vincoli contrattuali, ma “Orange is the new black” aveva imboccato l’ultimo
miglio. No, non quello che conduce al braccio della morte! Non siate così drastici,
mi riferivo solo alla fine della storia.
perché “Orange” è stata davvero quella che più di altre ha rappresentato i
nostri tempi moderni. Al suo esordio sette anni fa rappresentava davvero una
novità, complice il fatto che qui da noi in uno strambo Paese a forma di
scarpa, House of Cards andava in onda per la “concorrenza”, questa serie quasi da
sola, ha rappresentato quello che il potenziale delle produzioni Netflix potevano
essere.
una stagione lo stesso giorno, forse lo dobbiamo anche un po’ alle WIP (Women In
Prison) del carcere di Litchfield. Ma se questa serie ha espando i confini
della nostra pigrizia permettendoci di stare sul divano più a lungo, bisogna
anche dire che “Orange” ha dato lavoro a tutte quelle attrici che normalmente
ad Hollywood sono fuori mercato.
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“Siamo di nuovo senza lavoro” |
Giovani, anziane, bianche, nere, latine, senza distinzione
di altezza peso, orientamento sessuale da sola “Orange” ha sfornato talenti che
altrove, non sarebbero mai nemmeno stati presi in considerazione per un ruolo, il tutto con
un gran rispetto per i personaggi e le loro vicende.
Kohan sia andata un po’ persa per strada, questa stagione poi, per essere quella
conclusiva è una di quelle che ho trovato più lente nello svolgimento e zoppicante
in alcune scelte.
serie, questo era chiaro ormai da diverso tempo, vederla alla prese con la vita
fuori dal carcere, non è più una novità visto che “Orange” si è già giocato
questa carta con altri personaggi in precedenza. Anche l’utilizzo dei flashback
– un tempo davvero incisivi nell’aggiungere informazioni e prospettiva alle
protagoniste – qui risultano un po’ buttati nel mucchio come a voler rispettare
una tradizione.
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Sono l’unico a cui ricorda il video di “Time of your life” dei Green Day? |
Quello che mi ha un po’ stupito è stata la volontà di
infilare la sotto trama di Joe Caputo alle prese con il movimento #MeToo, ma
anche di dare parecchio spazio agli immigrati clandestini, tema che si, era già
stato anticipato nel bel finale della stagione precedente, ma che lo ammetto mi
ha spiazzato. Perché la serie che ha dato più spazio alle donne, forse di sempre
sul piccolo schermo, deve allinearsi così alla moda imperante? Erano già in
testa, perché rallentare ad aspettare il gruppo degli inseguitori?
alle detenute senza “Green card” ben rappresentate da Blanca (Laura Gómez), risulta spesso molto efficace, anche grazie alla nuova arrivata, la madre che
cerca di risolvere autonomamente il suo caso in via giuridica. A tratti questa sotto trama riesce a risultare angosciante, come il finale del terzo episodio (7×03 – And brown
is the new orange), un modo brillante per affrontare il tema caldo dei
migranti, da tanti – e anche parecchi politici che su questo ci campano, da
questa e da quella parte della grande pozzanghera nota come oceano Atlantico – considerati
una minaccia perché spersonalizzati e generici, qui se pure immaginari, molte
di quelle storia che sentiamo al telegiornale, prendono un nome e un volto con
cui fare i conti. Se serve a scuotere qualche coscienza, ben venga.
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Dark pink is the new orange, that is the new black (tutto chiaro no?) |
Di meno efficace purtroppo ho trovato tutto il resto,
vogliamo dire che il METAFORONE delle galline in gabbia di Suzanne “Occhi
Pazzi” (Uzo Aduba) non è proprio la più raffinata delle trovate che si poteva trovare?
Ok capisco che sia un’ideale ritorno alla “gallina magica” ormai parte dell’iconografia
di questa serie, ma si poteva fare di meglio.
cede e si gioca il contentino per i fan, facendo ritornare quasi tutti i
personaggi visti in sette anni, anche se per pochissimi secondi e spesso in
maniera pretestuosa.
più popolato del centro al sabato pomeriggio, ma troppe storie di queste
detenute sembrano pensate per strappare la lacrima facile: Morello, Red ma
anche Pennsatucky, giusto che i personaggi che sono qui dall’inizio abbiano più
spazio, ma speravo in qualcosa di meno platealmente ruffiano come mossa.
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Le veterane della vecchia guardia, alla fine mi mancheranno. |
Notevole invece decidere di concludere con un episodio
finale – che inizia con versione alternativa della ormai classica sigla “You’ve
Got Time” di Regina Spektor – quasi tutto all’insegna dei toni bassi, che
serva a dare una conclusione alla storia di Piper e Alex, anche se da quando ho
scoperto che la “vera” Alex non somiglia per niente a Laura Prepon, un po’ l’incanto
si è rotto. Se non altro Piper Kerman, autrice del libro da cui questa serie è
tratta, si è scelta un’attrice credibile come una versione giovane di se
stessa.
alla fine le miei serie del cuore, hanno saputo superare anche questo difficile
esame, “Orange” si era già spinta ben più in là delle sue potenzialità, e nel
farlo un pochino la storia del piccolo schermo è riuscita a scriverla lo
stesso. Ben felice di aver completato il viaggio, ora posso salire sul bus e
affrontare la vita (e le serie tv) dopo Litchfield.
stagioni commentate: