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Queen & Slim (2020): Beato il Paese che non ha bisogno di martiri

L’ho mancato all’ultimo Torino Film Festival, ho quasi rischiato di perderlo in sala visto il gran casino di questi giorni, ma è un film niente male quindi oggi solo per voi, se ne occupa il mio bro, vai Quinto Moro la palla è nel tuo campo! 

Disclaimer
Avviso per i lettori: in presenza di sbirri in
atteggiamento di abuso di potere al sottoscritto parte l’embolo. E visto che
tutta la storia di questo film parte da un abuso di potere, vedrete emboli
schizzare qua e là. Non serve che vi metta le allerte spoiler vero? No perché se
pensate che un film in cui due neri ammazzano uno sbirro bianco possa finire
bene…
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In Black: In principio era la blaxploitation
C’era una volta la blaxploitation. C’era chi ne
parlava bene e chi male. C’erano quelli che la intendevano come (un’altra)
ghettizzazione.
Gli anni ’70 erano il momento perfetto. Il cinema
di serie B (qualunque cosa voglia poi dire) era il terreno fertile per
raccontare le avventure del fantabosco miserie del sottobosco sociale
americano, storie di rapido consumo, con stili grossolani e contenuti espliciti
e brutali. Intenti politici all’apparenza scarsi dietro un’asciuttezza
narrativa che ben intratteneva e raccontava il suo tempo. Il perbenismo anni
’50 aveva subito le spallate dei movimenti per i diritti civili, dei figli dei
fiori, dei movimenti studenteschi ecc. Chi l’avrebbe detto che quelle
generazioni di boomer, speranza del risveglio di coscienze, sarebbe poi
diventato la piaga del Terzo Millennio? Ma questa è un’altra storia.
Nei ’70 i tempi erano maturi per avere film con
attori neri. La blaxploitation conquistava pubblico anche grazie ai remake di
film e storie “bianche” con attori neri (Blacula è l’esempio più famoso). Ma
come in tutte le feste in cui ci si diverte, c’era qualcuno tra i benpensanti
bianchi e i nascenti benpensanti neri pronta a rovinare il divertimento,
accusando la blaxploitation di perpetrare stereotipi. I film della blax erano
storie dal ghetto, di spaccio, di violenza, di gang e prostituzione. Stereotipi
contro cui la comunità nera si batteva, anche se rappresentavano una buona dose
di realtà. E se oltre mezzo secolo dopo siamo ancora qui discuterne vorrà dire
qualcosa.
Le storie dell’america nera (minuscola di
proposito) fanno ancora una fatica boia ad arrivare, latitano nella
distribuzione, e restano eternamente ancorate al tema del razzismo. Il fatto
che un film come “Slim & Queen” oggi sia così credibile è segno che tutto è
cambiato senza cambiare, che le tensioni razziali nella Terra della Libertà
(leggi sarcasmo) sono più forti e viscerali che mai.
“Avevi tolto il Green Book dal portaoggetti?”
Say
my name, say my name
Sarebbe riduttivo vedere il film come un Bonnie
& Clyde in salsa afroamericana. Sia perché trovo qualcosa di molto
sbagliato nella definizione “afro”americano, sia perché il mito dei fuorilegge
non è stato ripreso in modo sterile, gli è stata data una dignità politica e di
contenuti ben più forte della vicenda originale.
Il titolo si riferisce ai generici soprannomi che
si danno nella comunità nera alle donne (Queens) e agli uomini (Slim).
I protagonisti si conoscono online e sono usciti
per un primo appuntamento. Mentre Slim sta riaccompagnando Queen vengono
fermati da una pattuglia: uno sbirro solo, bianco. Ma il tutore dell’ordine non
può sentirsi solo in compagnia di Federica la mano pistola che gli è
amica.
Com’è come non è, il negraccio cattivo ammazza lo
sbirro buono da onorare con la bandiera sulla bara e le cariche a salve al funerale
con tutti i colleghi schierati in alta uniforme. La realtà è l’esatto opposto: lo
sbirro è il tipico bianco in cerca di un pretesto per scaricare qualche
pallottola su un sacco di carne nera. Slim è un venditore di scarpe, uno di
quelli educati, che credono in Dio. Slim è un bravo ragazzo, un cazzone sempre
pronto a fare la cosa giusta, pronto credere ancora nel sistema che lo
masticherebbe e sputerebbe nella fogne insieme ai cadaveri dei ratti uccisi con
l’ultima disinfestazione. Insomma, uno di noi. Fortuna che c’è Queen,
inquadrata e fredda a fare da contrappeso per la cruda realtà. È un’avvocatessa,
pardon, un’eccellente avvocatessa. Perché parafrasando Slim, i neri sono
condannati ad eccellere per essere riconosciuti come cittadini, altrimenti sono
solo neri.
I primi dieci minuti sono solo un assaggio della
decisa presa di posizione e dei contenuti politici sparsi nelle 2 ore di durata,
che filano via coinvolgenti e tese.
I protagonisti sono ben lontani dal mondo
criminale, mentre lo sbirro da cui tutto nasce è lo stereotipo perfetto del
nazista che non dovrebbe mai indossare una divisa né impugnare un’arma. Eppure
non sembra affatto surreale. Il fermo della coppia sembrerà una scena surreale
ma è perfettamente credibile in un Paese in cui gli sbirri si rendono
continuamente protagonisti di abusi di potere, abituati come sono a prendere a
pugni le donne (bianche o nere), a schiacciare sul prato minorenni e donne
incinte (meglio se neri), infierire con i taser e i gli spray al pepe contro
donne disarmate (bianche e nere), o schierarsi armati presso un uomo (bianco)
in stato confusionale armato di coltello e giustiziarlo per strada. C’è tutta
una “tradizione” di questa merda, ben documentata da telegiornali e video su
youtube. Perché la Grande America ama esprimersi nello stupro di quella madama
tanto osannata che risponde al nome di Libertà.
Se il ritratto dello sbirro che manda in vacca la
vita di Queen & Slim vi sembra uno stereotipo, fatevi un giro su youtube e
lo troverete più realistico di quanto vi piacerebbe.
“Ha i lampeggianti ma ha la forma di una bara, non è molto rassicurante”
Stato
di necessità
“Queen & Slim” conferma che il “nuovo cinema
nero” esiste, ha una sua poetica e tanto da dire. È quel cinema che passa per
la necessità di raccontare le contraddizioni del presente, lontane dai tempi
delle grandi lotte razziali, ruggendo sottovoce che oggi sarebbero più che mai
necessarie. E non è un caso che a scrivere e dirigere queste storie siano i millennials (quelli veri, non quelli
sbagliati della stampa italiana) da Jordan Peele a Barry Jenkins, e in questo
caso Melina Matsoukas alla regia e Lena Waithe alla sceneggiatura
(rispettivamente classe ’81 e ’84).
La regia della Matsoukas è incredibilmente matura
per un’opera prima, senza cedere al montaggio schizofrenico di chi ha tutta una
carriera nei videoclip, di cui resta solo l’ottimo gusto nell’uso della colonna
sonora. Si passa da sonorità malinconiche alla musica black contemporanea e
non. Per tutto il viaggio la musica attraversa realtà e finzione, passando
dallo stereo dei protagonisti all’accompagnamento fuori campo. La musica aiuta
Slim a calmarsi, accompagna una serata in un bar, cresce al crescere dei drammi
e della tensione.
Lo script di Lena Waithe è scritto con la voglia di
raccontare tutto quello che sta sul gozzo, e se vi sembra tanta e troppa roba,
è perché di roba sul gozzo ce n’è tanta. Infatti la scrittura eccede spesso nel
tratteggio dei personaggi secondari e nelle dinamiche, a partire proprio dallo
sbirro bastardo che innesca tutto quanto, attribuendogli un precedente omicidio
di un nero senza ragione. Il che vorrebbe avere valore di denuncia sul fatto
che sbirri assassini vengono rimandati in strada come se niente fosse, ma nella
logica del film sembra un pretesto per giustificarne la sua morte: guardate,
questo sbirro è cattivo, aveva già ammazzato un nero! È giusto che adesso lo
ammazziamo.
Tutta la sceneggiatura è infarcita di situazioni e
personaggi messi lì con un preciso intento politico e morale. E mi va benissimo
così, perché ogni scena trasuda della passione e del bisogno di raccontare le
contraddizioni nella società dei bianchi ma anche dei neri (quest’ultima vista
con più indulgenza, sia chiaro, ma un pizzico di critica e riflessione c’è). Ciò
che rende il racconto coinvolgente è la sincerità dei protagonisti, e il
soffocante fatalismo che aleggia su di loro.
“Fai ciao ciao alla carriera, brava. Adesso fai ciao ciao alla tua libertà, cooosì, sempre sorridente”
La
lunga strada, nera come la sfiga
Cos’hanno in comune gli afroamericani con le strade
americane? Entrambi sono neri, non vanno da nessuna parte, e a volte sono pieni
di buchi…
La sparatoria iniziale mette le carte in tavola, avvisando
il pubblico che il viaggio non sarà facile né piacevole. E infatti qua e là
vengono fuori situazioni tesissime e brutali, come un colpo a bruciapelo
sparato in piena faccia. È un film arrabbiato ma sempre immerso nella
dimensione umana dei protagonisti, tanto che sembra funzionare più per il suo
lato on the road che per i contenuti
politici. Dico quasi, perché dentro c’è tanta roba, ma la le cose che più si
lasciano godere nella visione sono proprio i momenti più semplici.
Le prese di posizione sono nette, anche se
rischiano di sfociare in un perbenismo uguale e di segno opposto a quello che
vorrebbe combattere. Grazie a Dio (amen fratelli!) un paio di guizzi di
scrittura sterzano evitando di rovinare il racconto, ma trovo sempre fastidioso
quando in questi film si cerca di giustificare a tutti i costi le azioni dei
personaggi. Ad esempio lo zio magnaccia/ubriacone dev’esser stato rovinato per
forza dall’Iraq. Che ci può anche stare, ma in una sceneggiatura già
inflazionata, è un’aggiunta inutile di fronte a robe assai più potenti: la
descrizione di un uomo senza più arte né parte, “nessuno fuori di casa, un re
dentro casa”, glorificato solo dal suo piccolo harem, è una stilettata al mito
del macho nero dominatore del suo mondo insignificante (per altre storie
simili, guardate “Fences” con Denzel Washington).
“Queen & Slim” esalta il cameratismo razziale,
i novelli Bonnie & Clyde vengono riconosciuti ovunque dai neri, col video
della sparatoria diventato virale. La scena dello sbirro nero che li lascia
passare, accolto con applausi ai test screening, è una forzatura bella e buona,
perché fa passare il messaggio che lo sbirro nero li aiuti giusto perché due
minuti prima è stato trattato male dal collega bianco. Oh, sto guardando il
pelo nell’uovo, sono quei momenti formativi, tipo che se mi immagino a 10 anni
a vedere una roba così, mi avrebbe gasato e segnato a vita. Ma è chiaro come la
sceneggiatura si sforzi di creare un equilibrio, mostrando uno sceriffo buono
subito dopo quello nazista, un nero che disapprova le azioni dei due fuggitivi
ma li aiuta comunque, una coppia di bianchi che li nasconde, un nero che se ne
approfitta e così via. La storia si muove su terreni scivolosi, un po’
racconta, un po’ giustifica e un po’ accontenta. E ci sta.
Però di tanta carne al fuoco ad appassionare è
l’inno alla vita di questi due ragazzi già condannati a morte da un sistema che
non può e non vuole lasciarli vivere. Le scene semplici dell’ultimo grande
viaggio sono un lungo addio, con la consapevolezza che ogni momento ed ogni
gesto potrebbe essere l’ultimo, perciò tanto vale godersi ogni istante finché
si è vivi e liberi, anche a rischio di venire catturati prima del tempo.
Ricercati e pericolosi? Questi due? Sembrano usciti da uno spot Dolce & Gabbana.
Se
il ghetto è la pelle
Queen & Slim non vogliono e non cercano
d’essere eroi. Funzionano così bene perché non sono i “soliti neri” del ghetto,
fanno parte di una generazione più “fortunata” e benestante, possono fare gli
avvocati e i commercianti. Ma non importa uscire dal ghetto se il ghetto ce
l’hai sulla pelle, e chi ti guarda vedrà sempre e solo quello.
Se l’america bianca nutre il suo mito attraverso
gli eroi, l’america nera deve appoggiarsi ai soli martiri, e se i vecchi
martiri cominciano ad essere lontani nel tempo, ne servono di nuovi, anche se fittizi.
Il film cerca di suscitare in tutti i modi un senso
di unione nella comunità nera, invitando neanche troppo sottovoce alla rivolta,
perché chinare il capo al compromesso dei bianchi non ha funzionato, perciò bisogna
riscoprire una rabbia vecchia, una che non si vedeva da tempo. Perché il colore
è l’unica discriminante e non fa differenza essere buoni cittadini. Se due neri
che hanno ucciso un poliziotto bianco non c’è legittima difesa che tenga. Non
può esserci conciliazione, non in questa america.
Di tutte le prese di posizione, quella nei minuti
finali è la più coraggiosa: Queen & Slim non entrano nell’immaginario come
antieroi contro il sistema (tipico nelle storie dei bianchi), ma come vittime,
traditi dalla legge che ha nel suo braccio armato assassini e criminali come
quelli che vorrebbe combattere. Il pugno alzato delle Black Panther è un invito
alla presa di coscienza, alla lotta e, nei manifesti delle vittime da
ricordare, un invito a non dimenticare le ingiustizie.
Mille grazie a Quinto Moro per aver recensito il film!
Vi invito tutti a passare a scoprire qualcuno dei suoi lavori, che potete trovate QUI.
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