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Puppet Master – Il triello: il buono, il brutto, il peggiore!

Dopo l’onesta trilogia iniziale, povera ma volenterosa, arrivano tempi bui. Cala il budget e il minutaggio, si fatica a raggiungere i 70 minuti a pellicola, ma in qualche caso è un bene per soffrire meno. Aumenta il numero e la varietà dei pupazzi, ma non dei morti ammazzati. Avanti veloce per un altro episodio della rubrica su Puppet Master raccontata da Quinto Moro!

Puppet Master 4 (1993) – il peggiore

“Puppet Master 4: The demon”, in italiano diventa “Il ritorno dei giocattoli assassini”, che poi sarebbe il titolo di un’altra saga (“Demonic Toys”, sempre della Full Moon Pictures). Si parte già con le idee confuse.

Nel quarto capitolo l’orrore ha un volto, un nome e un cognome, quello del regista James Burr. Il povero James ci ha lasciati nel 2023, più o meno nel periodo in cui vedevo per la prima volta i titoli da lui diretti. Coincidenza? Non lo saprete mai.

Oh, non è tutta colpa del regista con una sceneggiatura che sembra un mix tra le idee di SEI sceneggiatori. La confusione regna sovrana tra robottini telecomandati (tipo Emiglio, che però era meglio), pistole laser, sedute spiritiche e umani che son più teste di legno dei burattini. Di norma quando la lista degli sceneggiatori è più lunga del cast finisce in un bagno di sangue, ma qua di bagno di sangue non se ne vede l’ombra, visto che gli ammazzamenti sono pochi e deludenti.

La trama in soldoni: Sutekh, figlio di Kmer della tribù di Ishtar, condannato a vivere in un costume di gomma scartato ai casting per i Masters of the Universe, cova vendetta contro il mitico burattinaio Andre Toulon, reo di avergli rubato l’elisir per l’immortalità nel lontano 1902. Bensvegliato Sutekh, siamo solo negli anni Novanta, Toulon è morto, resuscitato e rimorto. La faida fra Toulon e Sutekh è un po’ più articolata di così, ma serviranno altri sequel e prequel per capirci qualcosa.

Introducing: Sutekh faccia di scroto, procrastinatore degli inferi

Morto un burattinaio se ne fa un altro, perciò la vendetta di Sutekh ricade sullo “”“scienziato””” Rick Myers, mandato in castigo al Bodega Bay Inn perché all’università si vergognano di farlo giocare coi robottini mentre finge di sviluppare un’IA. Raggiunto per il weekend dalla fidanzata, a questo punto negli horror di serie b si tromba, ma il nostro eroe se ne sta a giocare coi burattini mentre la bella Chandra West, sdraiata sul letto, lo guarda sorridente (è il sorriso di chi muore dentro). Oh, pure lei non è predisposta al romanticismo, visto che si è portata dietro un’altra coppia mal assortita: lo scienziato rivale del moroso e l’amica sensitiva, entrambi dalla recitazione cinofila.

I burattini latitano in tutta la prima parte, dobbiamo aspettare il minuto VENTI prima di vedere la maschera di Blade far capolino, perché sono tutti impegnati a giocare con le pistolette laser.

Così scemi che non vale la pena di ammazzarli.

Se le donzelle mantengono un limite di decenza, i maschietti sembrano due deficienti, parlano e si comportano come deficienti. Ma non fatevi ingannare: sono davvero deficienti.

La terribile vendetta di Sutekh prevede l’invio sulla Terra di totem demoniaci dal design vagamente azteco, cattivissimi, ma capaci solo di regalare un po’ di comicità involontaria. Tipo quando il rivale del protagonista, che si è fatto odiare per tutto il film (quando già la pettinatura giustificava l’omicidio), sbatte fuori dall’auto la fidanzata per poi finire abusato da uno dei figli di Sutekh. Per un film che rompe la regola del sesso gratuito negli horror, le metafore sessuali non bisogna andarle a cercare troppo lontano…

Posso spiegarvi. Non è come sembra.

Nel finale i burattini di Toulon si prendono la scena (meglio tardi che mai eh), bullizzando gli schiavetti di Sutekh in una poco esaltante rissa tra pupazzi. A deludere sono proprio le animazioni, fatte in tempo reale e senza più la stop motion di David Allen, relegato al ruolo di supervisione. I burattini restano fermi sul posto ad agitare le braccia implorando per qualche dollaro da mettere nella stop motion ma spiacenti, il budget se l’è mangiato la pistola laser e le scariche elettriche. Il finale è di quelli che fanno sanguinare gli occhi per bruttezza di regia e interpretazioni. A scanso di equivoci: Puppet Master 4 non è una boiata. Le boiate sono meglio.

Pupper Master 5 (1994): il brutto

“Puppet Master 5: The final chapter”. Final. Seeee, siamo a cinque su quindici. E poi si sa che al peggio non c’è mai fine. Si riparte dal fondo lercio e disperato del quarto capitolo, con la stessa regia, la stessa storyline e protagonisti, con una lieve riduzione nel livello di pezzenteria devo ammettere. Per la seconda volta, i titolisti italiani hanno buttato lì un “Giocattoli assassini – Scontro finale”, come volessero nascondere a tutti i costi che questa roba fosse un Puppet Master.

Il capitolo cinque conta altrettanti sceneggiatori, che è sempre un bruttissimo segno, ma la storia è più lineare e meno schizofrenica del precedente. Burr torna alla regia e siccome le disgrazie non vengono mai sole, pure Gordon Currie riprende i panni del protagonista. Per quanto abbia rivalutato il film rispetto alla prima visione, io questo qui proprio non lo digerisco:

Currie, sguardo da pirla

Si parte con un lungo, estenuante riassunto del capitolo precedente: puro sadismo, ma serve a fare minutaggio. Per fortuna è questa la parte peggiore, e messi da parte robot e laser, il quinto capitolo è quasi sensato, con una canonica storia di avidità e la base standard per ogni sceneggiatura della saga: tutti vogliono il segreto dei burattini, per potere, per soldi, ma non per sesso, visto che la saga si riscopre puritana con tanto di coitus interruptus (anzi nemmeno iniziatus) tra i fidanzatini sopravvissuti e ricongiunti per una bella… dormita. Tra l’altro la guardabile Chandra West, nonostante il ruolo da fidanzatina senza un’identità propria, dimostra quantomeno d’essere un’attrice e non un’unità cinofila in libera uscita.

Stavolta i protagonisti umani tendono a comportarsi in maniera quasi logica, i burattini sono meno statici e più vivaci, la qualità delle animazioni è leggermente migliorata, ad eccezione del demone Sutekh, il Rocco Siffredi degli inferi, il testa di gonade, il ritardatario della vendetta. Sutekh passa TUTTO il film a ravanare in zona pubica nella vana speranza di procurarne un’espansione.

Immagino abbia preso il Viagra e aspetti che la magia si compia

Il potenziale per qualcosa di meglio c’era. Le scene nell’hotel hanno un minimo di atmosfera, anche grazie alla fotografia di Adolfo Bartoli, nome ricorrente nella saga. Il peccato mortale resta sempre l’orrida presenza di Sutekh, demone di gommalacca da nascondere tra ombre e sfumature, e invece no: ce lo sbattono in faccia in tutta la sua gommosa bruttezza.

James Burr non sembra nemmeno lo stesso regista del film precedente, sfoggia qualche bella inquadratura, persino in movimento, quasi fa dimenticare gli orrori del capitolo quattro. Ad azzoppare il film è la scarsità di morti, specie per il fatto che a morire siano tizi a caso di cui non ci importa assolutamente nulla, non c’è nessuno da odiare, il che unito alla trasformazione dei burattini da strumenti di morte a protettori degli umani, uccide l’entusiasmo, quello sì.

Tunneler scava in cerca di buone idee per i prossimi sequel mentre Chandra spera in un’audizione per David Lynch.

Nota di colore: questo è ricordato come uno dei pochissimi film in cui Jester, il pagliaccetto dalle molte facce, partecipa attivamente ad un ammazzamento, lui che praticamente è l’obiettore di coscienza nella gang delle marionette assassine, stavolta si arma di batticarne e fa una bella marmellata di testicoli al malcapitato di turno. Jester mutziga surda.

Curse of the Puppet Master (1998) – il buono

Il sesto capitolo è anche il primo ad essere orfano del “vero” Puppet Master, il maghetto della stop motion David Allen, che di lì a poco avrebbe lasciato questa valle di lacrime. La vera maledizione del titolo non è tanto un riferimento alla trama, ma allo stato delle casse della Full Moon.

Perso l’accordo di distribuzione con Paramount nel 1995, la Full Moon di Charles Band non se la passava benissimo. Meno film, fatti con sempre meno soldi. Con ben, e dico “ben”, duecentocinquantamila dollari a disposizione, di stop motion neanche a parlarne, infatti “Curse” si gioca una bella compilation di repertorio nei titoli di testa, per i bei tempi andati in cui le marionette sembravano vive.

Al netto dei pochi mezzi, l’idea di fondo è più buona del solito, la sceneggiatura non brilla ma ha il suo perché, a patto di tapparsi occhi, naso e bocca per la voragine finale che per poco non inghiotte ciò che di buono semina la prima ora di film (che poi è anche l’unica, visto che il minutaggio è bello stringato).

Questo è quel che resta dei burattini? All’anima del budget risicato.

“Curse” si può considerare quasi uno spin-off, staccato dal resto della storyline, ma non infrange nessun elemento del canone. Infatti nella molto canonica penuria di fondi, i burattini restano a lungo in secondo piano ma a differenza di altri capitoli in cui le vicende umane pesano e annoiano, “Curse” scorre e si lascia guardare. Qualche ciarla e scena rosa di troppo ma hey, il minutaggio va riempito in qualche modo.

C’è un nuovo burattinaio in città, anzi, nel villaggio. Niente più Bodega Bay Inn, la produzione non può permettersi l’albergo e si gira in aperta campagna, che è pure un bene. Qualche scena in esterni, set poveri ma funzionali alla trama: un casolare, un’officina, un contesto rurale con bulli palestrati e sbirri in perenne atteggiamento da maschi alfa. Praticamente un covo di repubblicani.

Io voto Blade: Make Puppets Great Again!

Il nuovo burattinaio interpretato da George Peck (niente in comune con Gregory) dice di aver trovato il baule con Blade, Pinhead e compagnia squartante da un antiquario (più probabile il mercatino delle pulci), che doveva contenere pure il guardaroba del vecchio André Toulon. Il vecchio sfoggia bretelle e farfallino con sprezzo del pericolo, gli fa degna compagnia l’assistente in tuta da lavoro, un’anima semplice che ricorda il Giobbe de Il Tagliaerbe, bullizzato, sfruttato e sfigato.

Non sei tu quello tonto, pensa all’altro che giocava coi robottini

Le premesse iniziali sono buone: il vecchio coi suoi oscuri segreti, il giovane tardo ma di talento. Le scene oniriche, usate a casaccio nei capitoli precedenti, stavolta hanno un senso e funzionano. “Curse” non delude sul versante schizzi di sangue. A volte basta poco, tipo usare una vernice un po’ più scura anziché salsa di pomodoro, e spargerla sulla faccia delle vittime urlanti per guadagnarsi l’etichetta di horror. Penso che la deriva del quarto e quinto capitolo, col buonismo di fondo dei burattini, venisse dall’idea (non so quanto vera) che Puppet Master fosse regredita a favoletta per bambini. “Curse” ha avuto il merito di correggere la rotta, quantomeno nello spirito. Come nei migliori capitoli, anche qui i burattini sono fedeli solo fino a un certo punto, hanno una personalità e una propria morale. Peccato che il finale sia così frettoloso e scritto male da non avere il minimo senso. Il film sembra andare in una direzione precisa poi boh, s’azzoppa da solo.

Pinocchio, ma dove vai…

Ora: se il talento del povero Robert è intagliare il legno, come mai il burattino finale è un carro armato con la testa tv? Forse perché (facciapalmo) a inizio film lo conosciamo col soprannome “Tank”? Preferisco non saperlo, e immaginare che la produzione stesse filando liscia sino al momento in cui Charles Band bussa alla porta e grida “soldi finiti ragazzi, montate quello che abbiamo e domani si distribuisce”. Immagino la confusione, pezzi di pellicola qua e là, tutti che corrono, burattini che volano a destra e a sinistra, e nel montaggio finale ci finisce quello sbagliato. Già le motivazioni finali del burattinaio richiedono parecchia indulgenza, e ci si mette pure il finale tagliato con l’accetta, con trasmutazioni da legno a metallo che boh.

Mamma sono in tv!

Sono di parte, voglio bene a questo film. Le scene oniriche e la furia finale di Blade valgono la visione, ma occhio alle versioni tagliate sul più bello, inclusa quella doppiata in italiano che trovate su Youtube (ma si trova pure quella integrale). Al netto dei difetti, il finale mi ha lasciato la stessa sensazione di cupezza di un Venerdì 13 – Capitolo Finale, che per me è un gran complimento.

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