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Platoon (1986): la dura realtà della guerra secondo Oliver Stone

La verità è un’ideale bellissimo, ma nel mondo reale spesso, nessuno vuole sentirla per davvero, chi la racconta è in automatico fuori dal sistema, a meno di avere un gran perseveranza e una testa dura come beh… Like a Stone!

Nella vita gli eventi si accumulano spesso tutti insieme, con Salvador ancora nelle sale, a raccogliere i primi commenti entusiastici ma senza decollare al botteghino, Oliver Stone ha l’occasione della vita, film come Il cacciatore e “Apocalypse Now” (1979) hanno smosso le acque, e un titolo di cui mai nessuno ricorda l’importanza come Fratelli nella notte si era posto, perfettamente a metà tra i lavori d’autore dei registi in odore di New Hollywood e tutti i suoi figli d’azione, che ne hanno seguito la scia. Eppure nessuno di questi raccontava ancora la verità che stava tanto a cuore a Stone.

“Apocalypse Now” era un cinematografico viaggio teorico giù fino al cuore di tenebre, Il cacciatore parlava delle conseguenze e romanzava la parte nel ‘Nam. Rambo e i vari Chuck Norris arrivati dopo nemmeno a parlarle, non rappresentavano minimamente quello che il nostro Oliviero Pietra aveva visto laggiù, ma il momento era adesso, anche se Salvador era stata una produzione massacrante, era ora di partire per le filippine, il fidato produttore di Stone, John Daly, aveva trovato i fondi e strappato un mezzo accordo per la distribuzione nelle sale con la Orion. Anche se a pezzi, era il momento per il regista di cominciare a girare un altro film, in nome di quella verità sempre ricercata, era ora per Stone di tornare idealmente laggiù in Vietnam.

In parte anche fisicamente, visto che fa la sua solita apparizione nel film in una piccola parte.

Cosa vi dicevo lassù? La verità è molto nobile ma molti non ne vogliono nemmeno sentir parlare, di sicuro non l’esercito americano, che dopo un’occhiata al copione che ormai girava ad Hollywood da anni, ha negato ogni sorta di sostegno al film, con tanto di comunicato ufficiale alle base americana laggiù nelle Filippine, di tenersi a debita distanza da questa produzione composta da potenziali dissidenti. Allo stesso modo la selezione degli attori è stata veloce ma ha coinvolto parecchi nomi, per il ruolo del soldato Chris Taylor, alter ego di Oliver Stone nella storia, inizialmente si era rimasti in zona “Apocalypse Now” con Emilio Estevez, salvo poi optare per l’altro figliolo di Martin Sheen, ovvero Charlie, di cui Stone nella sua autobiografia “Cercando la luce” (edita da la nave di Teseo, 2020) fornisce la descrizione definitiva: «Con quello sguardo sapeva trasmettere tutta l’innocenza di cui avevo bisogno per il personaggio e che Charlie non aveva.»

Charlie che va in cerca dei Charlie.

Proprio per questo per il ruolo, Stone aveva anche pensato a John Cusack, un pelo troppo grande per il ruolo del ventenne che il regista cercava, stesso discorso per il provino Keanu Reeves, perfetto, anche troppo, tanto da rifiutare la parte perché poco a suo agio con la violenza in esso contenuto, nell’autobiografia lo stesso Stone si indaga sulle ultime scelte attoriali di Reeves, sostenendo che al tempo era ancora alla ricerca di se stesso, e qualcuno dice che lo sia ancora.

Due ruoli chiave per la storia sono i due sottoufficiali, per il sergente Elias K.Grodin, il nostro Oliviero ha scandagliato in lungo in largo alla ricerca di un nativo americano per metà ispanico, come il vero Elias che Stone aveva conosciuto nel ‘Nam. Quando ancora la sua prima bozza di idea era il copione intitolato “Break”, ne aveva inviato una copia anche al suo mito, Jim Morrison dei Doors, sperando che accettasse il ruolo ma senza mai ricevere risposta dal Re Lucertola (storia vera). Galeotta fu la visione in sala di Vivere e morire a Los Angeles, negli zigomi di Willem Dafoe, il regista aveva finalmente trovato il suo Elias.

Vivere e morire in Vietnam.

Ben più complicata la scelta per il ruolo del sergente maggiore Robert “Bob” Barnes, sempre dal film di Friedkin, Stone provò a convincere William Petersen che optò per un ruolo da protagonista in un dimenticato film sul Baseball. A proposito di Baseball, Kevin Costner invece stava già per andare a dare la caccia ad Al Capone, quindi passò la mano in favore della più improbabile delle auto candidature, Tom Berenger, che ora tutti ricordate per ruoli rocciosi, ma ai tempi la percezione attorno a lui era ben diversa. Una volta indossate le cicatrici realizzate con il trucco di Barnes, le parole di Berenger risuonarono nella testa di Stone: «Io sono nato per interpretare questo ruolo.»

Vedendolo così, difficile dargli torto.

Il resto del cast doveva essere variegato, in nome di quella verità sempre inseguita da Stone, gli attori selezionati dovevano avere le facce dei suoi compagni laggiù nella giungla nel Vietnam, parafrasando il film dovevano essere gente da posti mai sentiti, “grugnosi” scelti tra gli ultimi degli ultimi, per far resistere la vera anima dell’America nel più improbabile luogo del pianeta. Questo spiega il gran quantitativo di afroamericani, tra Tony Todd, Forest Whitaker e Keith David, che con il suo soldato King li passa tutti a destra, mandando a segno l’ennesimo ruolo di culto della sua filmografia.

«Adesso hai capito l’origine del fumo dalla bocca del mio amico Kurt

Si, lo so che vi interessa tanto sapere che in tre fotogrammi di “Platoon” si (intra)vede anche Johnny Depp, ma mi preme molto di più parlarvi di un altro attore, che ora è amatissimo da tutti per la versione comica dei ruoli tosti che ad inizio carriera ricopriva abitualmente, e che per Stone ha rifoperto parecchie volte, visto che da qui in poi, John C. McGinley diventerà una presenza fissa nella rubrica in quanto pretoriano di Stone. Se lo conoscete solo per il suo esilarante dottor Cox, vi fornirò un po’ di occasioni per recuperare le sue ottime prove altrove.

Il futuro Dottor Cox di Scrubs qui ci regala una massima alla Dirty Harry: «Le scuse sono come i buchi del culo, ognuno ha il suo»

Senza uno straccio di sostegno dal governo americano per girare il suo film, Oliver Stone ancora impegnato con il montaggio di Salvador, si vide piombare in sala di montaggio un cristone in mimetica (e pistola legata alla caviglia) di nome Dale Dye, ex-capitano dei Marines durante la guerra del Vietnam, il reduce aveva sentito parlare prima di “Break” poi ribattezzato “Platoon”, seppur su posizioni politiche senza mezzi termini opposte a quelle di Stone, era pronto a sostenerlo perché voleva che qualcuno raccontasse il vero Vietnam, quello affrontato dai soldati americani, non un’altra bella balla edulcorata firmata Hollywood. Ecco perché Dye non solo finì ad interpretare il capitano Harris in “Platoon”, ma Stone lo mise a capo di un campo di addestramento per attori, che prevedeva lunghe marce forzate nella giungla filippina, risvegli improvvisi nel mezzo del sonno ed esperienza nel maneggiare tutte le armi richieste dalla storia. In nome del realismo, il veterano strizzò come limoni l’intero cast, tanto che quando la moglie del regista, Elizabeth, si presentò sul set filippino, le venne quasi un mezzo colpo nel vedere questi soldati, sfatti, stanchi, uscire silenziosissimi dalla vegetazione, incapace di riconoscerne i volti, anche quelli più famosi (storia vera).

Già, il set filippino, parliamone perché vuoi mica farti mancare qualcosa dopo una produzione massacrante come Salvador, mentre sei nel mezzo della complicata realizzazione del film che stai inseguendo da una vita? Durante la produzione, in aggiunta alle complicazioni logistiche dettate dal dover ricostruire il ‘Nam nella giungla filippina, gli sconvolgimenti politici del Paese colpiscono duro, scoppia la guerra civile per rovesciare il dittatore in carica Ferdinand Marcos, che non molla per restare aggrappato al potere. Mentre Stone realizza che di colpo è dentro un altro Salvador sì, ma non il film che ha girato lui, il dittatore fugge, lasciandosi alle spalle i disastri della legge marziale e l’infinita collezione di scarpe della moglie Imelda, così vasta da riempire un’ala del museo nazionale (storia vera). Con la ritrovata semi stabilità nelle filippine, Stone evita la pallotta di vedersi chiudere la produzione nel bel mezzo delle riprese, la ruota per lui stava girando, dagli Stati Uniti cominciavano ad arrivare le prime recensioni incredibilmente positive per Salvador. Oliver deve aver pensato: ora o mai più, infatti gira “Platoon” con il coltello tra i denti e una sincerità disarmante, quella di chi ha tutto da dire e l’unica occasione nella vita per farlo.

La verità finalmente, raccontata utilizzando la finzione cinematografica, vale anche doppio.

“Platoon” è un film incredibile, ha tutto il realismo sporco, violento e disperato che tanti altri film di guerra si sognano, un titolo che ha aperto la strada alle varie riletture critiche del conflitto che sono arrivate ad Hollywood dopo. Un film in grado di tratteggiare i soldati come persone, con i loro pregi ed enormi difetti, al di là degli schieramenti, della politica e delle ideologie, ha la fisicità e la “muscolarità” (a ben guardare anche le esplosioni) di un film d’azione, il piglio realistico senza voler mai tirar via la mano di un documentario e il cuore autoriale di un grande film di denuncia. Forse Il cacciatore e “Apocalypse Now” si sono impressi più nella cultura popolare, perché si sono ammantanti ancora nella coperta confortevole della finzione cinematografica, “Platoon” pur essendo cinema di altissimo livello no, punta dritto alla giugulare del realismo e per questo non ho nessuno dubbio ad accogliere questo reduce tra le fila dei Classidy.

Chris Taylor (Charlie Sheen) è “carne fresca” che sbarca nel ‘Nam nel settembre del 1967, usando il vocabolario locale, scopriremo presto essere un “Crociato”, di buona famiglia ha lasciato il college convinto che non solo i ragazzi delle classi meno abbienti dovessero morire in questa guerra in cui in fondo, lui crede perché si è arruolato volontario, come il suo creatore ed alter ego, Oliver Stone. Se non vi fosse chiaro, ma il film in questo e in tutti gli altri suoi aspetti risulta trasparente, non c’è differenza tra Chris e Oliver, ho visto il film tante volte in vita mia, mai a cuor leggero, ma solo dopo aver letto l’autobiografia di Stone un dettaglio mi è balzato agli occhi: la voce narrante all’inizio del film è quella di Charlie intento a scrivere le lettere dal fronte alla nonna, non la madre, non la fidanzata, la nonna. Scelta bizzarra solo se non sapete nulla del fondamentale legame tra Oliver Stone e la sua “Mèmè”, la sua nonna materna francese, la cui cronaca della sua dipartita, è il momento da pelle d’oca della biografia di Stone, un libro che si vede, risulta chiaramente scritto da uno nato sceneggiatore, quindi da sempre, abilissimo con le parole.

Quando Charlie Sheen si metteva la fascia rossa in testa (ma senza gli orsetti gommosi)

La bellezza di “Platoon” per me, sta tutta nel suo tono, riesce a non avere apici spettacolari e smaccatamente cinematografici, anche quando si gioca a tutti gli effetti apici spettacolari smaccatamente cinematografici, come ad esempio l’epica scena sulle note del tema composto da Georges Delerue, quella posa cristologica (non a caso di uno che per Scorsese era stato Gesù), finita dritta sparata sulla locandina del film. Fino a quel momento “Platoon” è un martirio, una tortura della goccia in cui l’arco narrativo di Chris Taylor si consuma velocemente, perché in Vietnam era così, meglio morire nelle prima due settimane per non dover soffrire. Se Coppola ci portava in un cuore di tenebra ideologico, che utilizzava il Vietnam per farci guardare dentro l’anima dell’uomo e Cimino, la porzione di film nel ‘Nam la inventava, con la trovata farlocca della roulette russa, più interessato a raccontarci di anime travagliate che rispondono, ognuna a loro modo alla pressione, Stone ci porta là, ed è l’unico che può farlo perché è l’unico che ci è stato davvero. Anche se all’uscita del film una mezza polemica ha messo in discussione anche questo punto fermo, dopo una ricerca non si trovavano tracce di un soldato di stanza in Vietnam di nome Oliver Stone, grazie al CAR! Il nostro si è arruolato firmando come William Stone, pensate cosa sarebbe stato essere laggiù come mezzo francese, tra commilitoni non propriamente educati nelle migliori scuole per capire la differenza, a combattere in un Paese che aveva appena concluso una guerra proprio con i francesi, prima di iniziarne un’altra contro gli Yankee. Polemica archiviata in un nano secondo, anche se quella sul finale del film sarebbe durata un po’ di più.

Se non fosse diventato Johnny Depp nessuno si sarebbe mai accorto di Johnny Depp in questo film.

“Platoon” introduce un tema caro a Stone, quello dei due padri, quello se non proprio buono almeno positivo, qui rappresentato dal sergente Elias, che comunque va detto, è quello che inizia il protagonista all’uso di droghe, opposto al padre decisamente negativo, il sergente maggiore Barnes, che però è anche quello che permette a Chris Taylor di restare in vita nei primi giorni nel ‘Nam. Tutti questi paradossi Stone se li vive benissimo perché saranno anche posizione opposte, ma possono coesistere, si può essere stati volontari pro-interventisti in Vietnam ed essere tornati con un’idea differente, ed è quell’esperienza che Stone porta al pubblico.

Figure paterne a confronto. Drammatico confronto aggiungerei.

Simbolico come in patria Stone abbia raccolto gli insulti di chi sosteneva che no, laggiù in Vietnam non girava droga tra le truppe, gli stupri e le violenze ai locali? Tutte invenzioni da comunista di quel tuo filmucolo. Eppure esiste una percezione della guerra del Vietnam prima di “Platoon” e una dopo “Platoon”, ecco perché qualcuno, ha anche invocato l’arresto per Stone, convinto che più che un copione, fosse una confessione per aver sparato ad un suo ufficiale, che è davvero l’unica concessione che il nostro Oliviero fa alla finzione cinematografica, ma sempre alle sue condizioni. Non è socialmente accettabile ad Hollywood che un buono uccida a sangue freddo un cattivo, anche uno che se lo merita, e ovviamente non è un crimine di cui Stone si è macchiato nel ‘Nam, ma fa parte del suo modo di raccontare la verità sul Vietnam portandola al pubblico, abbattendo anche le convenzioni cinematografiche con quel gusto anche provocatorio, realistico ma rabbioso che lo ha sempre contraddistinto e lo ha sempre visto fare zig zag tra le etichette che Hollywood non è mai riuscita per davvero ad appiccicargli addosso. Se Billy Hayes poteva dare dei porci ai suoi aguzzini in tribunale, allora Chris Taylor può uccidere il suo padre malvagio permettendo a Stone di, non dico lasciarsi il Vietnam alle spalle, ma almeno di provare a chiudere un capitolo che per chi ha combattuto laggiù, forse non si chiuderà mai, citando le parole del film: «Io ora credo, guardandomi indietro, che non abbiamo combattuto contro il nemico… abbiamo combattuto contro noi stessi.»

Era già un povero Cristo prima di diventare Cristo per il Maestro di Stone, ovvero Scorsese.

Durante il montaggio, Stone opta per la scelta di creare lunghi “Showreel” dal tanto materiale girato, scelta saggia per mantenere alta la tensione e il ritmo, illuminata anche la scelta di mixare il suono in maniera non troppo pulita, per discostarsi ancora un po’ dal canone Hollywoodiano dei film di guerra. Una scelta che ha pagato dividenti, non solo perché negli anni Stone ha ricevuto quintali di lettere da veterani e dalle loro famiglie, che anche un po’ grazie al realismo del film, hanno almeno ricominciato a parlare di cosa era successo laggiù, oppure hanno potuto capire le ragioni dietro ad alcuni gesti estremi. La verità tanto ricercata da Stone era finalmente stata raccontata.

Ai Golden Globe questa volta Stone si presenta sobrio, a differenza dell’ultima volta, il finale di questa lunga ricerca della verità poi, è lieto e lui sì, forse veramente Hollywoodiano, ovvero quattro premi Oscar: montaggio, sonoro, miglior film e miglior regia per Stone, che completa la trasformazione, da sceneggiatore premiato a regista premiato, anche se il suo discorso durante la cerimonia di premiazione è la chiosa ideale. I due baci a Liz Talyor invece, uno per guancia, alla francese (ma senza lingua) invece, erano il suggerimento della sua Mèmè (storia vera).

Meglio di qualunque medaglia al valore, vero Oliver?

Dopo aver raccontato la verità che nessuno voleva raccontare sulla guerra del Vietnam, sarebbe stato logico pensare, che senza più questa enorme scimmia sulle spalle, Stone avrebbe potuto tirare i remi in barca, rinunciare ad un po’ di quella maniacale ricerca della verità, quella rabbiosa voglia di puntare il dito contro elementi della società su i cui errori, spesso si tace, ed invece no, proprio per niente, il nostro Oliviero Pietra aveva appena cominciato. Impomatatevi i capelli e preparate il vostro completo di Armani migliore, la prossima settimana questa rubrica addenterà alla gola gli Yuppie di Wall Street.

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