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Nel paese delle creature selvagge (2009): Where the wild things are

Dopo Into the wild, tocca al secondo capitolo della “Trilogia
delle terre selvagge” firmata da Quinto Moro, lascia la parola a lui mentre a voi
auguro buona lettura!

“L’infanzia è un bel posto e vale la pena lottare per esso”

Era il 2009. Non lo so perché ci fossi andato: uno spettacolo a mezzanotte passata per un film che sembrava destinato a un pubblico di bambini. Inusuale. Regia di Spike Jonze. Non sono uno di quelli che “oh, io adoro Spike Jonze” solo perché ho visto “Coffee and Cigarettes” di Jim Jarmush, e senza non saprei nemmeno chi è Spike Jonze. È quello di “Essere John Malkovich”. Embè? A me bastava il titolo “Nel paese delle creature selvagge”, con quella locandina con il pupazzone grosso e peloso e il bambino vestito da lupo. Mi immaginavo un film angosciante e magari un po’ horror se lo mandavano in sala a quell’ora. Fatto sta che c’ero solo io. È stata la prima e unica volta in cui mi sia ritrovato completamente solo al cinema. Storia vera. E anche se non aveva niente di horror che potesse giustificare un orario tanto suicida, devo dire che la sua dose di angoscia me la mise addosso eccome.

“Nel paese delle creature selvagge” è tratto dal racconto illustrato di Maurice Sendak, risalente agli anni ’60, brevissimo e scarno nella narrazione ma fascinoso nei disegni e nell’immaginario che riusciva ad evocare. E contrariamente a tante opere in cui gli autori perdono il potere appena s’affacciano a Hollywood, Sendak riuscì a puntare i piedi perché lo realizzasse Spike Jonze, mandando a quel paese nientepopodimenoché la Universal, facendo passare la produzione di mano purché fosse Jonze a realizzarlo. E Sendak ci aveva visto giusto.

“Non importa se siamo mostri. Carini e coccolosi ragazzi, carini e coccolosi…”

Il più grande complimento che possa fare a Spike Jonze è avvicinarlo a un certo Hayao Miyazaki, perché questo film è una delle più sincere e sfaccettate rappresentazioni dell’infanzia che mi sia capitato di vedere. Certo “l’uomo incantato” (è così che chiamo Miyazaki e forse ci torneremo qui sulla Bara…) è tutt’altra cosa, altro stile e altri intenti, ma il film di Jonze è quanto di più simile ad un film in live action dello Studio Ghibli. Jonze per quanto geniale non è certo un autore prolifico, il che basta a garantire che se gira un film, è per farlo come si deve, col suo stile sempre pervaso da una vena surreale: è l’uomo delle storie che partono dalla realtà e si trasformano in qualche follia, un po’ allegorica, un po’ giocosa, e non rinuncia mai a una nota di oscurità. Quel brivido, quell’ombra proiettata sui suoi protagonisti c’era nel finale di “Essere John Malkovich”, c’era nel “Ladro di orchidee”, in “Her” e c’è pure qui. E Jonze sa raccontare a parole sue quanto sia selvaggio lo spirito dell’infanzia sin dalla primissima scena: il piccolo Max che rincorre il suo cane vestito da lupo, abbaiandogli contro proprio come una bestia… Applaudiamo tutti signori! Un regista che non vede l’infanzia da dietro la lente del “qualcuno pensi ai bambini!” Max è selvatico, iroso e irascibile, ed è fragile e timido. È tutto quel che un bambino è. Senza i filtri dello sguardo adulto. Piange, grida, corre, gioca, morde. Immagina. Finge. Inventa. Sa essere vendicativo e amabile. Nei primi dieci minuti Jonze ci racconta tutto il suo mondo (quello reale) prima di spedirlo tra le creature selvagge: la madre single, la sorella adolescente, la fantasia malinconica di Max (la scena del racconto di vampiri e palazzi che camminano è un gioiello).

La trama è un archetipo narrativo collaudatissimo: un bambino che si ritrova a visitare un mondo bizzarro e fantastico, in cui tanto il gioco quanto paura e angoscia sono le parole chiave. Le creature selvagge sono l’altro capolavoro della sceneggiatura, sanno essere spaventose e ambigue, non ci fanno mai sentire del tutto al sicuro. Il racconto va avanti per simboli: il fortino sulla neve, distrutto dagli amici della sorella di Max, diventa il centro del sogno di una casa nelle “terre selvagge”, con un rifugio da costruire tutti insieme per difendersi dai mali del mondo, ma anche da “chi non piace”.

Sembrano dei teneroni, ma sicuri di volerveli sognare la notte, se sono alti tre o quattro metri ed hanno la tendenza a divorare quel che gli capita?

Bellissimi i mostracchioni, ciascuno cela in sé una personalità ben distinta e sanno suscitare simpatia, antipatia o inquietudine a seconda di come si relazionano tra loro e cosa dicono, e non da come appaiono su schermo. Non è cosa da poco se sono frutto di un miscuglio tra CGI, animatroni e i vecchi cari pupazzi, con gli zamponi di pelo sintetico e la fisicità e mimica di chi sta sotto il costume. Oh, poi va detto che per un film del genere ha goduto di un budget esagerato recuperato per il rotto della cuffia, ma se non altro non è una boiata che trasforma i mostri in pupazzoni vuoti per avventure caciarone.

Tecnicamente è tanta roba, per l’abbondanza di scene in esterni che sanno creare una commistione perfetta tra realtà e sogno, con una fotografia perfetta e scenografie stupende (per lo più reali, in barba alla CG). E chissà che razza di ciofeca sarebbe venuta fuori con un altro regista pupazzo (è il caso di dirlo) d’una grande major, magari la Disney, pronta ad indorare la pillola per non spaventare “i bambini! Qualcuno pensi ai bambini!” stilizzando sia il racconto che il tratteggio dei mostri. Fato scongiurato per il rotto della cuffia, visto che le creature selvagge parevano destinare alla realizzazione in animazione tradizionale o interamente in CG, o come immaginava il papà di “Toy Story” John Lasseter, una forma di animazione ibrida. Certo mi sarebbe piaciuto vedere questo film realizzato da Big John, ma i tempi non erano maturi e credo ci sia andata meglio con Spike Jonze. C’è pure una citazione, con la madre di Max nei primi minuti…

“Può spiegarmi cosa al sig. Lasseter non è piaciuto del mio resoconto?” – “Signora, forse lei è troppo in carne e ossa per i suoi gusti. Provi con meno rughe e più pixel”
Dopo l’ottima premessa di tutti i piccoli momenti umani, Max da “Re Lupo” attraversa situazioni sempre più intense e difficili, con il surreale che si tinge di emozioni complesse e molto umane con ciascuno dei suoi bizzarri amici, con un occhio sia all’infanzia che alla complessità delle vicende adulte. I fitti intrecci di relazioni tra le creature selvagge e lo stesso Max non si prestano a facili metaforoni, si intuisce qualcosa, un eco qua e là, ma non c’è mai niente di urlato. Il rapporto tra Max e Carol, e tra Carol e tutti gli altri, è tanto complesso da non lasciare spazio a una lettura banale, tanto che a momenti sembra uno specchio di Max e pure del suo opposto, un’incarnazione della sua anima più selvaggia, o forse quella di un padre che in scena non vediamo mai. Tutto è lasciato all’interpretazione, e forse bisognerebbe solo lasciarsi andare al racconto e al flusso degli eventi.
Ho apprezzato il non banalizzare il percorso di Max, che non è necessariamente “di crescita” quanto piuttosto ritrovare la dimensione di se stesso: che enormità questo concetto se parliamo di un bambino! (I bambini, qualcuno pensi ai bambini!)
Max è il primo vero “mostro selvaggio”, ma il percorso che affronta lo porta ai limiti del suo essere tale. Il doppio valore del film sta sia nel parlare “la lingua dei bambini per i bambini” senza indorare la pillola, usando momenti inquietanti e spaventosi perché sì, i bambini ci convivono con la paura, tanto di ciò che li circonda e non capiscono, sia di ciò che è del tutto ignoto. E si riesce a rappresentare l’infanzia a chi l’ha dimenticata, ribaltando i soliti pipponi socio-filosofici, sbugiardando le seghe mentali di un milione di psicologi dell’infanzia, perché se è la vita ad imitare l’arte, allora sono i grandi autori a saper spiegare certe cose con la sensibilità del racconto in barba alle contorsioni cervellotiche dei mestieranti della mente infantile.
Qualche psicologo darebbe a Max del satanista represso, sicuro. Io ci vedo Bart Simpson e Milhouse.

A rivederlo oggi, mi ha dato un gusto ancora più forte. Perché diciamocelo, con l’ossessione della “società occidental-hollywoodiana” per la famiglia che tira da ormai troppi anni a questa parte, quando mai ci capita di sentirci dire che: “è difficile essere una famiglia”. Bam! Una frase per sfanculare ‘sto po-pò di cinema mainstream che spinge brutalmente sul senso di appartenenza al piccolo gruppo, mentre “Nel paese delle creature selvagge” la convivenza non è tutta rose e fiori, anzi è l’ennesima potenza della difficoltà di comunicazione, del relazionarsi, perché tante personalità differenti faticano ad equilibrarsi. Perché a volte basta un’antipatia a pelle per trasformarci in buoni e cattivi, e la simpatia per il nostro vicino più prossimo può anche metterci dalla stessa parte di un mostro fuori di testa. E mentre siamo abituati a vedere adulti con i più improbabili costumi e tutine da eroi, un bambino in pigiama da lupo riesce a spiegarci tutte le contraddizioni di amicizie e famiglie. Ragazzi, non è una critica ai cinecomic, ci ho campato un ventennio sui cinecomic, ma che gran sollievo vedere un racconto di formazione infantile smantellare pezzo per pezzo un ventennio di banalità preconfezionate.

Colonna sonora fantastica che lavora bene in ogni momento, ascoltare per credere…

P.S.
Mille grazie a Quinto Moro per aver recensito il film!
Vi invito tutti a passare a scoprire qualcuno dei suoi lavori, che potete trovate QUI.

Tra sette giorni vi ricordo l’ultimo appuntamento con la “Trilogia delle terre selvagge”, non mancate!

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