Sono cinquant’anni che le persone di tutto il mondo utilizzano l’espressione “Sporca dozzina” per indicare un branco di gatti senza collare alle prese con una missione suicida, quando il titolo di un film diventa parte delle cultura popolare, vuol dire che ha travalicato i limiti del classico, quindi fate gli auguri di compleanno a questo CLASSIDO!
Anche mezzo secolo fa le grandi case di produzione come la Metro-Goldwyn-Mayer pensavano a film fatti per incassare palate di ex presidenti spirati stampati su carta verde, ma forse c’era più fiducia negli autori come Robert Aldrich, uno che aveva già diretto titoli oggi considerati fondamentali come “Un bacio e una pistola” (1955) e un ENORME successo di pubblico che oggi viene giustamente ricordato come una pietra miliare del cinema horror, ovvero “Che fine ha fatto Baby Jane?” (1962), ma dopo aver tentato di domare due tigri come Joan Crawford e Bette Davis ed essersi (quasi) ritrovato a farlo nuovamente in “Piano… piano, dolce Carlotta” (1964… Avete già visto la prima stagione di Feud? No? Correte a farlo!), non riesco a non pensare al vecchio Bob che dice: «Basta! Voglio un cast di soli uomini!».
L’occasione giusta arriva da un romanzo del 1965 intitolato “The Dirty Dozen” scritto dal misterioso scrittore E.M. Nathanson, uno di cui si sanno ben poche notizie, poche, ma gustose. L’idea per la trama sembra trarre origine dalle gesta della 101esima divisione aerotrasportata dei paracadutisti impiegati in missione durante la seconda guerra mondiale soprannominata “The Filthy Thirteen”, i tredici zozzoni, per via del loro rifiuto di utilizzare acqua e sapone. Sì, ma chi ha raccontato a Nathanson di questi micidiali (anche per l’olfatto) parà? Tenetevi forte, due tizi che lo scrittore frequentava ai tempi e che conoscevano parecchie storie di guerra per via delle ore passate al fronte: il fotografo di guerra Charles Eugene Summers e il regista di parecchie scene belliche documentaristiche (alcune utilizzate anche nel film “Patton, generale d’acciaio” 1970) di nome Russ Meyer… Time Out Cassidy!
Sì, proprio Russ Meyer, anzi il Maestro Russ Meyer! L’uomo i cui film vengono ricordati principalmente per due cose: eccentricità ed utilizzo del montaggio? Sì, anche, ma soprattutto: le poppe! Incredibile che senza collaborare direttamente, il regista che ha celebrato le curve femminili al cinema più di tutti e quello che proprio grazie a due donne ha diretto un capolavoro, abbiano sfornato uno dei più grandi film di uomini, per uomini e da uomini della storia del cinema. Ah! Prima di dimenticarmi, per ulteriori dettagli sulle possibili ispirazioni pescate da E.M. Nathanson vi rimando all’ottimo pezzo del Zinefilo proprio su questo argomento.
Con in una mano il romanzo originale del 1965 e nell’altra il via libera della MGM per avere carta bianca su tutto, compreso il cast del film, Robert Aldrich parte con il piglio del generale, incassa il no del grande Jack Palance che non ne vuole sapere di interpretare il folle invasato religioso Archer J. Maggott ed etichettando il film come spazzatura (storia vera) di fatto regala a Telly Savalas, il mitico Theodore “Theo” Kojak della serie tv “Kojak” il suo più bel ruolo cinematografico di sempre.
Per la parte del maggiore John Reisman, la MGM vorrebbe il Duca John Wayne, ma Bob Aldrich mette le corna a terra dicendo «Voglio Lee Marvin», alla fine vincono tutti perché il Duca preferisce andare a recitare nell’ultra patriottico (e ultra repubblicano) “Berretti Verdi” (1968), che per contenuti sembra quasi l’antitesi di “Quella sporca dozzina”, che è un grande film di guerra, ma con un’anima quasi anarchica e anti militarista che lo rende un capolavoro anche cinquant’anni dopo, lasciatemi l’icona aperta che su questo punto ripasso.
Ecco, con Lee Marvin però non è certo tutto pesche e crema, ma dopo Joan e Bette, Bob Aldrich è il miglior regista al mondo per tirare fuori prove storiche da attori e attrici capaci di trasformare in un inferno il set. Ora, Lee Marvin per i due che non lo conoscessero è stato un monumento vivente, parliamo di uno che ha lasciato la scuola per correre ad arruolarsi nei Marines nell’Agosto del 1942 (Storia vera) e ritrovarsi poco dopo nel pacifico a combattere contro l’esercito imperiale giapponese.
Durante la battaglia di Saipan nel ’44 Marvin si becca una smitragliata beh, nelle chiappe, ma anche il Purple Heart per il valore dimostrato sul campo, la leggenda vuole che in ospedale abbia pianto, non per i buchi aggiuntivi guadagnati sul lato B, ma per non poter più essere accanto ai suoi compagni al fronte. Il passo successivo è stato quello di sfruttare la sua presenza e la sua carriera militare per esordire al cinema, dove un paio di ruoli mica male in linea di massima li azzecca (sì, sto pensando al bandito Liberty Valance di un capolavoro quasi omonimo), ma il suo merito principale è quello di diventare il monumento vivente per almeno tre generazioni. Ancora oggi quando sento valutare gli attori sull’unica base della loro “Espressività”, sento riecheggiare da qualche parte le risate di Lee Marvin, uno che di espressioni ne aveva giusto una manciata, ma che si divorava i film a cui prendeva parte lo stesso, proprio come fa qui.
Certo, gestirlo sul set per Aldrich è stato un gran casino, la migliore amica di Marvin allora era la bottiglia, quindi spesso ciondolava pieno come un Irlandese a San Patrizio sul set, cosa che ha creato più di un problema specialmente con un altro membro del cast, ovvero Charles Bronson che di vedere Marvin costantemente ciucco aveva ben poca voglia. Charles Bronson e Lee Marvin, nello stesso film, a questo punto i fanatici dell’espressività degli attori dovrebbe iniziare a sentire anche loro risuonare delle risate in lontananza, ve lo dico così non vi preoccupate.
La trama è talmente famosa che mi sembra quasi superfluo citarla? Che faccio cito? (Come direbbe Tarzan). Boh, insomma 12 pendagli da forza vengono radunati dal maggiore John Reisman (Lee Marvin) per una missione suicida per cui non è il caso di sprecare soldati veri, ma che potrebbe, se portata a termine, facilitare l’imminente sbarco alleato. Trattandosi di Seconda Guerra Mondiale non credo serva spiegare di che sbarco stiamo parlando.
L’obbiettivo è un castello dietro le linee nemiche che diventerà presto la sede di un raduno dei massimi vertici dell’esercito Nazista, una buona occasione per sfoltire un po’ di teste che contano assestando un colpo basso, ma efficace al Terzo Reich.
Ditemi cosa volete, ma il maggiore Reisman è il tipo di personaggio per cui mi piace fare il tifo, non solo perché ha il volto di granito di Lee Marvin, ma anche perché ha una totale insofferenza nei confronti delle regole, lui stesso al generale di divisione Worden autore del piano (Ernest Borgnine che fa Ernest Borgnine così bene che voi dovreste togliervi il cappello) mostra ben poca fiducia per i tempi e i modi di questo suicidio organizzato. Di se stesso Reisman dice «Ho poca simpatia per i ricami bado ai risultati», insomma un ufficiale sì, ma pragmatico nei modi, uno che fa piuttosto che pontificare, poi chiedetevi perché mi è sempre stato simpatico.
La banda di bastardi che si ritrova a comandare ci viene mostrata sui titoli di testa del film da Robert Aldrich con una carrellata talmente piena di miti e facce da leggenda che potrebbe creparsi il vetro della televisione per eccesso di gagliardezza! Un cast variegato anche nel tipo di esperienze al cinema, composto da molti ex militari che nella seconda guerra mondiale hanno servito davvero.
Gente tipo il campione della NFL Jim Brown che ha girato le sue parti nella pausa estiva tra un campionato e l’altro, il cantante Trini Lopez autore delle celebre “If I Had a Hammer” (che in italiano Rita Pavone ha trasformato in “Datemi un martello” così so cosa avrete in testa per il resto della giornata), ma anche il già citato Telly Savalas, l’esordiente Donald Sutherland nella parte del soldato sciroccato che proprio granzie al successo di questo film, ha una parte quasi identica in un altro classico “I guerrieri” (Kelly’s Heroes, 1970). Questo è talmente un filmone che può permettersi quel mito di George Kennedy in un ruolo quasi secondario!
Uno dei personaggi più carismatici è sicuramente l’anarchico Victor P. Franko interpretato con parecchie concessioni all’improvvisazione sul set (vecchia abitudine dell’attore) da John Cassavetes, proveniente dal teatro e dal cinema indipendente, ma fortemente voluto da Robert Aldrich, che ha avuto ragione anche su di lui visto che Franko risulta davvero uno dei più carismatici di tutta la dozzina.
Nei panni di un minatore polacco, invece, troviamo proprio il mitico Charles Bronson, grande prova di immedesimazione per lui che, in realtà, nella vita era figlio di un minatore sì, ma lituano (storia vera). Il suo Joseph T. Wladislaw è sempre stato uno dei miei preferiti del mucchio, vuoi anche per i suoi trascorsi, in fondo già da bambino in un Classido con i numeri nel titolo, aveva dato prova di saper bucare lo schermo.
Armato di tutte queste facce una più mitica dell’altra, Robert Aldrich non va certo sotto, ma da bravissimo direttore di orchestra regala a TUTTI i personaggi i giusti spazi, che tu abbia visto “Quella sporca dozzina” cento volte o sia la tua visione numero uno, dopo pochi minuti hai già imparato tutti i nomi dei personaggi a memoria, potete dire lo stesso anche di opere chiaramente ispirate a questa come che so, degli Expendables di Sylvester Stallone?
Questo film diventa un archetipo cinematografico talmente seminale che anche grandi Maestri del cinema come John Carpenter hanno applicato lo schema del criminale bastardo spedito a risolvere una missione importante ma suicida. Uno schema così radicato in profondità nella storia del cinema che ancora oggi persino i grandi Blockbuster della Distinta Concorrenza e della Disney, di fatto, sono tutti nipotini colorati e pronti per il merchandising di questa sporca dozzina di pendagli da forca.
“The Dirty Dozen” è assorto allo stato di classico non solo perché è un ottimo film di guerra, ma soprattutto perché funziona alla grande come film d’azione e di avventura. L’azione si trova quasi tutta nell’ultima parte estremamente coinvolgente, per il resto del tempo Bob Aldrich mette su un’atmosfera di cameratismo e di amicizia virile che ti prende per il bavero e ti tira dentro il film.
La difficile convivenza tra questa banda di bastardi va di pari passo con ottimi dialoghi. Personalmente ho sempre amato il modo in cui Lee Marvin spiega a Jim Brown finito in galera per evitare di finire linciato da alcuni razzisti, proprio combattendo i Nazisti avrà l’occasione di combattere contro i più grandi razzisti del mondo. I dialoghi efficaci sono il termometro delle dinamiche di gruppo (“Un gentil uomo del Sud ha messo in discussione la posizione dei coperti”) e funzionano alla grande applicati a personaggi che oggi al cinema sarebbe impossibile vedere tipo il Maggott di Telly Savalas.
Di fatto, un bigotto fanatico religioso che vede tutte le donne come sgualdrine che le Sacre scritture gli ordinano di punire, no sul serio, siamo lontani anni luce dal cinema buonista che vediamo oggi. Maggot è un cane sciolto, la scintilla vicino alla dinamite che trasforma l’ultima lunga scena di tensione in uno dei finali bellici più belli mai visti al cinema. Ho sempre trovato satirico e ironico il fatto che Robert Aldrich decida di inquadrare una statua di Casanova, sciupafemmine celebre per i suoi modi con l’altra metà del cielo, proprio mentre Maggot è impegnato a strapazzare e a ricoprire di anatemi da vecchio Testamento una biondina tedesca che ha avuto la sfortuna di finirgli tra le mani.
Lungo i 145 minuti della sua durata, “Quella sporca dozzina” regala venti scene entrate nell’immaginario collettivo e altrettante che a seconda dei gusti, sono certo, potete elencare tra le vostre preferite. Lee Marvin che insegna a Trini Lopez come arrampicarsi sulla corda usando il mitra come buona motivazione, oppure Charles Bronson e la sua fissazione per il Baseball.
Nel corso del film Bob Aldrich cementa il cameratismo del gruppo e ci fa affezionare a questa sporca dozzina che impara a lavorare e pensare di squadra, guadagnandosi il suo nome rifiutandosi tutti insieme di lavarsi e radersi. La scena in cui Donald Sutherland si spaccia per il generale e passa in rassegna le truppe è pura commedia, di quella ben fatta, mentre i giochi di guerra per dimostrare al perfido colonnello Everett Dasher Breed (Robert Ryan… giù il cappello!) l’efficacia sul campo della sporca dozzina rendono onore al cinema di avventura e se quando li guardate sulla vostra faccia non viene fuori un sorrisone come quello Ernest Borgnine, mentre capisce il trucco dello scambio delle fascette colorate (ancora oggi la prima immagine che mi viene in mente quando sento il nome di Borgnine. Storia vera), allora non vi conosco e non vi voglio conoscere!
Ma quando le cose si fanno serie, lo fanno per davvero. Robert Aldrich maneggia alla perfezione cameratismo e film di avventura, ancora oggi dopo cinquant’anni e altrettante visioni del film, trapela chiarissimo il suo intento, ovvero quello di mostrare la guerra come uno stramaledetto inferno dove non ci sono eroi, forse se siamo fortunati solo dei pendagli da forca impiegati contro un male ben peggiore di loro.
L’allegoria anti militarista di Bob Aldrich serpeggia in ogni scena e anche se il film ha un aspetto estremamente classico in grado di accontentare i papà alla ricerca di un bel film di guerra come li facevano una volta, sotto sotto ha una vena sovversiva che venne ben capita dai giovani in aria di ’68 di allora.
Per Aldrich la guerra è un fottuto massacro, non c’è nulla di eroico in un missione in cui se porti a casa la pelle puoi considerati un miracolato e per farlo, molto probabilmente devi fare qualcosa di orribile. La svolta tragica che prende il piano perfetto messo su (e ripetuto nella martellante cantilena “16, avanziamo con il diavolo in corpo, 17, sbuchiamo fuori come furie…”) va a donnine di facilissimi costumi quando si scopre che i Nazisti sotto il castello hanno un bunker e si barricano dentro.
La benzina e la granate lanciate dentro le bocchette per l’aria oltre ad essere ancora oggi una di quelle scene che ti fa venire le nocche bianche mentre ti ritrovi ad arpionare i braccioli della sedia per la tensione strizza volutamente l’occhio ai bombardamenti americani in Vietnam fatti a colpi di Napalm, perché in quel bunker ci sono alti ufficiali del Reich, ma anche le loro mogli, no sul serio John Wayne non avrebbe mai potuto prendere parte a questo film.
Il successo al botteghino del film di Robert Aldrich è da capogiro, il maggiore incasso della MGM del 1967, la sporca dozzina in diverse incarnazioni è tornata in azione in una serie di film per la televisione come “Quella sporca dozzina II” (Next Mission, 1985), “Quella sporca dozzina: missione di morte” (The Deadly Mission, 1987), “Quella sporca dozzina: missione nei Balcani” (The Fatal Mission, 1988), insomma roba da ripassare la tabellina del dodici se per caso l’aveste scordata.
Ma ancora oggi il film di Aldrich anche grazie a quelle facce scolpite nelle pellicola cinematografica di Lee Marvin, Borgnine, Charles Bronson e tutti gli altri rappresentano la quinta essenza del film da uomini, quello fatto di avventura, azione e cameratismo. Il cinema che parla direttamente al cervello rettile di noi maschietti, ma non solo di tutte le persone amanti del buon cinema, sono sicuro che se mai arriverò ad avere sulla faccia le rughe di Lee Marvin, troverò ancora qualcuno che si entusiasmerà tantissimo per questo capolavoro, che per parafrasare il maggiore Reisman sta lassù tra gli immortali del cinema. «Diamo anche a quegli altri un posto tra gli immortali».
Sepolto in precedenza martedì 19 settembre 2017
Creato con orrore 💀 da contentI Marketing