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Per qualche dollaro in più (1965): quando finisce la musica, leggi. Se ti riesce…

Il gioco lo conoscete, cercate di leggere tutto il post prima che la musica finisca. Se ci riuscite… Intanto benvenuti al nuovo capitolo di un mercoledì da Leone!

Definire Per un pugno di dollari un grande successo commerciale, sarebbe altamente riduttivo, il primo Spaghetti Western diretto da Sergio Leone nell’Italia degli anni ’60 è una rivoluzione cinematografica capace di incantare le platee, per questo la Jolly film pretende un seguito a tutti i costi.

Leone non sa bene dove girarsi, in preda ad una mezza paralisi creativa del tutto comprensibile visto l’enorme successo del suo film. Tanto che il regista romano accarezza l’idea di passare proprio ad altro, un film autobiografico, un thriller qualunque cosa, ma non un western. Mi sembra piuttosto logico, considerando che senza l’enorme influenza di Akira Kurosawa, Per un pugno di dollari non sarebbe mai esistito, una cosa è sfornare un capolavoro quando non hai nulla da perdere, ben altra sfida ripetersi quando hai tutti gli occhi puntati addosso.

C’è aria di miti riuniti in questa foto (quasi-cit.)

Già, perché ci sarebbe sempre la faccenda della causa legale vinta da Kurosawa nell’aria, il motivo per cui Leone e i produttori della Jolly Film, Papi e Colombo, erano leggerissimamente ai ferri corti, se non proprio con la mano già sul calcio delle pistole. A questo punto, Leone in rottura prolungata con i due, fa l’unica cosa sensata per uno a cui rode ancora parecchio il culo: interrompe la collaborazione con la Jolly e invece di fare il western che avrebbe dovuto fare per loro, decide di sfornarne un altro, solo per fargli concorrenza. La leggenda vuole che il titolo lo abbia snocciolato così su due piedi, senza avere uno straccio di soggetto in testa: “Per qualche dollaro in più”. Che, forse, era anche quello che avrebbe voluto guadagnare alla faccia della Jolly, non c’è da stupirsi se poi il film parla di vendetta.

Non può mancare la tradizione dei titoli di testa, anche perché questi sono leggendari.

Ad una cena di lavoro Leone conosce l’avvocato Alberto Grimaldi, uno ben avviato nel mondo delle produzione cinematografica grazie al quale sono arrivati alcuni dei più grossi titoli del nostro cinema. Grimaldi ha nasato l’affare e si propone di produrre il nuovo lavoro di Leone, mettendo sul tavolo anche un compenso e spese pagate. Leone coglie al volo la ghiotta occasione, a questo punto può davvero fare quello che vuole.

Il soggetto scritto insieme a Duccio Tessari e Fernando Di Leo, ruota intorno a due cacciatori di taglie, uno vecchio e uno più giovane, sulle piste di un pericoloso ricercato, ma poi Leone non proprio convinto tira dentro Luciano Vincenzoni per alcune revisioni in particolare ai dialoghi, ma nel frattempo Grimaldi sfrutta i suoi contatti e tira dentro anche la United Artist, pronta a metterci del capitale e a distribuire il film anche negli Stati Uniti, ora Leone ha letteralmente qualche dollaro in più e sa esattamente come utilizzarli.

Clint Eastwood rifiuta strenuamente la corte spietata ricevuta da Papi e Colombo e decide di restare fedele a Leone prendendo di nuovo parte al suo film, dopo che il regista romano gli ha “mimato” la trama a grandi linee (ed io pagherei altro che dollari per vedere la scena). Prendi il poncho Clint, si torna tutti in Spagna!

«Sergio, tu il gioco lo conosci. Ma come possiamo fare il nostro mestiere, se continuano ad andare in giro per il deserto?»

Se per il budget da fame del suo film precedente, Henry Fonda e Charles Bronson erano nomi proibitivi, forse ora andrà meglio. Più o meno, perché anche questa volta Leone non riesce a raggiungere i due attori, ma nemmeno Lee Marvin, la sua prima opzione per il ruolo del colonello Douglas Mortimer, l’attore di “Quella sporca dozzina” sulle prima sembra interessato, ma deve rinunciare perché aveva già firmato per un ruolo in “Cat Ballou” (1965) (storia vera).

Ma Leone non molla, ha un piano, gli piace la faccia di un attore che ha visto in tanti western e che lo ha colpito in “L’uomo che uccise Liberty Valance” (1962), secondo lui Lee Van Cleef era una specie di incrocio tra un parrucchiere da uomo del Sud e Vincent van Gogh, ma con lo sguardo più da falco (storia vera), un esteta dei volti, con cura maniacale per il dettaglio come Leone vuole proprio lui, anche se nessuno sa bene che fine abbia fatto Van Cleef.

«Tu hai l’aria di chi è venuto qui a mettere fine alla mia pensione anticipata»

Il buon vecchio Lee è uscito dal giro, fatica a sbancare il lunario e ci ha dato un taglio anche con la bottiglia, dopo essere uscito vivo per miracolo da un brutto incidente d’auto (storia vera). Van Cleef nella vita ha conosciuto alti e bassi, basta dire che da ragazzo ha perso la prima falange di una mano (in una delle scene madri del prossimo capitolo della “trilogia del Dollaro” si vede chiaramente) quando lavorava come falegname, quindi per lui basta così, ora é il momento di coltivare la sua carriera di pittore, almeno finché questo strambo Italiano gesticolante e molto motivato non lo convince, Lee Van Cleef accetta di volare in Spagna, ma solo dopo aver completato l’ultimo dipinto che deve fare su commissione (storia vera).

Sognava di dipingere capolavori, è finito per recitare in capolavori.

Chi viene confermato senza ombra di dubbio è Gian Maria Volontè nei panni dello spietato Indio, la sua recitazione così teatrale continua a non piacere a Leone, ma i due si trovano a metà strada, questa volta il personaggio avrà una caratterizzazione molto più esagerata (che lo renderà memorabile) anche se Volontè ha dovuto recitare in Inglese, lingua di cui non conosceva nemmeno mezza parola (storia vera). Ennio Morricone, invece, pare che abbia iniziato a comporre la colonna sonora, senza nemmeno conoscere la storia, solo sulla base di un paio d’indicazioni del regista e di qualche spezzone di girato giornaliero quando disponibile.

“Per qualche dollaro in più” è considerato il più debole dei film della mitologica “trilogia del Dollaro”, non ha l’immediatezza, il minutaggio snello e la rete di sicurezza di Kurosawa alle spalle di “Per un pugno di dollari” e di sicuro sembra una versione più in piccolo del prossimo capitolo (prossimamente dove era destinato da sempre a stare, su queste Bare, fatemi gli auguri), ma è il film con cui Sergio Leone conferma il suo stile inimitabile ed è anche uno di quei rari momenti in cui mi sono trovato d’accordo con Carlo Verdone.

«Cassidy, occhio a come parli di Verdone, potresti ritrovarti con una bella taglia sulla testa. Oppure un nuovo buco dentro»

Perdonatemi, ma non sono mai andato giù di testa per il Verdone nazionale, certo, ha firmato film bellissimi ed è quello più bravo di tutti a rappresentare al cinema i coloriti abitanti di uno strambo Paese a forma di scarpa, gli riconosco di avere anche ottimi gusti musicali, ma non è mai stato tra i miei preferiti, anzi tutt’altro. Devo dire, però, che quella volta che Sky lo ha chiamato a parlare del suo mentore, amico e (quasi) figura paterna per il bellissimo documentario “Verdone racconta Leone”, sono quasi riuscito a fare pace con l’attore romano, perché in meno di un’ora, Verdone ci ha regalato chicche incredibili sul grande Sergio.

La mia preferita resta quella di Leone che chiedeva al suo protetto quale fosse il suo film preferito tra quelli da lui diretti, Verdone senza pensarci troppo risponde “Per qualche dollaro in più”, Leone la prende bene, «Sei proprio un burino», ma perché Sergio? «È il film che piace agli scippatori e ai ladri, ho fatto de mejo». Verdone, però, beccandosi ripetutamente del burino dice una grande verità: Clint Eastwood, Lee Van Cleef e Gian Maria Volontè sono un trio grandioso, tre volti da cui Leone tira fuori l’oro, ogni ruga sui loro volti sembra il Grand Canyon ed ognuno di loro è scolpito a fuoco nell’immaginario collettivo. Anche se non è il mio Leone preferito, chissà se il grande Sergio direbbe anche a me che sono un burino, se pretendo di averlo a tutti i costi tra i Classidy!

“Per qualche dollaro in più” è il perfetto secondo capitolo, perché, a suo modo, applica la regola aurea dei seguiti (uguale al primo, ma di più!) portandosi dentro i segni della lezione che Leone ha imparato da Kurosawa, infatti ad ovest di James Bond e del Doctor Who, l’uomo senza nome interpretato da Clint Eastwood nel primo film, qui torna in un’eccezione anomala per noi occidentali, ma del tutto normale per gli orientali, decisamente meno ossessionati dalla continuità interna dei vari capitoli. In Giappone è normale che Zatôichi cambi volto e attore, nessuno si aspetta una spiegazione quando accade, qui succede quasi lo stesso, per tre volte di fila Clint Eastwood ha recitato lo stesso personaggio, dentro lo stesso lurido poncho, cambiando ogni volta soprannome e qualche caratteristica, ma restando fondamentalmente lo stesso.

Qui, ad esempio, tutti lo chiamano “Monco” (tranne Mortimer che lo chiama ragazzo, anche se tra Van Cleef ed Eastwood ballano solo cinque anni di differenza) perché di fatto lui la mano destra la utilizza solo per fare la cosa che gli riesce meglio, sparare alla velocità della luce. Di fatto, quasi una “rigenerazione” in stile Doctor Who del personaggio e delle facce attorno a lui (tipo Mario Brega, qui nei panni di Niño oppure Joseph Egger, di nuovo doppiato come il gufo Anacleto del classico Disney del ‘63 “La spada nella roccia”) che da assoluto protagonista del primo capitolo, cede il ruolo ad uno che, invece, ha una faccia da cattivo, anche se elegantissimo.

Con una mano fuma…
…e con l’altra fa fumare la pistola (in ogni caso gli fumano)

“Per qualche dollaro in più” ha un protagonista in cerca di vendetta personale, una cassaforte e dei flashback fondamentali per raccontare porzioni importanti della storia, un duello finale che è già quasi un “triello” e un minutaggio che si avvicina a quello ben nutrito del prossimo capitolo della trilogia del Dollaro, ma senza avere ancora lo stesso impeccabile ritmo. Insomma, sono le prove generali, quel «Ho fatto de mejo» di cui sopra, ma Leone è già talmente lanciato verso la leggenda, che ogni dettaglio di questo film diventa mitico.

I dettagli stanno nelle piccole cose, quelle che Leone sapeva rendere grandi.

Proprio con “Per qualche dollaro in più” Leone ha l’occasione per mettere in pratica la sua maniacale cura per il dettaglio, gli oggetti di scena (compreso il mitologico orologio con carillon di Indio) tutti selezionati da Leone con cura perché, a sua detta: «Nun stamo ar circo, stamo ar cinema: se vede tutto». Ossessione e cura che traspare fin dai due protagonisti, entrambi cacciatori di taglie, ma opposti nello stile e nell’aspetto, il Monco di Eastwood è spavaldo, consapevole di essere il pistolero più veloce in circolazione, il colonello Douglas Mortimer di Van Cleef invece studia le sue mosse, la sua strategia è sempre quella di essere un passo davanti al suo avversario («Hai avuto l’idea giusta ragazzo, ma arrivi sempre dopo di me»), infatti vince i duelli restano fuori dalla portata delle pistole avversarie e colpendo a distanza con la sua Colt Buntline modificata con l’aggiunta di un calcio da fucile. La sua entrata in scena lo presenta alla grande, con uno così le cose possono andare solo in un modo, ovvero come ha previsto lui («Questo treno ferma a Tucumcari»).

L’uomo che ferma i treni con lo sguardo.

Leone porta avanti la sua tradizione di “buoni” che campano di espedienti e che risultano tali solo perché opposti a personaggi ben più malvagi di loro, l’Indio di Gian Maria Volontè è il primo concreto passo di Sergio Leone verso la decostruzione del mito del West. Un cattivo che è malvagio senza possibilità di appello («Adesso mi odi al punto giusto»), ma che ogni volta che uccide deve sballarsi fumando come James Franco in un film con Seth Rogen, uno che ha fatto del suo senso di colpa un simbolo di terrore per i suoi avversari, è normale che uno così sfidi tutti a sparare quando la musica finisce (se ti riesce…), un modo nemmeno troppo inconscio di sfidare la morte che sarebbe l’unica liberazione. Quando riesci a raccontare un cattivo così, metà del film lo hai già fatto e Gian Maria Volontè qui recita davvero per la storia del cinema.

«Quando hai finito di blaterare frasi su di me Cassidy spara! Se ti riesce…»

La trama è una lunga presentazione dei personaggi, prima di un MacGuffin (la cassa piena di soldi), in attesa di uno scontro finale che sappiamo sarà inevitabile, ma nel frattempo viene caricato di una buona dose di gravitas, quando Leone scoprendo le carte poco a poco mette in chiaro che per qualcuno dei personaggi, non si tratta solo di mettere le mani su… Beh, qualche dollaro in più, ma di chiudere i conti con qualcosa di molto più grosso. Il modo in cui Leone ci rivela il tutto e poi lo conferma con una frase lapidaria, ma poetica di Clint Eastwood («C’è aria di famiglia in quella foto») è un capolavoro di sintesi.

Il carillon, quasi un personaggio nella storia. Se non proprio il protagonista.

Ogni dettaglio e ogni volto in questo film è già pronto per la leggenda, basta pensare al gobbo Wild, interpretato da Klaus Kinski, uno che sarebbe destinato a fare grandi cose al cinema e le musiche di Ennio Morricone sono (come al solito) la marcia in più della pellicola, lo scacciapensieri del tema principale è leggenda, prepara già agli echi della sfida che i tre protagonisti affronteranno, ma il pezzo chiave resta il carillon del duello finale.

«Quale gobba?» (Cit.)

Una musichetta ossessiva a cui Morricone aggiunge il tono solenne del momento, un’attesa che sembra diventare infinita e, non a caso, ricomincia ogni volta che sembra stia per arrivare l’ultima nota, quando la musica finisce, raccogli la pistola e cerca di sparare. Cerca! Eh, io cerco Ennio, ma qui non finisce mai. Al resto ci pensa Leone, con la sua regia, che indugia sui calci delle pistole, sui volti, sui primissimi piani degli occhi. Per qualunque altro regista una scena così sarebbe un coronamento, il punto d’arrivo di una carriera, per Sergio Leone è stato l’inizio, di un modello che in tanti hanno provato ad imitare, le prove generali, «Ho fatto de mejo», sì, Sergio, vero, però me cojoni, se tutti i capitoli meno riusciti di una trilogia fossero così. Dove devo firmare per un accordo del genere?

Il meno riuscito della trilogia. Ah sì? Così su due piedi non sembra.

Sembra banale dirlo, ma nella stagione cinematografica 1965-1966 “Per qualche dollaro in più” si porta a casa tre miliardi e mezzo di vecchie Lire, per numero di spettatori, ad oggi è ancora il quinto film italiano più visto di sempre, avrà pure ucciso la carriera di pittore di Lee Van Cleef, ma per quella da attore direi che è andata benino, oltre ad un sacco di Spaghetti Western, lo abbiamo visto diventare il maestro dei Ninja, ma anche essere l’unico con il carisma necessario per provare a tenere a bada Jena Plissken, d’altra parte dopo l’Indio, quasi tutto è una passeggiata, anche mettersi sulle piste di una tomba in un cimitero, ma questa è un’altra storia, ne parleremo tra sette giorni, non mancante! Intanto vi ricordo lo speciale su Leone di della Fabbrica dei sogni.

Sepolto in precedenza mercoledì 27 novembre 2019

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