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No time to die (2021): non ho tempo di morire (devo scrivere un post)

Il venticinquesimo film dedicato all’agente segreto più famoso della storia del cinema è stato rimandato così tante volte, che ho temuto seriamente gli cambiassero titolo in “No time to uscire in sala”, ma Barbara Broccoli figlia del fondatore della EON Productions e attuale detentrice dei diritti cinematografici sul personaggio creato da Ian Fleming, ha tenuto duro.

Già perché se rimandare l’uscita in sala di un Black Widow qualunque è complicato, farlo con uno 007 è quasi impossibile, troppi i contratti da onorare con gli sponsor paganti che sono tanti, davvero tanti, perché Bond, James Bond, è da sempre status symbol, dall’orologio alla macchina, fino ai vestiti firmati, ci sono più interessi economici di quelli che ha in ballo la Spectre, quindi da un certo punto di vista, un’uscita su qualche piattaforma streaming sarebbe stato un disastro economico ma in un’ottica più romantica, chi può salvare le sale cinematografiche spopolate, se non l’agente 007?

La produzione di “No time to die” è stata a dir poco travagliata, anche perché Daniel Craig – e qui devo selezionare attentamente le parole che sto per utilizzare – non ha mai nascosto di essersi leggermente stufato del personaggio, con un contratto per cinque film, dopo il terzo ha lanciato velati messaggi del tipo: «Piuttosto che interpretare di nuovo James Bond preferirei suicidarmi» (storia vera). Cosa avrà voluto dire con questo messaggio così criptico, sibillino e ben poco chiaro? Sta di fatto che Barbara Broccoli per evitare il suo suicidio tenerlo a bordo, lo ha dovuto ricoprire di soldi, facendo diverse modifiche anche alla storia, che però hanno fatto storcere il naso al regista, quindi tenendo a bordo Daniel “James Blonde” Craig, la Broccoli ha perso Danny Boyle, che già era abbastanza recalcitrante di suo, ci ha messo anni a convincersi a dirigere uno 007 e con Craig così ben disposto verso il film, ha pensato bene di scendere dalla barca.

«Craig, faresti un altro Bon… Craaaaaaig!» (il pietrone, miglior attore non protagonista)

Ecco perché “No time to die” è il primo film di questa quasi sessantennale saga, a non essere diretto da un Inglese. In cabina di regia troviamo il re delle sostituzioni al volo in stile cestistico, Cary Fukunaga che dopo aver perso la regia di IT, qui ha potuto rifarsi ampiamente, anche perché parliamoci chiaro, “No time to die” funziona e rispetta lo strano andamento dei film dell’era Daniel Craig: l’ottimo “Casino Royale” (2006) che rilanciava il personaggio, riportandolo sotto i riflettori che aveva un po’ perso negli anni ’90, seguito a ruota dall’inguardabile “Quantum of Solace” (2008) anche noto come “Quantum of Sòla”, uno scivolone da cui si sono ripresi con il bellissimo “Skyfall” (2012), per poi intrupparsi nuovamente nel pasticciato Spectre, tentativo non riuscito da parte di Sam Mendes di ripetere il miracolo. Paragrafo con pareri del tutto personali e soggettivi (quindi ignorabili)? Mi sa che vi tocca.

Tutti vorrebbero essere come James Bond, tranne il James Bond in carica.

Non ho mai avuto una gran predilezione per lo 007 di Daniel Craig, a cui spero qualcuno affidi il ruolo di Vladimir Putin in una biopic sulla sua vita (Oliver Stone? La palla è nel tuo campo), ma in ogni caso bisogna riconoscere che l’operazione di rilancio incominciata nel 2006 non solo ha riportato uno dei personaggi, se non IL personaggio più iconico dell’immaginario occidentale all’attenzione di un pubblico che lo aveva un po’ dimenticato, ma Daniel Craig è stato fondamentale in questo percorso. Per certi versi i cinque film dell’era Craig fanno quasi reparto da soli, non voglio dire che non siano in continuità con tutti gli altri film della saga, però il personaggio impersonato da Daniel Craig è sempre stato un po’ più umano e meno “spaccamontagne” rispetto agli altri film e ai romanzi di Fleming. “No time to die” non solo continua in questo solco ma mette la parola fine a questo rilancio in cinque film e no, non vi sto rovinando il finale, lo sanno anche i sassi che Craig sta facendo le capriole sulle mani, finalmente libero dal personaggio potrà fare il detective dall’accento buffo in tutti i seguiti che vorrà, ma se posso dire la mia, se sputi nel piatto dove mangi e fai quel tipo di affermazioni di un personaggio come Bond, che ti regalerà in automarico un posto d’onore nella storia del cinema, anche solo per esserti infilato lo smoking una sola volta, beh caro Daniele, sei un bravissimo attore ma simpatico non mi starai mai.

Mi state leggendo, o guardate la Bond Girl col vestito da sera? (non serve rispondere)

Per certi versi “No time to die”, dei cinque film con Daniel “James Blonde” Craig è quello dove ogni elemento di contorno è finalmente in linea con il canone, abbiamo attraversato quattro film di assestamento, in cui ogni elemento doveva andare al suo posto, ed ora che abbiamo una Eve Moneypenny (Naomie Harris), un Q (Ben Whishaw) e un M (Ralph Fiennes) quasi aderenti al canone, in questo film il personaggio meno canonico sembra proprio James Bond. Forse mi sarò fatto influenzare dalle affermazioni di Craig, ma a memoria mia non ricordo di un altro titolo in cui il protagonista sia così in fuga dal suo personaggio – o forse si, ci vediamo alla fine sel post – eppure allo stesso tempo così sul pezzo, a Daniel Craig fa così schifo essere ancora James Bond (anche con tutti i soldoni ricevuti) che quella stanchezza e quel disinteresse per tutte queste roba da spia, sono diventata la cifra stilistica del suo personaggio, uno che incastrato nella gag in cui allo sportello dell’Mi6 qualcuno gli chiede di completare la storica frase, presentandosi come «Bond, James Bond», lo fa con un tale scazzo da essere totalmente funzionale ad un personaggio a cui non frega più nulla di fare l’agente segreto. Anche la provocazione di dare il suo numero e il doppio zero della licenza di uccidere (quando sarebbe stato più logico chiamarla semplicemente 008, no, non come Lancilotto) alla nuova agente Nomi (Lashana Lynch), lo lascia quasi totalmente indifferente.

A proposito della nuova famigerata 007 che ha fatto tanto arrabbiare molta gente su “Infernet”, durante la (lunga) attesa del film: solita polemica in rete. Le curve di Lola Bunny erano il problema più grosso di Space Jam – New legends? Secondo me no quindi stessa cosa, la nuova 007 ha un ruolo di rivale ma da quello che sembrava, dovevamo aspettarci un film con lei assoluta protagonista, quando invece il cuore del film è tutto su Bond, qui più James che agente doppio zero, non vorrei dire un (ex) 007 in absentia ma quasi, come ben sottolineato dal prologo del film.

Forse vi ricorderete di lei per le solite polemiche in rete, ma anche no (per fortuna)

Cosa vi dico sempre dei famigerati primi cinque minuti di un film? Sono quelli che ne determinano tutto l’andamento e da sempre, i primi cinque minuti di un film di James Bond possono essere iconici, Cary Fukunaga ha uno stile e una classe nel dirigere che pochi altri hanno, infatti il suo film fino alla scena con Palomba (tenetemi l’icona aperta su di lei, più avanti ci torniamo) a Cuba ha un ritmo assolutamente impeccabile, poi cala per motivi fisiologici (e di narrazione) ma i 163 minuti totali, pur percependoli tutti, da spettatore posso dire che filano via piuttosto bene, ma l’inizio del film è davvero da manuale.

I famigerati cinque minuti iniziali di un film, che qui sono ottimi.

Il prologo è tutto senza Bond, ci viene raccontato il passato di Madeleine Swann (Léa Seydoux) e viene introdotto il cattivone di turno, che mette in chiaro quando in cinque film, il Bond dell’era Craig sia passato dal compassato (quasi) realismo di “Casino Royale” ad abbracciare in tutto e per tutto le trovate Bondiane, basta dire che il cattivone ha un nome straripante e quasi fumettistico come quello di Lyutsifer Safin, ma funziona molto, ma molto meglio finché non è mostrato, un nemico dal volto coperto da una maschera Nō tipica del teatro giapponese, minacciosissimo e mortale, che viene un po’ sprecato quando si rivela essere quel prezzemolino di Rami Malek, con il volto massacrato dagli effetti della diossina (perché per i cattivi Bondiani vale sempre la kalokagathia) che però nel corso del film si attesta sul solito cattivone, specchio riflesso (se ti muovi sei un fesso) del protagonista, con il solito piano non ben precisato di decimazione globale, insomma un altro Thanos, di cui non si sentiva il bisogno, con ben poca personalità perché nei film moderni ad essere cesellati ormai sono solo i protagonisti, anche se in questo film come detto, Bond è in lotta con se stesso, quindi per una volta, posso anche accettarlo senza lamentarmi (troppo) dello spreco del Blofeld di Christoph Waltz.

Solo all’uscita delle scuole vedo i SUV volare così.

Dal prologo iniziale sul ghiaccio diretto da Cary Fukunaga che mi ha fatto rimpiangere tantissimo la sua versione di “IT”, si passa alla scena girata in Italia, dalle parti di Matera, lo sfondo per la storia d’amore tra il quasi in ritiro Bond e la sua Madeleine, su cui aleggia ancora l’ombra di Vesper, il personaggio femminile che spezzò il cuore a Bond in “Casino Royale” creando questa deriva quasi da Kelvin-verso del personaggio, il Craig-verso composto da cinque film che fanno storia a parte: se amata il Bond classico, l’indistruttibile spaccamontagne, facile che non amerete molto questo film (o i quattro precedenti), perché in questi cinquina di titoli e in “No time to die” in particolare, per la prima volta scopriamo che essere Bond non è tutto belle donne e Vodka Martini (agitati e non mescolati), ma è anche una buona dose di pena e sofferenza per il protagonista, che dopo aver patito gli effetti del tempo che passa (in “Skyfall”), ora fa i conti con le conseguenze del suo stile di vita.

Per nostra enorme fortuna, Cary Fukunaga forse per la prima volta in questa “saga nella saga” (quello che ormai ho battezzato Craig-verso e so già che tanti Bondiani mi odieranno per questo), decide di fare una scelta che amo molto vedere al cinema: finalmente viene utilizzata l’azione non per riempire minuti del film (veeeeeero Sam Mendes?) ma per far evolvere i personaggi, come si dovrebbe fare SEMPRE in un film d’azione. Il dramma del tradimento tra James e Madeleine si consuma sgommando tra le pecore e le processioni di Matera, dietro ai vetri anti-proiettile della Aston-Martin classica (con tanto di bombette, ho quasi esultato quando le ho viste, storia vera), l’azione determina l’andamento della storia e le caratterizzazioni dei personaggi, grazie Fukunaga, finalmente qualcuno che l’ha capito!

Questo è il tipo di scena introspettiva che piace a me, quella movimentata.

Infatti la scena a Cuba in tal senso, non solo è forse la migliore del film, ma sicuramente una delle più riuscite di questa cinquina di film (non mi spingo a far la classifica di tutti i Bond, ora non ho tempo di morire), il personaggio dell’agente di contatto a Cuba, la bellissima Palomba interpretata meravigliosamente da una Ana de Armas su cui avevo un’icona da chiudere, è anche quella dove il contributo di Phoebe Waller-Bridge in fase di revisione della sceneggiatura si nota di più.

Palomba è buffa e tenera, di quante Bond girl nella storia del cinema abbiamo potuto utilizzare questi aggettivi? Però è anche moralmente sexy, ha un vestito che non è un vestito perché lascia ben poco alla fantasia e quando “approccia” Bond, appena lui si fa delle idee lei lo guarda come dire «Ma che scherzi Boomer? Siamo qui per lavoro» e invece di spogliarlo, lo fa vestire con il suo iconico Smoking, quello da cui Bond ha provato a tenersi a distanza dichiarandosi in pensione.

Cuccurucucu Paloma / ahia-ia-ia-iai cantava sparava (quasi-cit.)

I due non si fanno un balletto (nemmeno uno orizzontale, che poi è l’altra chiave di lettura di questa cinquina di film: niente sesso, sono James Blond) ma finalmente Bond esprime tutto il suo talento attraverso l’azione, quando negli altri film il massimo che riusciva a fare era sistemasti stilosamente i gioielli sui polsini dopo essere uscito da un’esplosione, qui grazie all’ottima gestione dell’azione di Cary Fukunaga, finalmente capiamo perché 007 James Bond è considerato un mito vivente anche dagli agenti che finisco per tradire. Sulla Paloma di Ana de Armas invece aggiungo che in un’ipotetica classifica di Bond Girl, lei ha scalato diverse posizioni, senza ombra di dubbio. Sulla frase «Bumga bunga delle Spectre», presente anche nei dialoghi originali del film (quindi non un’invenzione del nostro doppiaggio), avrei così tante cose da dire, che forse è meglio che io non dica niente.

Come detto “No time to die” ha una certa flessione nel secondo atto, in cui la storia va sviluppata e lo perdono a Fukunaga, che ha dichiarato di aver girato quello che veniva scritto giorno per giorno, comprensibile quando sali a bordo di un progetto così ambizioso in sostituzione del regista uscente, ma nel terzo atto il suo Bond torna ad esprimersi a colpi di scene d’azione, tutta sofferta, senza quell’aurea da spaccamontagne degli altri 007 prima di lui, inoltre si sa che Cary Fukunaga sarà sempre quello del piano sequenza (lo abbiamo visto esprimersi in questa specialità nel 2011 in “Jane Eyre” ma anche nella prima stagione di “True Detective”… Easy, eeeeeasy cit.), qui nella lunga sparatoria sulle scale troviamo qualcosa di Atomica Bionda, ma con un protagonista che viene colpito, ferito, con l’acufene dopo le esplosioni, insomma più uomo che super uomo.

Solo quelle bretelle, costano più di casa vostra e della vostra auto messi insieme, quindi ridete pochino.

Il finale non ve lo racconto, vi dico solo (da qui in poi vaghissimi SPOILER) che mi ha esaltato l’omaggio palese a “Licenza di uccidere” (1962) nella location dove si svolge il finale e poi vi ricordo la regola aurea: non è morto finché non si vede il corpo. Si perché in buona sostanza, il finale di questo film è la parte più debole, l’ho trovato frettoloso, a ben poco logico se non per la sua funziona di creare il drammone a tutti i costi, ed è quello che purtroppo monopolizza il film, perché dopo quel finale, tutti penseranno al domani della saga, quando invece la parte migliore di “No time to die” è il nemmeno malcelato disgusto con cui Daniel Craig ha cercato di liberarsi di 007, in qualche modo, quello migliore. Cary Fukunaga è riuscito ad incanalare la stanchezza, le rughe, il tempo che avanza sulla spalle di Craig, per tirare fuori un film dove James Bond è l’assoluto protagonista, alla faccia di chi lo temeva sostituito dalla nuova 007. Per certi versi non vedevo un personaggio così esausto dalla ripetitività dell’essere se stesso e così determinato a chiudere il cerchio, dai tempi di Jena Plissken in Fuga da Los Angeles, ecco perché di pancia questo film per buona parte non mi ha detto moltissimo, Daniel Craig non mi starà mai davvero simpatico, ma di testa “No time to die” è la perfetta conclusione di questi cinque film della saga nella saga di Bond.

Il futuro? Continuare con i personaggi di contorno io lo vedo francamente impossibile, inoltre James Bond è l’unico personaggio occidentale ad aver cambiato volto, senza bisogno di troppe spiegazioni, nemmeno il Doctor Who, guarda caso icona inglese, ha goduto dello stesso lusso, quindi era tempo per questo Bond di morire e per certi versi, non poteva esserci finale più adatto (di testa, più che di pancia), ma per James Bond non sarà mai tempo di morire.

Sepolto in precedenza mercoledì 20 ottobre 2021

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