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Queer (2025): poco pasto, molto nudo

Lo dico? Mi faccio odiare subito da tutti? A volte penso che il cinema di Guadagnino ruoti tutto intorno alla sua sessualità e poco altro, certi suoi film non li reggo proprio, in altri invece il regista dimostra una passione per il genere, non maschile ma inteso come cinematografico, che finisce per farlo tornare più o meno puntualmente su questa Bara, quindi cos’altro dovrei essere? Tutte le scuse. Cos’altro potrei dire? Tutti sono gay. Cos’altro potrei scrivere? Non ho il diritto. Cos’altro dovrei essere? Tutte le scuse, anche per questo inizio di post.

Mentre tutti guardavano a Guadagnino per il suo nuovo adattamento di “American Psycho” (se si farà) ed io lo aspetto per “Sgt. Rock” (di cui resta la più improbabile scelta), il regista era impegnato nella promozione dell’ultima sua fatica, un film che è facilmente identificabile come per lo meno biografico per lui, visto che è tratto da “Checca”, anche pubblicato come “Diverso” e mi immagino a breve ripubblicato con il suo titolo originale “Queer” e Daniel Craig in copertina per vendere due copie in più, il romanzo breve di William Burroughs scritto tra il 1951 e il 1953 e pubblicato nel 1985, che nel solo titolo italiano, si porta dietro anche il cambio di vocabolario che dovrebbe andare di pari passo con la pancia del pubblico.

Siccome sono una brutta persona, la prima idea che ho avuto attorno al progetto è stato pensare al fatto che Daniel Craig, pur di non tornare nei panni di James Bond, sarebbe pronto a tutto, ma in realtà visto che Bill Burroughs mi è sempre piaciuto, la versione di Guadagnino rendeva il tutto un titolo nel mirino di questa Bara.

Giuro che non farò sfottò su James Bond, sarebbero veramente troppo facile.

Anche perché decidere di portare al cinema l’adattamento di un artista famoso, controverso, che ha fatto della trasgressione la sua cifra stilistica e che è assorto ad incredibile popolarità sì, ma dopo la morte, non è un’impresa semplice, Burroughs non trascendeva dal lato autobiografico e dalla sua trasfigurazione, non è un caso che Guadagnino in fase di presentazione del film – anche all’ultimo festival del cinema di Venezia – non abbia nascosto tutta la sua difficoltà nel calarsi nella vita di un altro artista, in qualche modo riconducibile allo stesso Guadagnino, ma dietro alla sua area di regista “Glamour”, una certa urgenza narrativa si nota, e questo è sempre un bene.

Cosa dico sempre dei primi cinque minuti di un film? Sono quelli che ne determinano tutto l’andamento, Guadagnino lì usa per una carrellata sugli oggetti di uso comune di William Lee (Daniel Craig) alter ego letterario di Burroughs: macchina da scrivere, occhiali e revolver, che con la sola presenza già fa attivare i neuroni ai lettori, nella fuga del personaggio, un americano impegnato a fare del Cruising (occhiolino-occhiolino) nella città del Messico degli anni ’40, questo viaggio, caratterizzato in più fasi e nel senso più ambio della parola, diventa quasi un modo per far pare con l’inconciliabilità tra corpo e spirito.

«Ciao, qual è il tuo libro preferito di Billy Burroughs?»

Qui veniamo al punto, perché Guadagnino abbia scelto di adattare proprio questo romanzo breve è piuttosto chiaro, la natura biografica lo accomuna a Billy Burroughs, proprio per questo molti degli eccessi dello scrittore, scompaiono in favore della descrizione della condizione omossessuale del protagonista e delle dipendenze, in termini di desiderio e tormento che essa si porta dietro. Guadagnino lo fa ovviamente con il suo stile, che riesce ad essere sfacciato e minimale, per fortuna qui non vediamo Daniel Craig fare i balzi dei tennisti del film precedente, al massimo lo ritroviamo in un’altra ottima prova, su questo non si discute, ma Guadagnino intorno gli costruisce un mondo fatto dei suoi dialoghi oppure in alternativa, dei pezzi scelti dal libro che parlano al posto del protagonista, mentre lui è intento a cercare nuovi amanti.

L’ho citata in apertura perché lo ha fatto anche il regista, “All Apologies” dei Nirvana nella versione di Sinéad O’Connor (mio spirito guida, manchi un sacco) che è allo stesso tempo la scelta di musica fuori contesto più banale, ma anche la più azzeccata possibile, così come i vari brani ovviamente in spagnolo, oppure “Come as You Are” sempre dei Nirvana, per cui vale lo stesso discorso o “Marigold”, per non parlare dell’utilizzo di Prince, anche qui, siamo alle aste per certi versi, però che gli dici ad uno che mette Prince nel suo film? Per me vince facile.

«Dov’è la mia macchina da scrivere-scarrafone? La voglio»

Ma la sfida vera è intrinseca, che poi è anche il motivo concreto per cui mi interessava questo film, Il pasto nudo era un racconto allucinato che parlava anche di paranoia, paura, di corpo che si adatta alle flessioni della mente usando l’omosessualità che per Cronenberg, è sempre una “mutazione” (come la definisce lui) molto interessante da esplorare, guadagnino invece si gioca le sue carte in maniera più semplice e diretta, utilizzando in parti uguali la luce riflessa del film di Cronenberg e cercando di farne da compendio, seppur concentrandosi molto di più su quella che alla fine è una storia d’amore tra Lee e il suo giovane studente. Quindi mi tocca fare ancora il cattivo e tornare al mio punto iniziale, a volte il cinema di Guadagnino ruota tutto intorno alla sua sessualità, come se fosse l’unico omosessuale della storia dell’arte, Luca, no, non è così, lo sosteneva anche Mel Brooks prima e meglio di te.

Nello scontro diretto, Canada batte Italia perché ne Il pasto nudo, la parola si faceva (nuova) carne, qui invece l’andamento è opposto, “Queer” parte dalla carnalità ricercata ovunque, anche a città del Messico, per arrivare a distaccarsi dal proprio corpo sempre di più, la scena finale che sfuma negli eterei titoli di coda è un bell’indizio in tal senso. Di mio non ho dubbi, preferisco l’approccio di Cronenberg, ma questo non vuol dire che quello di Guadagnino sia meno interessante, ma vi faccio un esempio concentro, il mio secondo canadese preferito costruiva tutto intorno a quel finale, a quella partita a “Guglielmo Tell” con il bicchiere sulla testa, che chiunque abbia letto Burroughs sa essere un momento biografico chiave della vita dello scrittore, qui Guadagnino fa quasi lo stesso, giocando un po’ ad inseguire Cronenberg, tra quello e i cuori vomitati ribadisco, Canada batte Italia, ma l’esigenza narrativa è tutta da vedere, “Queer” è un film estremamente in linea con la filmografia di cui fa parte, solo che contro Cronenberg non vince mai nessuno, dovrebbe essere chiaro ormai.

«Ma io volevo solo fare meglio di Cronenberg», «Rassegnati, nessuno potrà mai fare meglio di Cronenberg»

Diventa chiaro il debito, anche nelle location, Cronenberg non potè girare a Tangeri nei luoghi dove Burroughs scrisse il libro, quindi dovette ricorrere a girare in interni, Guadagnino senza limitazioni di sorta, segue la strada tracciata dal canadese, infatti ha girato tutto a cinecittà su set ricostruiti per sembrare città del Messico, insomma è impossibile slegare i due film e a volte, Guadagnino non ci prova nemmeno, anzi sembra cercarla proprio quella connessione.

Chiudo con la menzione speciale doverosa, era parecchio che non mi capitava, ma ormai ho voglia di vedere i film anche solo sulla base dei compositori, se sono Trent Reznor e Atticus Ross come in questo caso, anche questa sta diventando una specie di regola.

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