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Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975): ho scelto il giorno sbagliato per rapinare banche

Gli americani chiamano “dog day” una giornata estiva
particolarmente bollente, di fatto l’espressione usata dagli antichi Romani che
noi abbiamo quasi dimenticato, la canicola. Quindi quando questo film uscì nei
cinema italiani, il 27 gennaio di 45 anni fa, il suo titolo corretto sarebbe
dovuto essere qualcosa come “Canicola pomeridiana”, non suona benissimo lo so,
ma sarebbe diventato un Classido lo stesso.

Faceva caldo il 22 agosto del 1972 a Brooklyn, quando John
Wojtowicz – che nel film diventerà Sonny – e il suo complice Salvatore Naturale, fecero irruzione in banca. Due veterani del Vietnam, disperati, sottoprodotti di un
Paese incazzato, disilluso, in cui una grossa fetta di popolazione era stata
spinta ai margini, talmente disperata da rischiare una rapina in banca in un
giorno di canicola, tutto pur di fare una vita meno amara, come in una canzone di Nino Manfredi. Il tentativo di emulare John Dillinger dei due, si scontrò con la dura
realtà e venne raccontato in un articolo scritto da P.F. Kluge e Thomas Moore
sulla rivista “Life”, un pezzo intitolato “The Boys in the Bank”, pubblicato il
22 settembre del 1972, successivamente adattato per il grande schermo dallo
sceneggiatore Frank Pierson, che per il suo lavoro si portò a casa un meritato
Oscar, rompendo la monotonia di una cerimonia in cui il titolo più ripetuto durante la serata era
Qualcuno volò sul nido del cuculo.

La realtà in bianco e nero Vs la finzione cinematografica a colori

Pierson era specialista di storie di uomini contro, visto
che aveva già scritto Nick mano fredda,
ma era stato anche l’autore di “Rapina record a New York” (1972) di Sidney
Lumet, che con questo film tornò per certi versi sul luogo del misfatto, firmando uno dei suoi titoli più importanti. Per gli attori la scelta fu
altrettanto semplice, John Cazale attore dalla filmografia (e dal talento)
incredibile e fin troppo breve, era reduce dai primi due capitoli di “Il
padrino” e da quella meraviglia di “La conversazione” (1974) sempre di Coppola,
ma prima di finire a recitare in “Il cacciatore” (1978) per Cimino, divenne
rapinatore per Lumet che gli affidò la parte al volo dopo un provino durato la bellezza di cinque minuti netti (storia vera).

“Quattro minuti e trentotto secondi per la precisione”

Al Pacino, stremato dopo la prova in “Il padrino – Parte II
(1974) desiderava una vacanza, ma pur di averlo Lumet fece leva sul suo
orgoglio, spargendo in giro la voce per cui avrebbe spedito il copione al
rivale Dustin Hoffman, un minuto dopo Pacino era già sul set ad urlare «ATTICA!
ATTICA! ATTICA!» (storia vera).

Oggi il 27 gennaio 2021, ora che mi ritrovo qui a scrivere
di questo capolavoro, a 45 anni dalla sua uscita nei cinema di uno strambo Paese
a forma di scarpa, non fa proprio caldissimo, anzi tutt’altro, il che è
perfettamente logico perché una delle caratteristiche di “Quel pomeriggio di un
giorno da cani” è la sua capacità di farti percepire il caldo, l’umidità, la
tensione dei protagonisti mentre i vestiti si appiccicano loro addosso, anche
se il film è stato girato in pieno inverno. Gli attori sul set tenevano in
bocca cubetti di ghiaccio per evitare che la macchina da presa riprendesse il
loro fiato condensato, il che ora che ci penso non è una delle caratteristiche
più importanti del film, ma ci dice parecchio della sua forza, un film dove la
canicola, il sudore, la tensione e il caldo mortale sono onnipresenti, a
partire proprio dal titolo, in realtà è stato girato in pieno inverno. Magia
del cinema.

“Proprio vero, non ci sono più le mezze stagioni”

“Quel pomeriggio di un giorno da cani” è un capolavoro di
compattezza, potremmo idealmente dividerlo in due capitoli, una prima parte
dedicata alla disastrosa rapina e una seconda, che scava più nelle motivazioni
dei personaggi, impegnati a cercare di limitare i danni organizzando improbabili
fughe all’estero. La prima parte sostiene la seconda, ma il film di suo è un
unico solidissimo blocco di 125 minuti che filano via con un grande ritmo, raccontandoci molto di più di quello che ci si aspetterebbe di trovare in un
paio di ore di pellicola. Due ore che sembrano durare la metà ma raccontano come se fossero sei o sette, il talento di Lumet è dato troppo per scontato, lo dico sempre.

Sidney Lumet sulle note dell’unica canzone che sentiremo per
tutta la durata del film (“Amoreena” di Elton John), ci mostra uno spaccato di
vita della New York degli anni ’70, il posto da cui arrivano Sonny (Al Pacino)
e Sal (John Cazale) che in teoria avrebbero anche un terzo complice Stevie, che
però non se la sente e dopo un minuto dall’inizio della rapina, li molla lì
rischiando di andarsene con le chiavi della macchina in tasca. Al pari degli
inseguimenti in auto, le scene di rapina sono da sempre il sale del grande
cinema americano, se sai dirigere una bella scena di rapina, potrai diriger
qualunque altra cosa. Sidney Lumet senza mai alzare il volume della radio
(anzi, togliendo proprio la musica dal film, scelta di estremo realismo) fa
durare due ore la sua rapina trasformandola in un lungo assedio, Sonny e Sal
dentro e un milione di poliziotti fuori. Nel farlo ci racconta le vite dei suoi
personaggi e uno spaccato dell’America degli anni ’70, meglio di quanto
potrebbe fare qualunque libro di storia.

“Giornataccia eh Al?”, “Non me ne parlare, una cagnara”

Si perché malgrado il fatto che Sonny conosca tutte le
procedure interne di una banca, la rapina va male lo stesso, i buoni propositi
dei due ladri da strapazzo precipitano velocemente giù lungo lo scarico e come
spettatori, non possiamo fare altro che patteggiare per loro, quelli che in
teoria sarebbero i cattivi della storia, vengono raccontati da Lumet così bene, per
cui considerarli davvero tali diventa quasi impossibile. Sonny e Sal sono
teneri nel loro essere goffi, disperati certo, anche motivati, ma non cattivi,
solo goffi e incastrati dentro una situazione che diventerà presto più grande
di loro, il pomeriggio di un giorno davvero da cani, quindi in tal senso i
nostri distributori storpiando il titolo, hanno trovato quello più azzeccato
possibile, regalandoci per altro, un’espressione che come accade quando un film
è davvero grande e famoso come in questo caso, è diventata di uso comune.
Quante volte in alcuni pomeriggi lavorativi avreste voluto mettervi ad invocare
Attica come Pacino? Eh non ditelo a me, davvero troppe.

Sidney Lumet ha lasciato i suoi attori improvvisare
moltissimo sul set del film, il risultato giova al racconto, infatti i
personaggi vivono delle interpretazioni dei rispettivi attori, Sonny e Sal sono
quasi agli antipodi, tanto è apparentemente pacato uno, quando risulta
esagerato e sopra le righe l’altro, come mosso dall’esigenza di attirare
l’attenzione su di sé, quasi un modo per proteggere tutti gli altri. John Cazale
lavora di sottrazione, un conservatore che non beve e ironicamente non fuma
perché non vuole il cancro, anche se è proprio la malattia che ha portato via
troppo presto un talento come Cazale.

“Non pensi che avremmo dovuto indossare delle maschere?”, “Da cosa, da ex presidenti? Troppo caldo”

Il suo Sal è un puro, uno che non ha idea di come sia fatto
il mondo attorno a lui, quando Sonny gli chiede in quale Paese straniero
vorrebbe fuggire via, lui risponde «California», una battuta improvvisata da
Cazale che Lumet ha voluto mantenere nel film perché dice molto del personaggio
e perché la reazione di Pacino era talmente realistica da risultare perfetta
(storia vera). Sal non fa un passo indietro e ha in Sonny il suo totale punto
di riferimento, quando il personaggio di Al Pacino minaccia di iniziare a
gettare cadaveri fuori dalla porta, atteggiandosi a tostissimo rapinatore, Sal
gli dice che è talmente disperato che potrebbe anche farlo, infatti il personaggio
di Cazale diventa violento solo quando l’amico è in pericolo, per assurdo il
più teneramente candido della coppia, si ritrova a ricoprire il ruolo del
violento dal grilletto facile, «Ho un tizio qui, che se diventa nervoso ammazza
e la responsabilità è tua non mia!» dirà Sonny fingendo sicurezza al capo dei negoziatori,
il poliziotto Eugene Moretti interpretato da Charles Durning.

L’altra faccia della medaglia è Sonny, interpretato da un Al
Pacino in stato di grazia che entra in scena con una confezione per i fiori, che
in realtà contiene un fucile (che strizza l’occhio a “Rapina a mano armata” di
Kubrick e forse anche al successivo Terminator 2) e poi esplode in una prova
esagerata, tutta nervi sudore e urla, il modo di Sonny di attirare tutta
l’attenzione su di sé per proteggere l’amico, ma anche per riscattarsi da una
vita piena di compromessi, segnata da una madre apprensiva, una moglie logorroica
e petulante e anche dalla sua omosessualità da sempre nascosta.

Non so voi, ma se vedessi qualcuno con una scatola per fiori così, comincerei a preoccuparmi.

Sal il conservatore, si agita nervosamente solo quando alla
radio parlano di una coppia di rapinatori omosessuali, lui non lo è anche se
per il suo amico farebbe di tutto, anche una rapina in un giorno di canicola,
Sonny invece quando vede andare tutto in malora capisce che quel pomeriggio di
un giorno da cani è il suo momento, quello con cui magari far girare al buono una
giornata storta, se non proprio una vita che non è andata secondo i piani.

“Se Cassidy non la smette di blaterare giuro che faccio una strage qui dentro!”

L’atteggiamento di Sonny è quello di un uomo sotto i
riflettori, sono i suoi warholiani quindici minuti di gloria perché la
televisione lo strumentalizza senza pietà, alla caccia della notizia
sensazionale a tutti i costi. Sidney Lumet sottolinea il concetto senza
rimarcare ma semplicemente raccontando, come il grande uomo di cinema che era,
il personaggio di Penelope Allen – attrice che ha supportato Pacino,
nei suoi anni da studente di recitazione spiantato e senza fissa dimora

– quando viene portata davanti alle telecamere si atteggia sistemandosi i
capelli e persino il ragazzo che consegna le pizze agli assediati, esulta per
essere diventato famoso. Sono i semi di quello che Lumet racconterà in maniera
approfondita nel suo successivo “Quinto potere” (1976), perché oltre ad essere
una pietra miliare “Dog Day Afternoon” è il punto di equilibrio di tutto il
cinema di un regista che troppo spesso viene dato per scontato, in questo film
ritroviamo molte delle sue tematiche, per certi versi anche l’ottimo “Onora il
padre e la madre” (2007), purtroppo suo ultimo lavoro prima della dipartita,
parlava di una rapina disastrosa e di rapporti personale più che complicati tra
personaggi che rifuggivano le facili etichette di “buoni” oppure
“cattivi”, al contrario di quanto accade in troppo cinema contemporaneo prodotto in serie.

“È l’ultima volta che lo vedete un cattivo come me, ve lo dico io… Ah no scusate, ho sbagliato film”

L’orientamento sessuale da sempre represso di Sonny ad
esempio, lo rende un personaggio sfaccettato e a suo modo unico nella storia
del cinema, un uomo, innamorato di un altro uomo, disposto a rischiare con una
rapina pur di poter permettere al compagno di diventare una donna. Il tutto arriva al pubblico sempre con quel
modo di raccontare senza sottolineare pedantemente i concetti, che
era tipico della regia di Lumet, le due conversazioni telefoniche di Sonny, che
arrivano in serie una via l’altra sono significative: quando Sonny è al
telefono con l’amante Leon (Chris Sarandon), malgrado le difficoltà i due
cercando di venirsi incontro uno con l’altro, mentre la successiva telefonata
con la moglie è una fagiolata di urla e strepiti.

“Ha qualche richiesta in particolare?”, “Potreste chiedere a Susan di restituirmi il mio cognome?”

“Quel pomeriggio di un giorno da cani” è una riuscita
combinazione di critica sociale, uno spaccato realistico sulla crisi del sogno
americano che è a disposizione di tanti, ma non proprio di tutti, ma anche un
grande film d’attori, letteralmente trascinato dal talento esuberante ed
esplosivo di Al Pacino, che è stato premiato con un Oscar solo nel 1993, ma a
quel punto era già con due piedi abbondantemente dentro la storia del cinema,
proprio grazie a prove come questa. L’unico che è stato in grado di fermarlo per
davvero è stato quel mito di Lance Henriksen, che qui ha un ruolo minuscolo ma
fondamentale, ed onestamente è sempre bello veder spuntare il faccione strano e
affilato di Lance nei film.

Quel pomeriggio di un giorno da Lance.

Se poi volessimo giudicare il film solo sulla base del suo
impatto sulla cultura popolare, potremmo dire che la frase «ATTICA! ATTICA! ATTICA!»
è una delle più citate nella storia del cinema, che ogni tanto torna anche in
parecchie serie televisive, sto pensando ad un episodio di Orange is the new black. Se invece volessimo citare i film con
grosse scene di rapina in banca che si sono abbeverati alla fonte del film di
Lumet, la lista sarebbe ancora più lunga, sicuramente “Inside Man” (2006) uno
dei migliori titoli di Spike Lee deve moltissimo a questo film, ma se volessimo
aprire il vaso di Pandora dei film ignoranti, il rapinatore di banche John
Travolta in “Codice: Swordfish” (2001) citava apertamente le azioni di Sonny,
dimostrando di aver imparato dai suoi errori.

Insomma, anche in pieno inverno e a 45 anni di distanza
dalla sua uscita nei cinema di uno strambo Paese a forma di scarpa, “Quel
pomeriggio di un giorno da cani” resta una pietra miliare e se mai qualcuno
provasse a convincervi del contrario, voi rispondetegli: «ATTICA! ATTICA!
ATTICA! ATTICA!».

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