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Non si sevizia un paperino (1972): Lucio Fulci non pensa ai bambini

Ogni Fulciano tiene sempre a mente la data del 17 giugno, quindi oggi mi sembrava doveroso portare sulla Bara uno dei titoli più famosi del grande regista, un film che compie i suoi primi cinquant’anni.

Dalla poltrona comoda degli anni trascorsi è un po’ più facile scrivere di questo film, un po’, perché per me non è mai semplice scrivere del cinema di Lucio Fulci, i suoi film ad una prima occhiata possono sembrare trame semplici, facili da raccontare, ma non per questo da analizzare, perché il “terrorista dei generi” non si è mai limitato alla superficie, infatti ancora oggi “Non si sevizia un paperino” è riconosciuto come un film che è allo stesso tempo classico e innovatore, quello che ha rigirato come un calzino la classica formula del giallo all’Italiana che in quel periodo era rappresentata dal monopolio Argentiano anche se, ai tempi, critici cinematografici molto, molto, molto, ho detto molto? Lo dico ancora una volta, molto celebri sputarono addosso al film dimostrando di non averci capito… Beh, molto. Non faccio nomi perché sono ancora in attività e non necessitano certo di presentazioni da parte del vostro amichevole Cassidy di quartiere.

Il piano originale di Fulci era di ambientare la storia nella Torino dei quartieri popolati dagli operai della Fiat e se non è un modo “sfidare” Dario Argento questo, andando a giocare nella città che è stata teatro di tanti suoi film, proprio non riesco ad immaginare altre sfide cinematografiche, ma successivamente insieme agli sceneggiatori Roberto Gianviti e Gianfranco Clerici, la trama venne spostata nel sud d’Italia, nell’immaginaria cittadina di Accendura (adattato da Accettura, provincia di Matera) ispirandosi ad un fatto di cronaca nera avvenuto a Bitonto nel 1971, dove le vittime di una serie di brutali omicidi erano proprio dei bambini (storia tristemente vera).

Non si seviziano nemmeno le bambole, maleducati!

La sfida alla morale e a “quelli che ben pensano” (cit.) in uno strambo Paese a forma di scarpa di Fulci è incappata in più di un problema legale, i censori con il coltello tra i denti, forse accecati dal tema del film, trascinarono il regista in tribunale per via della scena in cui Patrizia (una Barbara Bouchet al massimo della sua bellezza, sarà pure un commento extra cinematografico, però oh, andava scritto) si mostra nuda ad uno dei bambini di Accendura. Causa legale agilmente vinta da Fulci, alla faccia dei suoi critici ignoranti in più di un senso, ma soprattutto dell’arte del montaggio, la scena è stata girata in campo e contro campo, il bambino e Barbara Bouchet non sono mai stati nella stessa stanza insieme, a fare da controfigura al piccolo per i controcampi di spalle, una conoscenza di Fulci, Domenico Semeraro, altezza un metro e trenta, anche noto come il “Nano di Termini”, magari lo ricordate per il film “L’imbalsamatore” (2002) di Matteo Garrone, l’arte che imita la vita e tutte quelle cose lì.

«Mi dispiace, dovrete farvi bastare il primo piano, i censori sono sul piede di guerra»

Anche se la quasi causa legale più nota attorno a questo film resta l’articolo inserito in corda, perché l’originale titolo “Non si sevizia paperino” rischiava di ricevere una telefonata dai legali della Disney e dalla Mondadori (che pubblica il celebre fumetto), quindi meglio mettersi dalla parte della ragione, anche se l’odio (se così possiamo chiamarlo) di Fulci per il papero sarebbe tornato ancora nella sua filmografia, magari una volta di queste ne parleremo.

“Non si sevizia un paperino” è uno studio sociologico sul male, il regista che ci ha portato a guardare in faccia l’altrove, qui continua a parlarci del male, anzi di un male ancora più spaventoso perché incredibilmente realistico, quello che emerge dall’animo umano, dalla differenza di potenziale tra l’Italia ricca, quella del boom economico e quella del Sud, arretrata, legata ancora alle tradizioni e alle credenze popolari che spesso vano a braccetto con i pregiudizi, tutto questo Fulci lo racconta per immagini, nei primi fatidici cinque minuti del film, l’autostrada, quindi il progresso, così vicina e allo stesso tempo così distante da Accendura e le sue dinamiche, lo stacco netto tra l’asfalto e le ossa riportare alla luce dalla maciara (Florinda Bolkan, stupenda e perfetta per il ruolo) sono già una dichiarazione d’intenti per Fulci.

Un personaggio tragico che non si dimentica.

Anche la scelta degli attori risulta impeccabile, può sembrare strano che Fulci abbia scelto un volto anonimo, da bravo ragazzo come quello di Marc Porel, per il ruolo chiave di don Alberto Avallone, sarebbe stato più logico aspettarsi Tomas Milian in quella parte, spostato, invece, sul ruolo del giornalista Andrea Martelli che qui offre una prova misurata, quasi sottotraccia, almeno per le abitudini dell’attore Cubano, adottato da Roma, ma bisogna essere onesti: un cavallo di razza come Milian si sarebbe mangiato il film, attirando anche forse troppe attenzioni sul personaggio, quindi la scelta di Fulci risulta vincente, anche perché diretto da Lucione, l’attore avrebbe avuto modo di divorarsi la scena in un altro film, nei panni del diabolico Chaco di I quattro dell’apocalisse.

Altro giro, altra grande prova di Tomas Milian.

Per me non è semplice scrivere del cinema di Fulci, non solo perché è già stato trattato nel corso degli anni da chiunque, ma soprattutto perché il suo cinema mi resta incollato addosso anche diversi giorni dopo la fine dei titoli di coda, la cittadina di Accendura è fin troppo simile alla provincia dove sono cresciuto: le dinamiche del paese, la temperatura, quel senso di appiciccaticcio, escono dritti dalla pellicola di Fulci per restarti incollato addosso. Lo scontro tra le diverse facce di uno strambo Paese a forma di scarpa si vedono tutte, la Patrizia di Barbara Bouchet vive in una villa che è un mausoleo, tirato su dal padre e sbattuto in faccia agli abitanti di Accendura proprio come la ricchezza dell’uomo, che ha spedito la figlia – evidentemente fuori luogo in questa provincia paranoica – per tenerla lontana dal “giro di quelli che fumano”, una tentazione per tutti gli abitanti, ma anche uno scontro di mentalità ben rappresentato dalla Bouchet.

Nemmeno Barbara Bouchet può migliorare il truce panorama di Accendura.

Non vorrei entrare troppo nei dettagli della trama, “Non si sevizia un paperino” è un film fondamentale per chiunque ami il genere horror, che ha saputo ribaltare i canoni del giallo all’Italiana perché l’indagine è presente, ma la violenza non è mai pura estetica come spesso accade nei violentissimi, ma spesso coreografici omicidi dei film di Dario Argento, quello che anche molti critici blasonati del tempo non capirono è che Fulci aveva una capacità di scavare sempre più a fondo, lavorando sui nervi scoperti dei suoi personaggi, della storia e soprattutto del pubblico.

Le critiche al sistema non mancano: polizia, giornalisti, nessuno riesce davvero a risolvere il mistero, spesso è più comodo assecondare la pancia del popolo, sempre ben disposto a cercare il cattivo più facile, senza per forza torce e forconi, ma con lo stesso livello di odio, da qui la scena più incredibile, violenta e dolente di tutto il film.

Liberaci dal male, dicevano.

Le musiche di Riz Ortolani contribuiscono largamente a calarsi tra le ipocrisie di Accendura, ma è la musica fuori contesto, utilizzata da Fulci per sottolineare ancora di più il contrasto a colpire al cuore. La canzone di Ortolani, “Quei giorni insieme a te” resta celebre dalla voce di Ornella Vanoni, risulta fuori luogo quanto Patrizia e proprio per questo sottolinea la malinconia della violenza subita dalla maciara che avrà anche una certa volontà di risultare una scena esplicita nella brutalità portata in scena, ma non è un massacro perpetuato ai danni di un personaggio grafico e basta, con Fulci la violenza è quasi sempre espressiva. Il selvaggio pestaggio è una denuncia agli affetti dell’ignoranza che può diventare violenza e che Fulci getta sotto gli occhi di tutti in una scena che dovrebbe colpire più che per il sangue o gli effetti speciali, supervisionati da Carlo Rambaldi, per la natura umana, messa alla berlina da Lucio Fulci.

Proprio per il suo essere classico e allo stesso tempo capace di infrangere il genere a cui appartiene, ma più in generale uno dei titoli più irripetibili del nostro cinema, mi scappa di far entrare il film tra le fila del Classidy!

Prima di essere un film capace di ribalzare il genere Giallo, “Non si sevizia un paperino” è un titolo che mi lascia addosso una malinconia, un sanissimo schifo (occhio a come utilizzo il termine) che è puro Fulci, il suo cinismo ai massimi livelli che emerge da momenti di grande malinconia, molto più che un semplice «I bambini, perché nessuno pensa ai bambini!?», il grande regista porta in scena un assassino che ha una sua contorta e assurda idea per preservare i bambini dal peccato, quando Accendura è un luogo di male puro da cui non si fugge, che rappresenta alla perfezione quel peccato.

Per me solo un grande regista può mettere su pellicola il momento esatto del martirio della maciara, il suo strisciare verso la strada, con le macchine che corrono via a pochi metri da lei, simbolo di progresso mentre quella mano si aggrappa disperatamente ad una roccia, per me questa è regia magistrale, il cinema di genere volutamente brutto, sporco e cattivo, che può permettersi di dire molto sul male e la natura umano, più di tanto di quel cinema “alto” che piace ai critici blasonati, guarda caso quelli che non hanno mai capito la grandezza di Lucio Fulci.

Ascoltare Ornella Vanoni non è per tutti, lo dico sempre.

Il modo migliore per festeggiare i primi cinquant’anni di questo film sarebbe rivederlo, l’ho fatto spesso nel corso degli anni, ma mai a cuor leggero, consiglio di farlo anche a voi perché resta un classico non solo del nostro cinema, però affrontare il male così, quello vero, quello che sta nel cuore degli uomini è qualcosa che va oltre la già non semplice etichetta di cinema Horror.

Sepolto in precedenza venerdì 17 giugno 2022

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