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Obsession – Complesso di colpa (1976): il cinema che visse due volte

I Maestri vanno assimilati, ecco perché Totò in “Uccellacci
e uccellini” (1966) il corvo, finiva per papparselo. Oggi parliamo di
questo, non di pennuti serviti per cena, ma di come si fa propria una lezione,
in questo caso cinematografica, benvenuti al nuovo capitolo di… Life of Brian!

Il fantasma del palcoscenico sarà anche diventato un film di culto, ma non un successo al
botteghino, per questo De Palma decide di tornare sotto l’ala protettiva del
Maestro Alfred Hitchcock, per farlo può contare questa volta su due alleati
molto preziosi: il primo è il produttore George Litto, con cui il regista nato
a Newark darà il via ad una collaborazione che lo porterà a firmare alcuni dei
suoi lavori migliori e, non a caso, più smaccatamente Hitchcockiani nella
struttura. L’altro nome importante è quello dell’allora futuro regista Paul Schrader, nome che aleggiava intorno alla cricca di registi della New
Hollywood, visto che aveva firmato le sceneggiature per “Yakuza” (1974) di
Sydney Pollack e ovviamente quella di “Taxi Driver (1976) per Scorsese.

I due iniziano a lavorare ad un soggetto intitolato
originariamente “Déjà Vu” una rivisitazione di La donna che visse due volte di zio Hitch, a ben guardare, con
dentro anche un pizzico di “Rebecca – La prima moglie” (1940) e l’uso assassino
delle forbici che sembra strizzare l’occhio a “Il delitto perfetto” (1954),
anzi, diciamola proprio tutta, a voler fare la punta ai chiodi, molti sostengono
che i flashback del film siano debitori di quelli di “Marnie” (1964), dettaglio
che De Palma intervistato più volte sulla questione ha sempre declinato, visto
che il regista del New Jersey sostiene di odiare i flashback di “Marnie”
(storia vera).

Sul ciak potete ancora leggere il primo titolo di lavorazione del film (storia vera)

Ora, però, è necessario trattare una questione di primaria
importanza. Brian De Palma non è mai partito dai film di Hitchcock per i suoi
soggetti, non è mai sceso dal letto una mattina pensando: «Ah, oggi faccio un
bel remake di un film di Hitch!», però non si è mai nemmeno nascosto dietro ad
un dito, sostenendo che il Re del brivido avesse creato una grammatica
cinematografica diventata fondamentale per la storia della settima arte, una
serie di trucchi o se preferite armi affilatissime che nel corso dei decenni
hanno dimostrato alla perfezione il loro funzionamento. Un linguaggio fatto di
puro cinema che per De Palma, dimenticare o abbandonare vorrebbe dire non solo
fare un torto alla settima arte, ma anche dimostrarsi ben poco lungimiranti… Perché gettare alle ortiche qualcosa che ha dimostrato di funzionare così bene?

Questa lunga precisazione per arrivare dove? Due questioni
principalmente: la prima l’etichettona che De Palma si è ritrovato incollato
sulla fronte, quella di essere il regista della ghenga della New Hollywood,
composta da Scorsese, Coppola, Lucas e Spielberg, di colui che si rifà spudoratamente
ad Hitchcock, insomma poco più di una cover band. Madornale errore di
sottovalutazione che ci porta al secondo punto, ve lo espongo con esempi
cliccabili: il mediocre è colui che
si sceglie un modello che funziona e lo replica identico nei casi migliori, il
più delle volte in una forma peggiore e meno riuscita, il genio, ovvero De
Palma, invece, è colui che parte da La donna che visse due volte e tira fuori un
film che al netto del risultato finale risulta completamente diverso, un’operazione
post moderna che mette in chiaro non solo chi è un genio e chi, invece, resterà eternamente un cretino, ma anche
cosa voglia dire fare propria una grammatica cinematografica, assimilando per
davvero gli insegnamenti dei Maestri.

I titoli di testa fiorentini del film.

In questo senso, “Obsession” è in parti uguali omaggio,
appropriazione indebita, ma anche definitivo e anche un po’ spudorato passaggio
di consegna, il film scritto a quattro mani da De Palma e Paul Schrader, prima
sorprende per quanto sia palese la sua volontà di replicare le dinamiche rese nei classici del cinema da Vertigo, poi
grazie ad una notevole “mossa Kansas City” (cit.) ribalta il tavolo da gioco
portando la storia in scenari completamente diversi, una bellissima
variazione sul tema che non solo conferma quanto il cinema di De Palma sia
sempre stato citazionista e post-moderno nel senso migliore di queste due
espressioni da cinefilo colto, ma anche la vecchia massima di Picasso sul genio
che ruba e sul mediocre che copia.

Il passaggio del testimone per De Palma avviene più o meno
come l’incoronazione di Napoleone che non attese che qualcuno ponesse sulla
sua testa la corona, ma la strappò di mano per porla sul suo stesso capo da
solo, come mi sia venuto fuori questo paragone non lo so, ma lo tengo buono perché
uno dei gioielli della corona di zio Hitch era di sicuro il compositore Bernard
Herrmann che De Palma aveva prima fatto incazzare e poi coinvolto a bordo del
suo Le due sorelle, ma dopo un inizio
burrascoso di collaborazione, i due diventarono quasi amici, basta dire che De
Palma era presente al capezzale del grande compositore e la sontuosa colonna
sonora di “Obsession” è il penultimo lavoro di Herrmann che ha concluso la
carriera firmando le musiche di “Taxi Driver” per Scorsese.

Con il compositore prediletto di Hitch, De Palma sembra
riportarne in auge lo spirito anche scegliendo di ambientare la storia in buona
parte a New Orleans, salvo poi scoprire proprio attraverso Herrmann, che era la
città originariamente scelta da Hitchcock per “Vertigo”, prima di dover optare –
secondo il compositore erroneamente – per San Francisco. Insomma, idealmente posseduto
dallo stesso furore creativo del suo Maestro, De Palma ci racconta del miliardario
Michael Courtland (Cliff Robertson il
punto debole del film, lasciatemi l’icona aperta, più avanti ci torneremo) a
cui rapiscono la moglie Elizabeth e la figlioletta.

Una situazione che Liam Neeson conosce bene.

Il suo socio d’affari Robert Lasalle (il mio prediletto,
John Lithgow alla prima collaborazione con De Palma, occhio), preoccupato, lo mette
in contatto con la polizia, gli agenti rassicurano Courtland: potrà riavere la
sua famiglia senza scucire un soldo, basta una valigia piena di fogli di carta,
un segnalatore e il loro piano ben rodato, “si fidi signor Courtland andrà tutto
bene”… Se… Lallerò!

Lo scambio si risolve in tragedia, l’auto con la moglie e la
figlia di Courtland precipita da un ponte (mai stare sereni quando in un film
di De Palma ne spunta uno) facendo precipitare l’uomo in un profondo stato di
disperazione che De Palma sottolinea con un’ellisse narrativa, la sua macchina
da presa ruota attorno al monumentale mausoleo fatto erigere da Courtland in
memoria della moglie, portandoci così dall’inizio della storia ambientata nel
1959 in un attimo nell’anno 1975, dove ritroviamo Cliff Robertson identico e
con la stessa espressione imbalsamata, chiudiamo l’icona lasciata aperta sul
buon vecchio Cliff.

In questa Gif animata, tutto il ricco campionario di espressioni di Cliff Robertson.

A De Palma la prova di Robertson proprio non è mai piaciuta,
avrebbe dovuto interpretare un uomo consumato dal lutto e dall’ossessione per
il ricordo della moglie defunta e l’attore cosa faceva? Ci dava dentro con il
fondotinta per essere pronto per i primi piani, secondo il regista, un
personaggio che avrebbe dovuto essere pallido e smunto, di fatto era del colore
delle pareti in mattone dietro di lui (storia vera). Molto meglio il rapporto
con la protagonista femminile, perché nel cinema di De Palma, malgrado le
ridicole accuse di maltrattare sempre le donne al centro delle sue storie, alla
fine sono sempre loro i personaggi davvero tosti, circondate il più delle volte
da maschietti persi dentro le loro ossessioni.

Il socio John Lithgow porta l’amico Courtland a fare il giro
delle cantine Toscane a Firenze, con la scusa di chiudere un grosso affare i
due arrivano in Italia dove buona parte del film è stato girato, con un tocco
un po’ da cartolina tipico degli Americani in vacanza, ma dando valore all’architettura
Fiorentina, infatti tra le linee geometriche dell’Abbazia di San Miniato al
Monte, Courtland s’imbatte in Sandra, una donna identica alla sua Elizabeth (anche
perché ad interpretarla è l’attrice canadese Geneviève Bujold, che davanti ad
un ruolo torbido in un film basato sul tema del doppio, non si tira mai indietro) e della quale, ovviamente, s’innamora di colpo.

La porti un bacione a Firenze (cit.)

Qui volendo, si potrebbe iniziare il gioco alcolico, si beve
ad ogni esplicito riferimento a La donna che visse due volte: Jimmy Stewart fa vestire Kim Novak come la sua amata
defunta? Cliff Robertson chiede a Geneviève Bujold di camminare come la sua
prima moglie. Kim Novak entrava in scena di spalle davanti ad un quadro in un
museo? Geneviève Bujold lo fa davanti agli arazzi all’interno della chiesa, lo
stesso film? No, perché la differenza qui è sostanziale: Vertigo era la torbida storia di un amore “necrofilo” in cui un
uomo cercava di riportare idealmente in vita una donna morta, “Obsession”,
invece, fin dal titolo parla proprio di questo, il senso di colpa che rende
ciechi, che non fa vedere al protagonista dettagli importanti, perché con De
Palma il tema del doppio (a partire da Le due sorelle e via per tutta la sua filmografia) è fondamentale quanto
quello dello sguardo, un personaggio che per via della sua ossessione è
spezzato quanto lo era Jimmy Stewart per via del suo terrore per l’altezza,
diventa in automatico un personaggio destinato alla tragedia.

Una donna che visse due volte, deve entrare in scena accanto ad un grande dipinto.

“Obsession” si gioca lo stesso ritmo bello largo che zio
Hitch utilizzava in La donna che visse due volte, il secondo atto del film di De Palma chiede al pubblico due
cose: pazienza e una buona dose di sospensione dell’incredulità, ma in cambio
mette sul tavolo una narrazione che rende più semplici entrambe le richieste.
Il rapporto tra Michael e Sandra si sviluppa poco alla volta, la regia di De
Palma opta per dissolvenze e un montaggio che suggerisce più che mostrare,
anche per venire incontro alle minacce di tagli della censura durante la scena
di sesso, un gran modo di fare di necessità virtù perché l’ultimo atto del film
ne guadagna e anche molto e qui mi tocca farlo, anche se il film è datato, se
non lo avete visto, sono in arrivo gli SPOILER!

Sappiate che oltre i baffi di John “Più grande attore del mondo” Lithgow troverete solo SPOILER!

Rivedendo “Obsession” mi sono ritrovato a pensare: «Ma
questo alla figlia scomparsa non ci pensa proprio mai, eh?», il problema (che
non è tale) sta nel fatto che De Palma è così bravo ad immergerci nell’atmosfera
del film e nell’ossessione del suo protagonista da procrastinare questa
inevitabile domanda fino a quando la storia non è pronta a snocciolare al
pubblico risposte. Proprio come in Vertigo, anche qui abbiamo una confessione
scritta dalla protagonista (per Kim Novak in albergo, per Geneviève Bujold) che
è più che altro un modo per dare più informazioni al pubblico che ai
protagonisti coinvolti creando così suspence, ma più che altro è con il colpo
di scena che De Palma conferma di aver davvero fatto sua la grammatica e la
lazione del cinema di zio Hitch, al netto del risultato finale e di questo
colpo di scena, nessuno può affermare – credendoci per davvero – che “Obsession”
sia solo un remake non autorizzato di un classico di Hitchcock.

Rebecca Sandra, la seconda moglie.

John Lithgow nel ruolo di losco manipolatore è semplicemente
perfetto (trovatemi una brutta prestazione di Lithgow in carriera e vi offrirò
da bere), l’ossessione del protagonista lo porta a rivivere il rapimento della
donna amata due volte, mentre a noi spettatori viene rivelata la realtà anche
sulla figlia dell’uomo, in tal senso, la scena di sesso tra Cliff Robertson e Geneviève
Bujold, mostrata come se fosse più un desiderio che un atto davvero consumato
risulta una scelta brillante: davvero Michael così avvolto nelle spire della
sua ossessione non si è reso conto che Sandra, in realtà, è la figlia scomparsa? Ma
soprattutto quell’incestuoso tabù è caduto per davvero oppure no? Come sempre
con De Palma di mezzo, le immagini mentono, il gioco di specchi si riflette in
questi personaggi che vivono le loro vite due volte.

Un gioco di specchi De Palma non lo nega a nessuno.

Sacrifici lungo il percorso per arrivare a questo gran
finale? Almeno il rapporto con Paul Schrader, andato un po’ a sud dopo che De
Palma ha deciso di attenersi alla sua versione del soggetto, sacrificando il
terzo atto pensato da Schrader che prevedeva un ulteriore balzo avanti della
storia fino all’anno 1985, con Michael in manicomio rilasciato ormai settantenne,
pronta a tornare a Firenze per vendicarsi di Sandra, solo per ritrovarla priva
di memoria e grazie all’ipnosi la donna riviveva il suo rapimento (per Michael
il secondo), per sottolineare come la storia non facesse che ripetersi, posso
dirlo? Molto in linea con le ossessioni dei personaggi scritti da Schrader, ma
per quello che mi riguarda De Palma ha fatto bene a tagliare tutto optando per
la sua versione. Fine della parte con
SPOILER!

Dopo la rivelazione De Palma non alza più il piede dall’acceleratore,
Michael ormai può solo credere alla realtà che considera migliore per se stesso,
la corsa in aeroporto sotto i neon anticipa il finale (che poi è anche l’inizio)
dei Carlito Brigante che saranno e in un crescendo finale, termina con un
abbraccio proprio quando le musiche di Herrmann raggiungono l’apice. Il
protagonista per non impazzire, sceglie di credere (e quindi abbracciare, anche
fisicamente) la versione della storia che De Palma ci ha mostrato, ignorando i
dubbi e i tabù più che legittimi, un trionfo della finzione che legittima il
finale e la nostra sospensione dell’incredulità in una scena dolce e amara allo
stesso tempo.

Sospendete la vostra incredulità ma credete nel fatto che Geneviève Bujold qui è bravissima.

Il cinema post moderno di De Palma è vera rielaborazione,
non è un caso che il regista di Newark sia uno dei preferiti di un grande
rimaneggione come Tarantino, ma i proseliti di De Palma sono sparsi in lungo e
in largo in tutto il mondo. L’inquadratura con la macchina da presa che gira
attorno ai protagonisti (qui in modo antiorario rispetto a loro, come ad
isolarli ancora di più dal mondo soli nel caldo abbraccio dell’ossessione che
hanno scelto come loro realtà) non solo è uno dei tanti marchi di fabbrica
della regia estremamente visiva di De Palma, ma non ci credo nemmeno se lo
dichiarasse lui stesso, che Park Chan-wook non abbia pescato anche solo un po’
da questo abbraccio finale, per la conclusione del suo capolavoro “Old Boy”
(2003), che con “Obsession” condivide più di un tema, perché per anni Brian De
Palma è stato frettolosamente etichettato come uno che faceva solo film alla Hitchcock
(come se fosse una cosa facile alla portata di tutti), quando, invece, la sua
influenza sul cinema è stata molto più profonda e radicata.

«Ordiniamo coreano per cena?»

Insomma, “Obsession” è ancora un ottimo film che ha tutto per
sorprendervi nel caso non lo abbiate mai visto, ma messo in prospettiva della
filmografia di cui fa parte, di sicuro è stato il momento in cui De Palma si è
auto incoronato come nuovo portatore della fiaccola del cinema di Hitchcock, a
questo punto, però, mancava solo più una cosa: un vero e monumentale successo al
botteghino in grado di poter certificare il talento, per questo era necessario
fare una visita ad un certo scrittore del Maine, ma di questo parleremo la
prossima settimana, mi raccomando non mancate, siete tutti invitati al ballo
scolastico.

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