Tra i grandi compleanni del 2024, non potevo lasciarmi scivolare dalle dita un pallone lanciato da un Quaterback di livello come Robert Aldrich, giusto per far notare che un minimo di vocabolario relativo al football lo posseggo, a differenza del doppiaggio di questo film, che a mio avviso ha contribuito a decenni di confusione italiota, Football o Rugby? Tutto uguale in quanto non-calcio in uno strambo Paese a forma di scarpa.
Bob Aldrich faceva parte di una scuola di registi formati alla vecchia maniera, con tecniche e ritmi di lavoro degni di tana delle Tigri per cui se non eri più che talentuoso, col cavolo che reggevi il passo. Una scuola massacrante che lo ha trovato (quasi) pronto per domare le tigri sul set di Che fine ha fatto baby Jane? Prima della fisiologica reazione, dopo essere sopravvissuto alla faida tra Joan Crawford e Bette Davis, il nostro si è lanciato sul film al maschile definitivo, quel capolavoro di Quella sporca dozzina.
Un film con un destino comune al festeggiato di oggi, perché “The Dirty Dozen” e “The Longest Yard” sono stati accumunati dalla creatività italiana per i titoli, il secondo per strizzare occhi e orecchie al primo, è stato condito con le parole “Quella sporca” ad accumunarli, anche se in comune hanno già molto, oltre al regista e un cast quasi interamente maschile, che qui viene interrotto solo dalla presenza della fidanzata dal protagonista e della segretaria del direttore della prigione, quella con l’impressionante cofana di capelli alla Marge Simpson, in ogni caso entrambe ripassate da Burt Reynolds perché ehi! 1974 bimba, l’unico Reynolds giusto era quello con i baffi, non con la maschera di D-Pool.
“The Longest Yard” unisce il film carcerario al dramma sportivo, senza negarsi grosse porzioni da commedia, che lasciano il passo nel finale ad una parte più seria e drammatica, un titolo che riesce ad essere scanzonato e in parte politico e che gronda cinema americano degli anni ’70 ad ogni fotogramma, un culto totale diventato con il tempo un Classido!
Anche se va detto, per arrivare a quell’ultima meta, sporca o meno che sia, il film prodotto da un mammasantissima come Albert S. Ruddy inizia con un tono completamente diverso, essenzialmente con la mascolinità esagerata di Burt Reynolds lanciata in faccia al pubblico, che negli anni ’70 gradiva. Il suo personaggio Paul Crewe è il classico maschio che ha i peli anche sugli ormoni, un talento del Football professionistico che vive come quello che oggi chiameremmo “Toy boy” per una bella riccona, fino al momento in cui lui non la sfancula, con metodi che oggi manderebbero in tilt molti cervelli e molti stomaci dell’anno 2024. Il nostro (non tanto) eroe vorrebbe solo vedere la partita alla tv, in realtà in testa ha una serie di nuvole nere tutte sue che lo portano a cosette come: maltrattamenti, furto d’auto, guida in stato di ebrezza visto che si benzina di tutto prima di mettersi alla guida che ovviamente, risulta selvaggia. Il film non è neanche iniziato e già Bob Aldrich può fare sfoggio di ottima regia e montaggio (firmato da Michael Luciano) dirigendo scene di inseguimento in auto come si fa in paradiso, un trionfo di ciocchi fortissimi, sgommate e particolarissimi “car wash” già memorabili.
Per Paul Crewe si aprono le porte delle patrie galere, anche dietro le sbarre la sua brutta fama (e il suo brutto carattere) lo precedono, anche far sparire i caratteristici baffoni di Reynolds sembra quasi un tentativo di ridimensionarlo che però per uno come Crewe è impossibile, per chiunque la prigione sarebbe un incubo, per lui che è il peggior nemico di sé stesso, inizialmente un modo per continuare a tenere aperte le sue ferite.
Il nostro protagonista si è giocato la carriera dopo aver venduto una partita, giocando male volontariamente ha deciso del risultato in cambio di tanti, maledetti e subito, da allora è stato etichettato come corrotto e venduto, quindi immaginate dietro le sbarre, quando gli altri prigionieri, non per forza tutti proveniente dalla stessa classe agiata del nostro, si vedono arrivare la Superstar decaduta, ripiena di tutta la spavalda arroganza di cui Burt Reynolds era capace, insomma, una premessa che si scrive da sola.
Ecco perché buona parte di “Quella sporca ultima meta” poggia tutto sulle facce (brutte) giuste e i classici del film carcerario, a partire dal direttore di prigione stronzo, qui interpretato da James Hampton, che sembra quasi che tu non possa far carriera nei dipartimenti di stato se non sei una merda d’uomo, ed ora che ci penso, questo potrebbe valere un po’ a tutti le latitudini e in tutte le professioni. Cosa manca al canone? Il capo dei secondini carogna ovviamente, qui il ruolo è ricoperto dal viso affilato di Ed Lauter totalmente in parte.
Difetti? Essenzialmente una forzatura a livello di trama, utile a portare avanti la trama ma che ogni volta mi lascia con dei dubbi, che ruotano tutti attorno al personaggio dell’allenatore Nate Scarborough (Michael Conrad), un altro professionista del Football finito dietro le sbarre, ma a differenza di Paul Crewe rispettatissimo. Di lui sappiamo solo questo, ho sempre trovato forzato il fatto che nella stessa prigione ci fossero ben due ex professionisti (anche se il direttore potrebbe essere interceduto), ma intorno a Nate c’è un altro film nel film che però, nessun ci racconta, il che a suo modo potrebbe anche non essere un difetto, quindi fine del mio Time Out da rompicoglioni, torniamo alla partita!
Bob Aldrich, cavalcando le sue facce brutte, popola la prigione di pendagli da forca notevoli, come il colossale Sansone, un gigante a suo modo buono fatto a forma di Richard Kiel, lo ricordate con i denti da squalo nella saga di 007. Il suo film però ruota attorno alla lotta di classe, prima tra la Superstar in galera e poi, dopo la proposta del direttore in fissa con il Football (non rugby come da doppiaggio), una bella partita guardie contro carcerati, ovviamente da perdere per non vedere la propria vita dietro le sbarre calare di qualità, insomma, perdita di privilegi, quelli che determinano una classe sociale piuttosto che un’altra.
Il tono della satira messo su da Aldrich è piuttosto evidente, nel microcosmo della prigione vediamo andare in scena una parodia, non solo della società occidentale divisa per classi, ma anche di quello che per molti americani è un ideale, il mondo dello sport a livello professionistico. Se già si sgomita e valgono accordi sotto banco illegali dietro le sbarre, figuriamoci dove non ci sono guardie, ma vere Cheerleaders al posto di carcerati effemminati in versione “Drag”, intanto vi ricordo l’anno di uscita del film, siamo qui a festeggiare i suoi primi cinquant’anni, nel frattempo la “pancia” del pubblico è cambiata.
Nell’ultimo atto, tutto il tono da commedia e la satira, lascia il posto ad alcune delle scene di gioco più epiche mai viste, anzi, alcune delle scene di gioco sul campo che hanno negli anni, fatto da modello a tutti i film a tema che sarebbero arrivati dopo. Ho poche certezze nella vita, forse come appassionato di cinema qualcuna di più, ma l’assoluta capacità di Robert Aldrich di costruire una scena, di darle il giusto ritmo e di selezionare in modo scientifico tutte le inquadrature migliori è una di quelle, quel finale per quanto intuibile e costruito per risultare il più intenso possibile, anche a distanza di cinquant’anni è ancora in grado di farvi esultare, vedere per credere.
Chiaramente quel finale funziona così bene perché va a braccetto con la conclusione dell’arco narrativo di Paul Crewe, personaggio che deve perdere la libertà per riguadagnarsi, un metro di campo alla volta, sia la rispettabilità che una certa pace interiore, non è un caso se la conclusione sia una sorta di cavalcata verso il tramonto, perché nessun più di Burt Reynolds poteva incarnare un eroe proveniente da un altro tempo, da un’altra epoca.
Il film di Bob Aldrich è un tale culto che negli anni si è guadagnato due rifacimenti più vari tentativi più o meno riusciti di imitazione del modello, quello ufficiale è uscito nel 2005, con un’altra storpiatura nel titolo (“L’altra sporca ultima meta”) che non ho mai visto perché ho fatto pace con Adam Sandler solo di recente, forse ora è arrivato il momento giusto per me di affrontarlo.
L’altro rifacimento ufficioso è il gustosissimo Mean Machine, talmente azzeccato nel ricalcare i temi, che ha potuto permettersi di cambiare stato di ambientazione e persino sport (anche se a suo modo, sempre di Football parla) senza perdere nulla. Insomma, scrivo sempre volentieri del cinema di Bob Aldrich, non potevo lasciare indietro quest’ultima sporca meta, anche questo compleanno lo abbiamo portato a casa.
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