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Philadelphia (1993): cinema etico firmato Jonathan Demme

2023, anno del coniglio secondo il calendario cinese ma anche anno di compleanni importanti, quel tre finale mi offre l’occasione per portare su questa Bara un po’ di titoli niente male, come quello di oggi che di sicuro conoscete tutti.

Jonathan Demme dopo essere stato uno dei pochi registi della storia del cinema a mandare a segno la mitica cinquina alla notte degli Oscar, portando a casa con Il silenzio degli innocenti tutti i premi principali, parliamoci chiaro, era un regista che avrebbe potuto dirigere quello che voleva, sul serio, avrebbe potuto proporre qualunque soggetto e Hollywood gli avrebbe steso i tappeti rossi. Dimostrando di essere fatto di una pasta diversa dagli altri Demme cosa ha scelto di dirigere? Quello che viene universalmente ricordato come la prima grande produzione hollywoodiana a trattare in maniera esplicita il tema dell’AIDS, provate, chiedete a chiunque di fare il titolo di un film basato su questo argomento, la risposta che otterrete sarà sempre “Philadelphia”. Giuro che cercherò di fare il minor numero di battute su Kaori e il formaggio spalmabile, ma non garantisco niente.

Il mai abbastanza ricordato Jonathan Demme e la sua ragguardevole sciarpa.

La sceneggiatura di Ron Nyswaner è impeccabile, specialmente per tempistiche, se uscisse oggi un film come “Philadelphia” inevitabilmente affronterebbe il tema dell’AIDS in modo diverso, ma nei primi anni ’90 era ancora la “malattia dei gay”, una peste discriminante di cui si sapeva poco e si temeva molto. Credo che solo il ritiro di Magic Johnson, avvenuto nel novembre del 1991, proprio annunciando al mondo di aver contratto l’HIV sia stato l’evento popolare che insieme al film di Demme, ha contribuito a dare una spallata all’opinione pubblica, costringendo in qualche modo tutti a parlare dell’elefante in mezzo alla stanza.

Per riuscirci Demme aveva bisogno di tutti i nomi giusti, non è un caso se in questo film ci siano tutti i suoi pretoriani nei ruoli di contorno (più avanti ci torniamo) e le scelte giuste per i ruoli chiave, qualcuno più degli altri se devo essere onesto, perché per il ruolo del protagonista Andrew “Andy” Beckett, sono volati una serie di nomi, a mio avviso tutti più talentuosi di quello poi scelto, mi riferisco a Daniel Day-Lewis o Michael Keaton. Però per un film che ha saputo e voluto caricarsi questa responsabilità sulle spalle, ci voleva qualcuno “del popolo”.

Tommaso Matasse, dalle commedie scemone ai drammoni (passando più volte per l’Accademy)

Tom Hanks era quello delle commedie scemone spesso indifendibili, passato attraverso un complesso periodo di titoli tra il dramma e la risata, come il bellissimo Turner e il Casinaro o il bistrattato Il falò delle vanità, ma è con il ruolo di Andy che Tommaso Matasse ha inaugurato quel periodo della sua carriera per cui ancora oggi è amatissimo, quello in cui verso febbraio, l’Accademy gli teneva una poltrona libera alla notte degli Oscar a cui era ospite fisso. I quattordici chili persi e la testa rasata, rappresentano il 90% della sua prestazione in questo film, il restante 10% sono le faccette sofferenti, che sia per la malattia o per le domande umilianti a cui viene sottoposto durante il processo, sarà impopolare come posizione ma io sono “Denzeliano” e mi piace dire le cose, come se fossi un bambino di sei anni (quasi-cit.)

«Sia messo agli atti signore e signori della giuria, che Cassidy sta citando me»

La storia del brillante e lanciatissimo avvocato, associato ad un grande studio, che nasconde il suo orientamento sessuale e la sua malattia e poi fa causa quando quei “dinosauri” dei suoi capi lo fanno fuori usando una scusa, per via dei loro pregiudizi è una storia che se uscisse oggi, verrebbe ridotta ad un santino. L’avvocato licenziato ingiustamente, malato e omosessuale che chiede aiuto ad una sorta di Saul Goodman nero, per sfidare l’autorità rappresentata da un branco di vecchi bianchi eterosessuali che raccontano barzellette sui gay. Oggi ci tiferebbero fuori una produzione Netflix tutta basata su personaggi stereotipo, nel 1993 abbiamo avuto la fortuna di avere un Jonathan Demme in missione a vegliare su tutta l’operazione.

Maschio, bianco, CIS, etero, vecchio e ricco. Insomma il cattivo, quando non era ancora una convenzione cinematografica.

A proposito di nomi chiave e personaggi che appartengono al popolo, quanto ha contribuito alla riuscita e alla popolarità di questo film avere a bordo Bruce Springsteen? Impossibile quantificare il suo contributo, penso che questo film sia popolare prima per la sua “Streets of Philadelphia” che per l’opera stessa. Demme che va ricordato, ha sempre bazzicato il mondo della musica ed è sempre stato un regista dai gusti musicali impeccabili, ha chiesto al Boss se era interessato. Come detto, con le idee chiarissime di un uomo in missione, chiese al figlio prediletto del New Jersey una sola cosa: «Deve essere un brano in grado di risuonare anche nel frastuono di un centro commerciale» (storia vera).

Il pezzo di Springsteen ti si incolla addosso, basta l’inizio per farti subito cambiare posizione, perché già lo sai di essere di fronte ad un brano, come si dice in questi casi “importante”, il fatto che non sia nemmeno uno dei primi dieci migliori scritti da Springsteen ci dice della grandezza dell’autore. Demme cementa per sempre il rapporto tra film e canzone, facendo iniziare “Philadelphia” proprio come il video della canzone (diretto dallo stesso Demme insieme al nipote Ted), una carrellata sulla città dell’amore fraterno, in cui ti aspetti di vedere comparire il Boss da un momento all’altro, proprio come vedevamo apparire Tom Hanks nel videoclip.

Immagini che potete sentire (cantare Bruce Springsteen)

L’abilità di narrare per immagini di Demme è spesso sottovalutata, se in ascensore ci mostrava la piccola Clarice Starling in mezzo agli spilungoni agenti dell’FBI come lei (solo molto più alti), per sottolineare senza parole la condizione con cui il personaggio attraverserà tutto il film, ovvero osservata e squadrata, dall’alto verso il basso da uomini, allo stesso modo il regista qui fa incontrare i suoi due avvocati velocemente in tribunale e proprio in ascensore, da una parte il giovane associato, bianco e in rampa di lancio, dall’altra un azzeccagarbugli nero ruspante che si arrangia, sarà la malattia di Andy a farli incontrare nuovamente.

Minoranze alla riscossa anche qui, quando non era una convenzione.

Proprio la malattia ci viene raccontata ancora per immagini, con Tom Hanks in sala d’aspetto in ospedale, a guardare i veri malati voluti da Demme per dare realismo al suo film (storia vera). La malattia del personaggio è mostrata per gradi, prima il rifiuto (Andy li guarda e si infila le cuffie), poi il tentativo di nasconderla con il fondotinta («Mi sono dato malato quattro giorni, ora crederanno che sono stato alle Maldive») fino al momento in cui bisogna affrontare la questione per davvero. Infatti in ospedale, quando entra in scena Miguel Alvarez, il compagno di Andy, interpretato da un Antonio Banderas al servizio della storia, chi è che certifica la “confessione” del protagonista? Un dottore interpretato da Paul Lazar, che nel film precedente di Demme era uno dei due entomologi che collaboravano con l’FBI.

«Tu scotti, andiamo a casa ti preparo i biscotti con Rosita la gallina»

Eppure accusatemi pure di essere di parte, probabilmente avreste anche ragione, ma per me il vero motivo per cui “Philadelphia” è ancora un film che funziona, lontano anche più dei suoi trent’anni dai “santini” che farebbero oggi a parità di argomento, per me sta tutto nell’avvocato Joseph “Joe” Miller interpretato da Denzel Washington, migliore in campo a mani basse.

Quando Andy va nel suo ufficio a chiedere di aiutarlo, Demme continua a raccontare per immagini, mostrandoci il modo in cui Joe fissa tutti gli oggetti toccati da Andy sulla scrivania, oppure il modo in cui si ritrae quando il collega gli confessa di avere l’HIV. Il bello del personaggio di Joe Miller è qualcosa che non è bello per niente, ovvero il suo essere uno omofobo della peggio specie, uno che riesce a spiegare molto bene il suo orientamento sessuale («Non voglio stare a letto con qualcuno che è più forte o più peloso di me»), anche se persino la moglie gli fa notare quanto sia perdutamente omofobo.

«Non sono io ad essere omofobo, siete voi ad essere gay!»

Un personaggio riuscitissimo, uno nato quadrato che nel corso del film non finisce per diventare tondo, al massimo frequentare Andy, il suo mondo e la sua famiglia (le parti legate alla famiglia Beckett mi ricordano sempre “Rachel sta per sposarsi” il film di Demme del 2008), lo porterà a smussare un po’ qualche angolo, diventando se va bene un rombo, perché comunque quando il ragazzo con la palla da basket (dettaglio che attira sempre la mia attenzione) ci prova con lui in farmacia, lui ha una reazione più che violenza, da vero buzzurro inorridito dai gay.

Quando poi però si trova circondato da altri buzzurri colleghi che lo sfottono, il personaggio tira fuori i suoi valori riassunti in una riga di dialogo, sempre un omofobo, ma non insensibile alle ingiustizie («Non è che stai cambiando parrocchia?», «… Quelli mi danno la nausea, ma qui è stata infranta una legge. Te la ricordi la Legge?»)

Non si parla mai del modo accurato con cui Demme sceglieva le inquadrature, questa ad esempio, con Andy tenuto a distanza è brillante.

Difetti del film? I quattro minuti e passa della scena in cui Andy ascolta Maria Callas, non allacciano nemmeno le scarpe al momento in cui Hannibal Lecter ascolta l’opera, ma mi sembrano anche il classico “Momento bravò” per Tom Hanks, efficace, sentito e sensato, ma per me un po’ troppo “carico” come momento, quasi urlato per un film che invece riesce a far arrivare il suo messaggio anche nel frastuono di un centro commerciale senza davvero bisogno di urlare.

Anche meno Tom, anche meno.

Estremamente positiva invece la continuità di Demme, che stava in uno stato di grazia cinematografica invidiabile, infatti ancora una volta si affida ai suoi pretoriani, Charles Napier lo ritroviamo nei panni del giudice e non è un caso se il Maestro del regista, ovvero il mitico Roger Corman compaia nel ruolo di uno dei testimoni.

Tra le apparizioni famose, proprio perché la questione cestistica mi sta sempre a cuore, Demme trova il modo di rendere la città dell’amore fraterno parte della storia e non solo sfondo, il regista trova il modo di dare l’occasione a Denzel (anche lui uno affetto da un altro tipo di malattia nota come the disease) di fargli stringere la mano ad uno dei simboli di “Phila” ovvero Doctor J, Julius Erving, campione NBA con i suoi Philadelphia 76ers.

Grande comparsata di Doctor J in questo fil… ehm, forse ho fatto qualche casino.

Trovo molto sensata la scelta di Mary Steenburgen nei panni dell’avvocatessa dell’accusa, altro personaggio che ha contribuito all’antipatia della Wing-woman per questa attrice (faida mai finita dai tempi di Ritorno al futuro – Parte III, storia lunga ma anche vera), ancora più azzeccata la scelta di una vecchia gloria come Jason Robards nei panni del capo dello studio di avvocati che licenzia Andy, uno con una carriera e una statura artistica tale da potersi permettere anche il ruolo di un super cattivo, così incredibilmente realistico, aggiungo anche purtroppo.

Tom Hanks ha vinto un Oscar imitando il modo in cui la Wing-woman guarda Mary Steenburgen.

“Philadelphia” funziona come dramma ma anche come “legal drama”, proprio perché Demme ha saputo tirare fuori il meglio da tutti i nomi coinvolti, dando al film il tocco giusto per portare al grande pubblico un argomento fino a quel momento tabù. Un modo riuscito di rendere popolare qualcosa che era altamente impopolare. Per una volta i premi cinematografici sembrano aver almeno riconosciuto il valore a lungo termine delle singole prestazioni, per me ci sarebbe stato anche un Oscar come miglior attore non protagonista a Denzel (ignorato dalle nomination), se per Tom Hanks è stato riconosciuto l’effetto shock del vedere lo scemone delle commedie, muovere il suo primo passo nella direzione che lo avrebbe resto il Jimmy Stewart della sua generazione, per quanto riguarda la colonna sonora, decisamente è stato premiato il peso specifico avuto nella cultura popolare.

Anzi bisogna dirla tutta, Bruce Springsteen quando ritirò l’Oscar per miglior canzone, ci provò (invano) a convincere l’Accademy ad assegnare il premio alla pari con Neil Young, uno che di riffa o di raffa nei film di Demme compare spesso a cui il regista affida la “coda strumentale” del suo film, infatti “Philadelphia” come si conclude? Sempre raccontando per immagini e sulle note di Philadelphia, del mio canadese preferito.

Tanto lo so che l’avete avuta in testa durante tutta la lettura!

In trent’anni dalla sua uscita, la conoscenza e i progressi fatti nella lotta all’AIDS sono stati per fortuna parecchi, per una volta il cinema e la musica hanno contribuito con un ruolo attivo, possiamo considerarci fortunati che Jonathan Demme, uno che ha sempre avuto grande considerazione di entrambe queste forme d’arte, all’apice della carriera abbia deciso di farsi carico di questa “missione”, anche per questo il suo cinema e questo film, andavano ricordati in occasione di questo compleanno.

I was bruised and battered
I couldn’t tell what I felt
I was unrecognizable to myself
Saw my reflection in a window
And didn’t know my own face
Oh brother are you gonna leave me wastin’ away
On the streets of Philadelphia?
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