchi sovversivi sparsi qua e là.

Se siete alla ricerca di un lieto fine facile, considerate questa la fine del film (anche se è solo la fine nel primo atto)

La ragazza del bacio va alla partita di Ron sì, ma mano nella mano con un altro, e quando il ragazzo cresce la finale di lotta greco-romana si conclude con il nostro steso a terra, a riflettere su una sconfitta che è uno scivolone per il perfetto ragazzo americano che è, anzi, che è destinato ad essere, un errore che va cancellato immediatamente seguendo la tradizione di famiglia, ovvero arruolandosi nei Marines e qui, spero non vi sfugga l’ironia, nel ruolo del sergente addetto all’arruolamento, Stone sceglie ancora una volta Tom Berenger, che non ha (ancora?) le cicatrici in faccia come in Platoon, ma rappresenta ancora la figura autoritaria, il “padre” inflessibile che è sempre uno dei temi di tanti personaggi del regista.

Soldato Berenger richiamato in servizio da Stone.

Anche se la mia parte preferita di questo lungo “ritorno a casa” per Ron Kovic è proprio la parata, i veterani che saltano sul posto allo scoppiare dei petardi sono l’ennesima visione sul futuro del protagonista, oltre a farmi tornare alla mente le parole di un pezzo bellissimo come “And the Band Played Waltzing Matilda” di cui vi consiglio la versione dei Pogues: e quei vecchi marcian piano con le ossa rigide e malandate, sono dei vecchi eroi stanchi di una guerra dimenticata. E i giovani domandano “Per cosa stanno marciando?”, ed io, io mi chiedo la stessa cosa.

… And I ask myself the same question.

La fine del primo atto? Un trionfo, quasi un lieto fine romantico, con la corsa sotto la pioggia, il ballo della scuola e il bacio a Donna (Kyra Sedgwick) ve lo dico fuori dai denti? Ogni volta che vado a rivedermi “Born on the Fourth of July” (e lo faccio sempre con gran piacere ma mai alla leggera) penso che questa porzione del film, sia il prequel sul tenente Dan di Forrest Gump che non sapevamo di volere, ed è molto sensato che sia raccontato così, per dare ancora più spessore al resto della storia. D’altra parte, Tom Cruise ovunque va, ci va correndo no?

«Questa volta è meglio se ci vai spingendo sulle ruote»

La fotografia che tende verso al blu della prima parte, passa ovviamente al rosso della bandiera con l’inizio brutale del secondo atto, la porzione di film che Stone avrebbe voluto girare in Vietnam, ma per via dei rapporti ancora tesi con gli Stati Uniti, si è dovuto accontentare di girare nelle Filippine, esattamente come Platoon, che poi è anche la porzione di film dove diventa chiaro che no, non è un film di Spielberg, ma decisamente uno di Stone visto che Ron sbatte ripetutamente il nasone dell’attore che lo interpreta contro la verità della guerra. La scena della ricognizione e il contenuto delle capanne dopo le smitragliate a caso è solo la prima di tante scalpellate date volutamente da Stone alla statua eretta al mito della guerra, che continua con quella scena che riesce ad essere esteticamente bellissima (anche grazie alla fotografia e al montaggio) ma drammatica per contenuto, resa doppiamente tale quando Kovic prova a confessare ad uno dei suoi superiori, anche se il concetto di “Fuoco amico” è un tabù nell’esercito americano quasi come il fatto che questa guerra maledetta la stia perdendo, per altro nel più sanguinoso dei modi.

Il momento cardine, quello in cui il corpo e la vita di Kovic si spezza in due è la ferita, il colpo d’arma da fuoco che lo paralizzerà dalla vita in giù, costringendolo a vita su una sedia a rotelle. Il primo mese del mese del cambiamento, il 1968 coincide con la morte e la rinascita del reduce, a cui viene data l’estrema unzione sì, ma solo per risvegliarsi all’inferno, ed è qui che come in Fuga di Mezzanotte, una storia che ti ha già picchiato, si infila il tirapugni.

I pugni, i calci e le fratture esposte. Insomma il vostro normale secondo atto scritto da Stone.

L’ospedale militare è un inferno di topi, vomito e altro sudiciume (anche umano), la “bella” notizia della sua paralisi viene data a Kovic dall’attore che faceva il direttore stronzo in “Le ali della libertà” (mi sembra logico no?), ma il nostro protagonista di restare su una sedia non ha nessuna intenzione, appena riesce a fare due passi finisce faccia a terra con una frattura esposta. Spudorato? Esagerato? Un modo di raccontare coltello tra i denti? Certo, è lo stile di Stone ed è proprio quello che ci vuole quando vuoi raccontare la verità ed è qui che “Nato il quattro luglio” si gioca le sue carte migliori.

«Maybe just to be there so I’d wish I was back here again» Anonimo soldato americano citato in “Nam” (1983) di Mark Baker.

Sarebbe stato facile trasformare questa biografia in un’agiografia, fare di Ron Kovic un martire, un Gesù spezzato inchiodato su una sedia per i peccati del suo Paese, sarebbe stata la soluzione facile e ammettiamolo, anche paracula, Stone invece continua sulla stessa linea e trova in Tommaso Missile la faccia (da schiaffi) giusta. Anche tornato a casa il suo Ron è ancora uno stronzo, inutile girarci attorno è impossibile farselo stare simpatico malgrado tutto quello che ha passato perché il personaggio non si è ancora liberato della sua arroganza, qui il martirio vero di Kovic comincia perché convinto di meritarsi un trattamento speciale, per aver sacrificato gambe (e virilità) sull’altare della patria, qui scopre di essere solo un numero, un danno collaterale, un eterno “memento mori” su ruote per una nazione che non vuole ricordare di aver perso una guerra. Anche la rinascita di Ron sarà un percorso doloroso, in cui compare l’altro “padre” del personaggio, l’anima più critica e “fricchettona” che non può che avere ancora una volta il volto e gli zigomi di Willem Dafoe, il cui Charlie sembra quasi il sergente Elias K.Grodin se mai fosse tornato dal ‘Nam.

«Sai, Drugo, anch’io ho sguazzato nel pacifismo un tempo. Non in Vietnam, però» (cit.)

Per altro, il duello prima su ruote e poi a cazzotti proprio con Charlie, così centrale per l’evoluzione del protagonista, è stata anche l’ultima scena girata da Stone per il suo film, correndo per cercare di non perdere la luce migliore per girarla (storia vera), per altro mi colpisce sempre come la selezione musicale scelta da Stone, quella ad Ovest della colonna sonora firmata da Williams, sia quasi identica a quella di Forrest Gump ma con un utilizzo decisamente meno manicheo delle canzoni, ed è solo quando Ron ha toccato il fondo, interpretato sacrificando corpo e aspetto da sorridente divo da Tommaso Missile, che il nostro può fare davvero i conti con quanto accaduto laggiù e ripensare alla sua vita.

La confessione alla famiglia del commilitone a cui Ron sa di aver involontariamente sparato è la scena barometro di un film pieno di grandi momenti emotivi, il fatto che a farla sia il ragazzo nato il quattro luglio fa di essa l’ammissione di colpe che le famiglie dei reduci non hanno mai ricevuto dal loro governo, il bagno di umiltà, un battesimo alla fonte della verità che questa volta sì, è la vera rinascita di Ron, da qui in poi non patteggiare per lui è impossibile, la marcia di protesta sulle note della marcetta di Stalag 17 (o Die Hard 3) è la carica del nuovo esercito di Ron, quello che lotta per un ideale come la pace.

Supporta le NOSTRE truppe, riportateli a casa.

Il finale in crescendo è davvero la conclusione ideale per questa storia, che è un lungo e tormentato ritorno a casa, una prova di regia splendida per uno fino a quel momento preso più sul serio come sceneggiatore, oltre che la prova da vero attore di uno che ehi, oltre ai sorrisoni da un milione di dollari, sa anche recitare! Per altro, una menzione speciale la meritano i volti noti di cui il film è costellato: Stone si ritaglia il solito cameo nella parte di un giornalista, ovviamente critico nei confronti del Vietnam, ma non mancano nemmeno piccole parti per John C. McGinley, Michael Wincott e persino il fidato Dale Dye, veterano passato alla recitazione. Anche se il tocco ironico che preferisco riguarda Alec Baldwin, caro Alec hai dichiarato che non lavorerai mai più con me? Bene allora io in “Nato il quattro luglio” faccio recitare tutti i tuoi fratelli, Stephen, William e anche Daniel, tiè!

Billy Baldwin per altro, sostituto volante di Tom Sizemore (storia vera)

“Nato il quattro luglio” riesce ad essere classico e caustico in parti uguali nello stile, passano gli anni e lo trovo un “memento mori” riuscitissimo che andrebbe visto e rivisto costantemente, oltre a mettere in luce il talento di Tommaso Missile è anche un film tosto ma bellissimo, ho pochi dubbi, anche questa volta il nostro Oliviero Pietra ha mandato a segno un Classido!

La volontà di raccontare il Vietnam anche dal punto di vista dei reduci colpì il pubblico e l’Accademy, la concorrenza in gara nel 1989 era davvero notevolissima, tanto che i sogni di gloria di Cruise finirono per infrangersi contro una prova monumentale di Daniele Giorno-Luigi in “Il mio piede sinistro”, mentre gli Oscar portati a casa dal film sono stati due, uno per il montaggio ad opera di David Brenner e Joe Hutshing e l’altro proprio per la regia così ispirata di Oliver Stone. Ma più che l’aver battuto la concorrenza di Allen, Weir e Sheridan, il vero punto di arrivo per il regista è aver ricevuto la statuetta direttamente dalla mani dell’uomo che è stato il suo primo Maestro di cinema, Martin Scorsese. Il discorso di Stone invece? Quello di un artista ormai avvezzo a tale palcoscenico, il che vuol dire sobrio (anche nel tasso alcolico nel sangue questa volta) e con le idee chiare.

“Nato il quattro luglio” è la consacrazione di Stone anche come regista, ideale secondo capitolo di una trilogia sul Vietnam che a ben guardare, è più che altro una figura geometrica a più vertici, ovviamente ne parleremo, ma prima, bisogna passare da una biografia all’altra, anche la prossima, molto importante per Oliver Stone, spero siate pronti a fare un salto dall’altra parte, tra sette giorni balzeremo oltre le porte della percezione.

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