La scomparsa di Tobe Hooper è stata un calcio in bocca (dato con gli anfibi) a tutti quelli che amano i film dell’orrore, ci ho messo il mio tempo, ma l’omaggio ad uno dei più influenti registi del cinema di trippe e budella non poteva mancare. Scusa Tobe se ti ho fatto aspettare così tanto!
Quanti horror avete visto nella vostra vita “Tratti da una storia vera” che poi tratti da una storia vera non lo erano quasi affatto? Quanti altri ne avete visti narrati come un falso documentario, o ancora meglio un found footage per dirla come direbbero gli Yankee? Quanti altri hanno fame di essere così violenti da guadagnarsi una censura magari durata anni? Tanti vero? Eppure, solo un film ha avuto tutte queste cosette insieme, prima di tutti, perché come spesso capita al cinema, arriva qualche regista in grado non solo di battere tutti sul tempo, ma di farlo così bene da diventare lo standard con cui tutti dovranno confrontarsi negli anni a venire. Tobe Hooper lo ha fatto nel 1974 e da allora l’asticella che lui ha piazzato lassù, ancora guarda tanti dall’alto verso il basso.
“Non aprite quella porta” unico e per certi versi irripetibile, anche all’interno della filmografia del suo regista, è un modello, uno dei titoli sinceramente più spaventosi che siano mai stati diretti, questo mio omaggio non sarebbe completo, se non mi concedessi l’onore di aggiungere “The Texas Chain Saw Massacre” tra le fila dei Classidy!
Come spesso accade con i film davvero grandi, la loro fama li precede, quella di “Non aprite quella porta” è quella di un film splatter, grondante sangue e budella, anche perché in quasi tutti i Paesi in cui è uscito, si è beccato il divieto ai minori di 18 anni e anche se Hooper ha sforbiciato delle parti, il divieto “Rated X” è arrivato comunque (storia vera), anche perché quell’atmosfera malata non può essere certo ammorbidita.
Per 25 anni questa pellicola è stata bandita dalla Gran Bretagna e in Finlandia non è andata tanto meglio, ma com’è potuto accadere per un film che conta la bellezza di… 5 morti, cinque, C-I-N-Q-U-E, sei se volete contare anche l’armadillo morto che si vede nella prima inquadratura, ma non so se conta.
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L’inquadratura ad altezza shorts, uno dei marchi di fabbrica del film… che parlo a fare che tanto state guardando tutti qui sopra! |
Il film di Tobe Hooper venne prodotto con una miseria, radunando i ragazzi nei campus universitari e trovando ogni espediente possibile per farsi bastare i pochi soldi a disposizione, per farvi capire l’aria che tirava, l’attore John Larroquette per fare da voce narrante sulle parole che aprono il film è stato pagato ricevendo in cambio, una di quelle sigarettine arrotolate con dentro una pianta essiccata con un odore riconoscibile che quando le fumi ti lasciano con la testa tutta leggera (storia vera)… Ecco, una di quelle.
I 140.000 ex presidenti defunti, stampati su carta verde che rappresentavano la totalità del budget del film, sono stati messi in mano a Hooper dalla casa di produzione, giusto perché il loro film di un paio di anni prima stava andando piuttosto benino nei cinema di tutto il mondo, la pellicola in questione s’intitolava, aspettate che controllo che non voglio sbagliare a scrivere “Deep Throat” da noi meglio noto come “Gola Profonda” (storia vera), che strano titolo, di che parlerà mai questo film, allora qui dice che è la storia di Linda una ragazza che ha… Ok, mettete a letto i bambini!
Oh, insomma, io trovo meravigliosa questa idea che Faccia di cuoio e la sua famiglia di cannibali tutta composta da maschietti, in cui mamma non si vede mai, siano idealmente figli di Linda Lovelance!
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La tipica ospitalità del sud. |
Al netto di un pugno di dollari, il film di Tobe Hooper portò a casa nelle prime settimane quasi 31 milioni di ex presidenti defunti stampati su carta verde, niente male per una storia liberamente ispirata ad Ed Gein, il serial killer cannibale del Wisconsin che al cinema è stato fonte d’ispirazione per film cosine come “Psyco” (1960) e “Il silenzio degli innocenti” (1991).
La trama, ma davvero vi devo parlare della trama? Vabbè, facciamo proprio finta che voi abbiate passato gli ultimi 40 anni su Marte… S’inizia con una voce narrante che ci racconta che tutta questa storia è tratta da una storia vera (come detto, non lo è) e i titoli di testa con il flash delle fotografia scandiscono già una discreta ansia.
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Siamo solo ai titoli di testa e Hooper mi ha già assestato il colpo segreto del malessere. |
I protagonisti sono un gruppo di ragazzi, che fanno tutti gli errori possibili immaginabili: prima caricano un autostoppista squilibrato armato di coltello proveniente da una fiera tradizione di macellai dal vicino mattatoio, poi affrontano la classica deviazione sbagliata con tanto di sosta alla stazione di benzina e finiscono nelle grinfie di una famiglia di pazzoidi cannibali, il più riconoscibile di tutti Leatherface (Gunnar Hansen) con maschera in linea con il suo soprannome e una motosega a sottolineare le sue (cattive) intenzioni.
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Chi non darebbe un passaggio ad un così bravo ragazzo mi chiedo. |
Ripreso con tutte le scene in ordine cronologico, “The Texas Chain Saw Massacre”, scritto proprio così, non “Chainsaw”, ma con lo spazio in mezzo per un errore di battitura dei titoli di testa (storia vera) è un film che ha la forza di rendere classiche tutte le trovate che ora nei film horror sono canoniche: i giovinastri che sbagliano strada e diventano carne da macello, ma anche il già citato benzinaio che pare non mancare mai nei film horror, il tutto con un conto delle vittime che ammonta a soli cinque morti e ad un quantitativo di sangue minimo.
Al pari delle motoseghe MAI usata da Jason Voorhees, il falso mito intorno a “The Texas Chain Saw Massacre” è relativo al sangue mostrato, spesso ci si confonde con i suoi stessi seguiti, tra cui il sottovalutato (secondo me) secondo capitolo diretto dallo stesso Hooper nel 1986. L’unico sangue che si vede nel film è quello della stessa Marilyn Burns, che girando l’ultima scena in cui la “Final Girl” scappa da Faccia di cuoio si è ferita sul serio ad un dito (storia vera).
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«Ti sei fatta male al dito? Ti aiuto io vieni…» |
Tobe Hooper che fino a quel momento aveva all’attivo solo un film indipendente drammatico intitolato “Eggshells” (1969) è qualcosa di estremamente semplice, ma geniale, ovvero utilizzare la tecnica del falso documentario per dare maggiore verosimiglianza alla storia. Il vero colpo di genio di Hooper, quindi, sta nel portare il documentario all’interno del film dell’orrore e con esso un bagaglio di realismo che sacrifica anche alcuni capisaldi del genere horror, come, ad esempio, la colonna sonora che ti tiene sul filo per farti saltare nei momenti di paura, che qui scompare quasi del tutto.
Ogni volta che mi capita di andare a rivedermi “Non aprite quella porta” mi sento sempre allo stesso modo: per 84 minuti Hooper ti prende per il bavero e ti porta all’interno dell’atmosfera del film, ti fa avvertire lo sporco e la povere, ti fa sentire i vestiti sudaticci che ti si appiccicano addosso come solo il clima del Texas può fare e più i minuti passano più l’atmosfera si fa malsana. Roba che arrivati ai titoli di coda viene voglia di andare a farsi una doccia, ci sono giusto una manciata di film che mi fatto sentire così, “Il silenzio degli Innocenti”, il primo Evil Dead e questo capolavoro di Hoooper.
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Lo vedete così con il cappello da pescatore, ma questo signore qui ha fatto la storia. |
L’atmosfera realistica è totale, parte dagli stessi protagonisti, che sembrano davvero ragazzi normali, tanto che uno di loro è un portatore di handicap che si muove in sedia a rotelle, una trovata che ben pochi altri film hanno il coraggio di fare e sono arrivati quasi tutti dopo questo. L’elemento horror entra nella storia senza troppe spiegazioni, sappiamo giusto qualcosa su questo famigerato mattatoio, poi Hooper prende la sua storia davvero minimale e la spalma lungo gli 84 minuti di durata, in qualche caso dilatando volutamente i tempi per creare ansia nello spettatore.
L’entrata in scena di Leatherface è un capolavoro, sono cinque minuti scarsi di cinema che come direbbe Indy, dovrebbero stare in un museo. La tensione viene prolungata fino ad un climax che sul pubblico ha lo stesso effetto di uno schiaffo, prima Tobe ci mostra solo il ritrovamento del dente (umano) sul portico, poi ci mostra la zanzariera, il ragazzo che entra in casa e tu lì aspetti, aspetti, sai che sta per accadere qualcosa, ma Hooper ti ha tolto in conforto della musica tipica degli horror, quindi quando quella porta scorrevole si apre e quel cristone con la maschera chiamato Leatherface viene fuori è un colpo di scena inatteso, se si tratta della vostra prima visione del film, ma altrettanto spaventoso anche se il film lo avete visto come me circa 476 volte. Riuscire a mandare a segno una bella scena efficace è difficile, che poi quella scena mantenga la sua forza nel corso delle visioni è un trionfo.
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«La tua entrata in scena è stata buona, la sua migliore» (Cit.) |
Quella singola scena è così efficace che persino il titolo italiano del film s’inchina a sottolinearne l’importanza, “Non aprite quella porta” è un’invenzione tutta del nostra strambo Paese a forma di scarpa che riesco a spiegarmi solo così, però, a suo modo, è diventato un modo di dire legato alla paura, un po’ come accaduto a al titolo originale “The Texas Chain Saw Massacre”, il massacro della motosega Texana che negli Stati Uniti di Yankeelandia è un modo per etichettare un massacro con morti e feriti, un esempio? L’ex cestita della NBA Kurt Thomas, difensore sopraffino con la propensione a fare dei falli di tipo terminale, era soprannominato “Texas Chain Saw Massacre” perché proveniva proprio da quello Stato. Un mio amico per tutti gli anni della mia “carriera” cestistica ha cercato di far attecchire per il sottoscritto il soprannome di “Mietitrebbia Piemontese” (storia vera) che, però, non ha mai preso piede, un po’ perché nessuno ha mai diretto un film con questo titolo, un po’ perché noi Italiani non sappiamo dare soprannomi come fanno gli Americani, uffa!
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«Ma come fallo? Solo perché sanguina un pochettino? L’ho giusto sfiorato» |
Pur con un budget ridicolo, il film porta in scena con dovizia di dettagli i personaggi, la casa delle famiglia di cannibali è piena di animali impagliati e anche uno scheletro umano (proveniente dall’India, storia vera) che non voglio nemmeno sapere dove cacchio Tobe Hooper sia andato a procurarsi! Ma dove il film fa un salto di qualità è proprio nella rappresentazione del suo cattivone, una delle maschere (in tutti i sensi!) più iconiche e spaventose che il cinema horror abbia mai sfornato, ovvero Leatherface.
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«Signora ho fatto due etti e mezzo, che faccio lascio?» |
Nei piani originale di Hooper, Faccia di cuoio doveva essere un personaggio parlante, ma fu un’idea dell’attore che lo interpretava Gunnar Hansen, di renderlo incapace di parlare e affetto da un ritardo mentale, l’idea piacque così tanto a Hooper che cambiò al volo la sceneggiatura, sostituendo le linea di dialogo del personaggio con un borbottio e una nota a lato che indicava cosa Faccia di cuoio stesse cercando di bofonchiare (storia vera).
Il bello del personaggio è il suo essere evidentemente il più forte fisicamente (tanto che solleva i ragazzi appendendoli ai ganci da macellaio come se fossero pupazzi), ma anche il più debole mentalmente, un personaggio che esprime il suo stato d’animo attraverso maschere di pelle che non sono spiegate, ma di cui è chiara l’origine, perché il non detto fa molta più paura del mostrato. Se Freddy ti piomba addosso facendo battutine, mentre Michael e Jason ti uccidono senza fare un fiato, Faccia di cuoio per certi versi è ancora più spaventoso, provare a ragionare con lui è impossibile e l’unica cosa che ti dice quanto distante è da te mentre cerchi di scappare è il rombo della sua motosega, una Poulan 306A a cui Hooper coprì il logo con il nastro adesivo per non rischiare una causa legale (storia vera).
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Quando inizi a sentire il rombo che fa BZZZZZ è già troppo tardi. |
L’atmosfera totalmente malata del film mi colpisce ogni volta, ad esempio nella scena della cena (se così possiamo chiamarla), quando vanno a risvegliare l’incartapecorito nonno, ogni volta inizio a friggere sulla sedia, prima il tenero (si fa per dire) nonnino succhia il sangue dal dito di Sally, in una scena che Hooper dirige in maniera sincopata, ansiogena e che s’interrompe di brutto quando la ragazza urlante sviene dalla paura. Ma non è mica finita lì, perché il dettaglio sinistro che trovo efficacissimo è quello successivo, Hooper mette a fuoco l’inquadratura e lo fa sul primo piano del nonnino che guarda la ragazza e fa un sorrisetto che fa più paura di qualcuno braccio mozzato.
Perché la forza di “The Texas Chain Saw Massacre” sta nel suo cavare sangue dalla rape… Ok, mi rendo conto che non è proprio l’espressione più felice, però come ha saputo fare di necessità virtù Tobe Hooper nella storia del cinema sono stati pochi, lo stesso Hooper in carriera ha dimostrato che con un po’ di soldini, era un regista che tendeva alla ricerca dell’eccesso (senza Hooper, Rob Zombie nella vita avrebbe fatto l’idraulico), ma qui ha saputo andare all’essenza della paura, creando ansia con pochissimi dettagli tutti sinistramente azzeccati, ad esempio, io trovo spaventoso il tick nervoso della prima vittima di Leatherface che colpito in testa a morte, muove le gambe come se fosse un maiale sgozzato… Brrrr!
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Fotogrammi che danno solo una minima idea dell’orrore. |
Un tipo di paura che ti insegue anche dopo i titoli di coda, perché al pari di Sally, come spettatori possiamo anche arrivare vivi alla fine del film, ma dopo ne usciremo comunque cambiati, trovo singolare che nel doppiaggio originale italiano, abbiano voluto inserire una rassicurante voce narrante, che ci racconta che i membri della famiglia sono stati tutti assicurati alla legge, dettaglio che viene negato dai seguiti del film, quasi una carezza data dal nostro doppiaggio al pubblico del tempo.
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Un tramonto e un pazzo con la sua motosega, in fondo noi fan dell’horror siamo dei gran romanticoni. |
Pochi film sono così in grado di andare sotto pelle allo spettatore, sfruttando i pochi mezzi per creare così tanta paura e così tanta iconografia, il resto della carriera di Tobe Hooper è stata caratterizzata da alti e bassi e anche dalla più grande operazione di prestanome della storia del cinema, eppure ho sempre voluto bene a questo grande regista, se oggi qualcuno utilizzasse lo stesso principio di portare il documentario dentro il cinema Horror, penso che sortirebbe un grande effetto, ma arriverebbe comunque dopo Tobe Hooper. Fare bene e farlo prima di tutti, la storia del cinema passa anche da qui.