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Pat Garrett e Billy the Kid (1973): mama take this badge from me (I can’t use it anymore)

Con tutto il rispetto, ma sappiate che oggi non accetto
gorgheggi in stile Axel Rose, oggi è il giorno dedicato al nuovo capitolo della
rubrica… Sam day Bloody Sam day!

Se sul piano professionale la carriera di Sam Peckinpah non
avrebbe potuto andare meglio dopo il successo di Getaway!, sul piano personale il regista di Fresno era fresco fresco
di un sanguinoso (per rendere onore al suo soprannome) divorzio da Joie Gould,
questo gli permetteva di avere più tempo per dedicarsi alle sue passioni, una
logorante come l’alcool, l’altra (per nostra fortuna) decisamente più artistica
come i film Western.

L’occasione arriva da Gordon Carroll, uno dei giovani
produttori rampanti di Hollywood, forte del successo di un grande film di
protesta come Nick mano fredda,
Carrol vorrebbe raccontare una nuova versione del mito di Pat Garrett e Billy
the Kid che al cinema era già stato raccontato… Boh? Quaranta volte o giù di
lì. Per Carrol Billy era una sorta di Rockstar del vecchio West, un giovanotto
entrato nel mito e morto troppo presto solo per essere idealizzato da tutti,
proprio come accade ai grandi cantanti che lasciano questa valle di lacrime
prima del tempo. La sua idea sarebbe proprio quella di coinvolgere dei
musicisti per i ruoli principali nel film, visto che ha già per le mani
l’ottima sceneggiatura scritta da Rudoplh Wurlitzer, autore di un bellissimo
film molto apprezzato anche da Peckinpah (e dal sottoscritto per quello che conta)
come “Strada a doppia corsia” (1971) di Monte Hellman, inizialmente preso in
considerazione per regista di questa nuova versione di Pat Garrett e Billy the
Kid.

I titoli di testa della versione più famosa, di una storia raccontata al cinema tante volte.

Nella versione di Rudy Wurlitzer, lo scontro tra lo sceriffo
e il bandito era una cronaca più aderente alla realtà dei fatti, con dialoghi
davvero incredibili, ma con il coinvolgimento della MGM il progetto sale di
colpi e con Monte Hellman fuori dai giochi, il primo nome buono per la regia è
proprio quello di Sam Peckinpah che, leggendo la sceneggiatura, va giù di testa
per il lavoro di Wurlitzer, tanto da abbandonare l’adattamento del romanzo “The
authentic death of Hendry Jones” a cui stava lavorando per mettersi sulle piste
di Billy the Kid (storia vera).

Bloody Sam firma un contratto che alla lunga si rivelerà un
cappio attorno al collo per lui, 228 mila dollari subito e una fetta sugli
incassi, ma la postilla sono due proiezioni di prova prima di avere l’ultima
parola sul montaggio del film, una coperta corta come vedremo più avanti nel post
(lasciatemi l’icona aperta). Inoltre, Peckinpah ad una seconda lettura della
sceneggiatura capisce che manca qualcosa, un po’ di fuoco sotto la brace di
questa storia, la versione di Wurlitzer teneva conto del fatto che Pat, prima
di diventare lo sceriffo Garrett, conosceva davvero Billy, ma di questo si
trattava, di una conoscenza, non di certo la grande amicizia tra due vecchi
compari di colpo ai lati opposti della barricata che quasi un secolo di
leggende su Billy hanno tramandato. Eppure, il tema del tradimento, del prezzo
che un uomo deve pagare per restare fedele ai suoi ideali, è un filo rosso che
corre lungo tutta la filmografia di Peckinpah fin dai suoi esordi, davanti alla difficile scelta tra essere
aderente alla realtà oppure di seguire la lezione di John Ford e di raccontare
la leggenda, Peckinpah ha dei dubbi, si consulta con il fidato Jim Silke, si
alliscia i baffi e poi prende una decisione: «Raccontiamo la leggenda».

“Sam se ti serve, ho qualcosa di meglio di quell’affare per acchiappare le mosche”

Il risvolto emotivo, l’amicizia tra Pat e Billy è la benzina
che ha sempre alimentato il fuoco di quella che per gli Americani è una
leggenda, sono sempre stati un Paese con una storia brevissima rispetto a noi
Europei, quindi, il vecchio West per gli Yankee è l’equivalente dei miti greci,
con questo film Sam Peckinpah, uno dei maggiori poeti della frontiera, ha
quindi la possibilità di raccontare alla sua maniera una storia che è arcinota
perché è stata portata al cinema un numero esagerato di volte, ma che è anche parte del folclore americano, come
fare a renderla originale e moderna? Peckinpah trova la risposta tra le pagine
dei giornali.

Nell’estate del 1972 l’America è scossa dallo scandalo
Watergate, Richard Nixon per cui Peckinpah provava un manifesto disprezzo (alla
faccia di chi accusa il regista di Fresno di simpatizzare per la destra
americana) aveva trovato il modo di diventare il più odiato presidente della
storia degli Stati Uniti, con la guerra del Vietnam ancora in corso Peckinpah
ha l’occasione per usare il genere che più ama, il Western, per raccontare
i turbamenti americani contemporanei. Richard “Tricky Dicky” Nixon è un grigio
burocrate, uno di quelli “con l’ufficio più in alto del primo piano” che
Peckinpah ha sempre visto come fumo negli occhi, idealmente nel suo film, Pat
Garrett, accettando la stella, si è venduto a uomini come Chisum (interpretato da
Barry Sullivan) che hanno svenduto il sogno americano, anzi, per utilizzare le
parole di Billy nel film: “Quei dannati proprietari che mettono staccionate
intorno a questo maledetto Paese”.

Billy esprime tutto quello che pensa dei burocrati di questo mondo.

Per legare a filo doppio i suoi due personaggi, Peckinpah ha
un’intuizione geniale e se la gioca subito nei primi cinque minuti del film,
quelli che, come vi ripeto sempre, dettano tutto il passo di una
pellicola. Il mito di Billy the Kid poteva alimentarsi solo negli anni ’70 (del
‘800) nel Nuovo Messico, terra di conquista per i latifondisti, come gli agenti
del Santa Fe Ring a cui Peckinpah (con un minimo di paranoia complottista,
anche un po’ parte del suo personaggio così ossessionato dalla fedeltà degli
uomini del suo “mucchio selvaggio) addossa tutta la responsabilità delle azioni
che hanno portato all’omicidio del bandito Billy the Kid.

Ecco perché il film si apre con una scena ambientata 27 anni
dopo la morte di Billy, nel 1908 con un vecchio Pat Garret che viene ucciso a
tradimento dagli stessi sicari del Santa Fe Ring che avevano commissionato la
morte di Billy, ma per legare ancora di più i due personaggi, Peckinpah sceglie
un’ellisse narrativo: Pat colpito a morte dai proiettili è come le galline
sepolte fino al collo nella sabbia a cui Billy e i suoi compagni sparano (dopo
la salamandra di Cable Hogue, un’altra
prova che il cinema degli anni ’70 aveva una sensibilità diversa da quella
attuale). In una sola bellissima scena, grazie all’ottimo montaggio vediamo il
vecchio Pat morire e una versione più giovane nel 1881 fare un sorriso
all’amico Billy, considerando che ad interpretare lo sceriffo sono i dentoni
di James Coburn (al secondo film
diretto da Peckinpah e il tassametro corre) che aveva voluto fortemente
interpretare il ruolo. Direi che tutto torna alla perfezione, no?

Questo signore per me, sarà sempre sinonimo di Western.

Ma se Sam Peckinpah è il ribelle di questa storia, un
novello Billy the Kid, ci vuole anche qualcuno a ricoprire il ruolo
dell’autorità, lo sceriffo Pat Garret qui ha un nome e una fama che lo precede,
si tratta di Jim Aubrey, il capo della MGM definito da Phil Feldman l’uomo che
aveva salvato la carriera a Peckinpah con “Noon Wine”: «Jim Aubrey è quanto di
più freddo si possa essere, senza venir dichiarati cadaveri».

Aubrey non guarda in faccia nessuno, ha fama di essere un
produttore invasivo e sogna di passare alla storia come colui che ha fatto
trottare a piacimento il ribelle Peckinpah, inoltre, si è lanciato in un’impresa
più grande di lui (oltre a quella di domare Bloody Sam): la costruzione del
lussuoso Grand Hotel MGM a Las Vegas, una cattedrale nel deserto (del Nevada)
da riempire con tutti gli oggetti di scena presi da film della casa di
produzione, una mostruosità autocelebrativa costata 120 milioni di fogli verdi con
sopra facce di ex presidenti defunti che andava ripagata producendo film di
successo il prima possibile. Capite da voi che eravamo già tutti in linea per
un clamoroso disastro.

“Bah, sarebbe stato meglio costruire un albergo sì, ma ad ore”

Quello che, invece, ha funzionato è la scelta degli attori,
con il ruolo di Pat in cassaforte grazie al grande James Coburn (in una delle
sue prove più dolenti di sempre), per la parte di Billy viene proposto un vero
cantante, non Rock come sognava Gordon Carroll, ma folk come l’uomo con il nome
più bello del mondo, Kris Kristofferson, fresco del successo di un paio di suoi
pezzi come “Help me make it through the night” e “Me and Bobby McGee”. Come
spiegare Kristofferson alle nuove generazioni, magari lo ricorderete come
mentore del vampiro Blade nel film omonimo del 1998, ma considerata anche una
vaga somiglianza fisica, diciamo che Kris Kristofferson è un Carlo Cracco con i
testicoli. Portatore sano di carisma, Kris non solo è diventato grande amico di
Peckinpah, ma con quel suo sorriso strafottente ha saputo delineare uno dei
migliori Billy the Kid mai visti al cinema, compensando anche alcune lacune
della storia, più avanti ci torneremo su questo punto.

Jesus Kristofferson Superstar.

A proposito di cantanti, Peckinpah non vede tanto di buon
occhio questo tizio riccioluto per cui Gordon Carroll prova tanta stima, tanto
da volerlo infilare nel film a tutti i costi, ma quando il regista ha la
possibilità di conoscere Bob Dylan (potreste averne sentito parlare come di uno
dei più grandi geni del nostro tempo) resta piacevolmente impressionato non
solo dalla voglia di Dylan di mettersi al servizio del film, ma anche dalle
canzoni composte apposta per la pellicola, ancora oggi l’unico caso nella
carriera di Bob Dylan, in cui il grande cantante ha prestato la sua musica per un
film. Sta di fatto che Peckinpah, pur di avere Dylan a bordo, espande il
personaggio di Alias rendendolo il testimone degli eventi, un personaggio che
affascinato dalla figura di Billy decide di seguirlo e di cantarne le lodi,
in un modo quasi metacinematografico visto che Dylan ha fatto su un disco omonimo
(uscito nel 1973) che meriterebbe se non un post tutto suo, almeno un Rock ‘n’ Blog a tema.

“Grazie Cass, la prossima volta ti suonerò Hurricane”

Come dicevo lassù, personalmente ho sempre riscontrato
due problemi, se vogliamo minori, ma presenti: in “Pat Garrett e Billy the Kid”
il personaggio di Billy non è sfaccettato quanto lo sceriffo Pat, resta uguale
a se stesso fino ai titoli di coda, Peckinpah lo sapeva, ma per motivi di tempo
e di condizione fisica precaria, non ha avuto la possibilità di scriverlo in
maniera diversa e questo ci porta al secondo difettuccio del film, la sua
natura frammentaria.

Dopo la scena iniziale con passato e presente che s’incrociano, “Pat Garrett e Billy the Kid” sembra diventare un lungo flashback a
cavallo dei ricordi dello sceriffo Garrett, in quanto tali spezzettati, infatti
la ricerca di Billy dello sceriffo diventa quasi una collezione di scene,
alcune clamorose e bellissime, ma sempre un po’ scollate tra di loro. Ogni
volta che rivedo il film, la sensazione che ho è sempre questa, ad esempio le
scene con Billy the Kid sono grandiose, la sua fuga iniziale, il suo scontro
verbale con Bob Ollinger (interpretato dal solito e fidato R.G. Armstrong),
l’uomo timorato di Dio che tratta Billy come una pezza da piedi e lo vorrebbe
solo vedere appeso per il collo con ben poca pietà cristiana, l’ultimo dei
personaggi critici rispetto alla Chiesa utilizzato da Peckinpah nella sua
filmografia, che finisce fucilato da Billy, in un tripudio di pallettoni,
monete infilate nella canna del fucile («Tieniti gli spiccioli Bob») e, ovviamente,
sangue mostrato a rallentatore, nello stile di Bloody Sam.

“Tieni il resto lurido bastardo” (cit.)

Questo scollamento tra le scene tende a notarsi meno perché
alcune sono oggettivamente meravigliose, ma sono anche il frutto della sparatoria tra
Peckinpah e Jim Aubrey, con il secondo che non faceva altro che alimentare
l’odio di Bloody Sam per i burocrati, rifiutando tutte le richieste del
regista, anche quelle legittime, come quella di avere un tecnico per aggiustare
una lente inclinata di una delle macchine da presa che impediva di avere scene
correttamente a fuoco, sfornando così un grande quantitativo di pellicola che Peckinpah ha
dovuto rigirare, senza il permesso di Audrey, ormai in guerra aperta con il
regista. Sul set di “Pat Garrett e Billy the Kid” si sono replicate identiche
le dinamiche distruttive che avevano azzoppato Sierra Charriba, pur di fare un torto al produttore che pretendeva
solo tagli e non ascoltava ragioni, Peckinpah faceva arrivare comparse sul set,
le teneva per giorni ospiti in alberghi con tutto pagato, anche quando non ne
aveva affatto bisogno, pur di rompere le scatole alla MGM (storia vera). Ma
l’altro problema sul set è stato un altro, la vecchia amica di Sam: la
bottiglia.

Per restare lucido Peckinpah si faceva allungare i suoi
beveroni alcolici con della granatina, ma con il passare delle ore sul set, la
granatina nei suoi bicchieri diminuiva e veniva allungata con tutto, Vodka,
Brandy, Scotch, Campari, le parole di Coburn riassumono al meglio la
situazione: «Sam era un genio tre ore al giorno, qualche volta di più, ma
dipendeva da quanto aveva bevuto».

“Voi non avete sete? Con questo caldo ho la bocca secca”

Questo non cambia il fatto che “Pat Garrett e Billy the Kid”
sia un titolo incredibile, anche se Peckinpah non ha potuto contare su molti dei
suoi pretoriani (Aubrey non li ha assunti, per non rafforzare il regista,
storia vera), il film è oltre ad un Western bellissimo, un rugginoso e
malinconico racconto sulla fine di un’era che viene divorata pezzo dopo pezzo
dai burocrati e dai politici (come il Governatore Lew Wallace interpretato da Jason Robards), in cui più che nel
ribelle Billy, qui rappresentato come un puro, un po’ naif e sicuramente
strafottente nei confronti dell’autorità (insomma un antieroe come solo la
celluloide può regalare), per assurdo a Peckinpah sembra interessare più un
personaggio controverso come Pat Garrett, l’uomo che ancora ricorda le
scorribande e le bevute con l’amico Billy, una sorta di Deke Thornton che ha accettato una stella da sceriffo per andare
avanti con la seconda parte della sua vita, ma in cambio di una pensione da
borghese deve mettersi sulle piste di quello che è letteralmente il suo
passato, ovvero l’amico Billy the Kid, ormai un suo nemico seguendo le pesanti
regole imposte da quella piccola stella sul petto.

“Pat Garrett e Billy the Kid” è una cavalcata attraverso la
fine di un’era costellata di singoli momenti bellissimi, uno dei migliori senza
ombra di dubbio la sparatoria dove lo sceriffo Garrett assiste al ferimento di Black
Harris (il leggendario L. Q. Jones in una scena che ne sottolinea lo stato di
icona) che, colpito da un proiettile alla pancia, si allontana, sotto gli occhi
della moglie in lacrime a guardare un tramonto che è quello della sua vita, è
quello della frontiera e che Sam Peckinpah sottolinea con le note di “Knockin’
On Heaven’s Door” di Bob Dylan, un pezzo diventato leggerissimamente famoso
anche grazie a questo film, chi lo canta come pezzo di speranza o non lo ha
capito, oppure non ha visto questo film, non so quele delle due cose sia la più
grave. Di sicuro lo avevano visto e capito Shane Black e Richard Donner che
hanno omaggiato la scena in Arma Letale 2, giusto per farvi capire quanto
questo film e Peckinpah abbiano influenzato la cultura popolare.

L. Q. Jones entra definitivamente nella storia del cinema, con una scena che si lascia guardare (e ascoltare)

La scena chiave, però, resta il finale che non è “Spoiler”
perché la leggenda di Pat Garrett e Billy the Kid è patrimonio culturale. James
Coburn con il peso del suo mondo (al tramonto) sulle spalle, concede all’ex
amico l’ultima scopata con la bella figliola che Billy si è portato in camera,
poi attraversa a passo lento tutto il portico, se il finale di Il mucchio selvaggio è dinamismo puro
applicato a centinaia di pallottole sparate, quello di “Pat Garrett e Billy the
Kid” è rigoroso, sofferto in quel suo unico colpo esploso, anzi due, perché con
il primo proiettile lo sceriffo Garrett uccide l’amico di un tempo e con il
secondo spara allo specchio, come a sottolineare il suo odio per l’immagine
riflessa dell’uomo che è diventato, dopo aver ucciso quella che è a tutti gli
effetti una versione più giovane di se stesso.

Metaforoni, quelli fatti bene.

I Western di norma finiscono con un eroe che cavalca verso
il tramonto, qui succede lo stesso, ma di eroico non abbiamo proprio nulla, Pat
Garrett sarà anche lo sceriffo che ha ucciso un feroce e ricercato bandito, ma
se ne va, con un ragazzino che per ringraziarlo, gli lancia dietro dei sassi,
un uomo che ha ormai messo a terra la sua pistola, perché non può sparare mai
più parafrasando Bob Dylan. Se non è un Classido questo, non esistono i
Classidy!

Sono in pochi a poter vedere il primo lunghissimo montaggio
di Peckinpah, tra questo il regista Martin Scorsese che non esista a definirlo
immediatamente come un capolavoro, ma il bandito Sam Peckinpah deve fare i
conti con l’autorità dello sceriffo Jim Aubrey, ricordate il contratto capestro
di cui parlavo lassù da qualche parte? Aubrey lo utilizza per far rimontare il
film due volte, organizzando due proiezioni di prova farlocche negli uffici
della MGM, secondo lui un Western non dovrebbe durare più di 90 minuti e poi ha
più di un sasso nella scarpa da togliersi, quindi si vendica sui chilometri di
pellicola girata da Peckinpah.

Bloody Sam da di matto, accusa i suoi montatori di averlo
tradito, Roger Spottiswoode non ci sta a passare per traditore e pare sia uno
di quelli che ha aiutato il regista a far uscire dagli uffici della MGM, una
copia del suo film, non completamente brutalizzata dai tagli imposti da Audrey
che fece, comunque, uscire il film in sala ridotto a 106 minuti di durata, portando
a casa commenti tiepidi: i critici non capiscono se si tratta di un grande film
malamente sforbiciato, oppure di un disastro tenuto insieme con la colla dai
produttori.

Padre Tempo, il miglior critico cinematografico di sempre, avrebbe dato una risposta chiara.

La copia “pirata” salvata dal martirio viene proiettata di
straforo, contiene il biografico litigio tra Pat e la sua moglie messicana (che
ricorda tanto l’amata e odiata Begonia, moglie di Peckinpah) e ha un respiro
molto più ampio non è ancora la versione dell’anteprima da 122 minuti, ma è
quella uscita a furor di popolo (e sostenuto da Martin Scorsese) in DVD da 115
minuti. Jim Audrey avrà anche cercato di uccidere Sam Peckinpah sparandogli al
cuore, ma come lo sceriffo Pat Garrett non ha ucciso un ribelle, ha creato una
leggenda.

La prossima settimana, saremo ancora qui per raccontare un
altro capitolo delle gesta del leggendario ribelle Sam Peckinpah, ci vediamo
qui tra qualche giorno e mi raccomando… Testa sulle spalle!

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