C’è un cadavere, in questa bara schiodata, a cui il
vostro Quinto Moro era particolarmente affezionato, perciò oggi lo stile sarà
più da fanfara dolente che da pezzo rock. Di solito cerco di tenermi vicino
allo stile della Bara, ma questo pezzo ve lo scrivo col cuore in mano e le
cuffie nelle orecchie.
![]() |
Del film ve ne parlo così: senza |
“Radiofreccia” l’avevo mandato a ripetizione più
volte dalle parti dei miei vent’anni. Non lo rivedevo da tanto eppure ai primi
minuti ho capito più chiaramente perché il nostro amico Bruno Iori (detto Bruno
Iori), parlando agli ascoltatori della sua radio per l’ultima volta, decidesse
di spegnere il segnale un minuto prima di “farla diventare maggiorenne”.
In principio era “Radio Raptus”, nata diciotto anni
prima da una banda di amici ai tempi delle radio libere, quando cioè negli anni
Settanta il canale FM era stato liberalizzato lasciando spazio a chiunque avesse
la voglia e i mezzi per trasmettere. Nemmeno il nome originale è un caso, se al
buon Bruno viene in un vero e proprio raptus di follia: “o si fa la radio, o si
muore” (Garibaldi ne sarebbe fiero).
“Questa radio chiude perché è ora” dice Bruno. Quel
perché non mi era del tutto chiaro prima di mettermi a scrivere questo pezzo.
Perché non te lo spiega il film. Te lo spiega il tempo.
Diciotto anni meno un minuto. Un minuto prima di
diventare grandi. È la morte della gioventù. La fine di un’epoca, del tempo che
non torna. Dovevo diventare più vecchio e noioso, scavato dentro dal passaggio
dei trent’anni per arrivarci.
Come dice Bruno, diciott’anni prima lui e i suoi
amici avevano diciotto o vent’anni. Bruno ha più o meno l’età che ho io adesso (e
che avranno molti di voi che stanno leggendo). Lui e compagni sono cresciuti
negli anni Settanta di cui noi possiamo fare esperienza solo dai film, o dai
racconti di chi c’era, così Radiofreccia è una macchina del tempo che comunica
da un estremo all’altro dell’Italia a misura di paesello. È il racconto dei
piccoli borghi e comunità dove tutti si conoscono, dove le cose sono in
piccolo, più calde e accoglienti che nella dispersione delle grandi città dove
si ragiona per quartieri ma si può spaziare. Anche se poi la logica del
quartiere è deviata dalla stessa sgorbia logica di paese. Ché tanto le cose in
piccolo, più cresci e più si fanno strette, fino a stritolarti, come succede a
Freccia.
Ma di quel tempo e quel mondo, se siete nati nei
’70 o negli ’80, fieri tombaroli degni di questa bara, qualcosa l’avete
raccolta e ve la portate dentro. E se siete venuti dopo armatevi di pala che
c’è tanto da scavare.
![]() |
“Oh, non velo ripeto più eh! La Bara non è perfetta. Le bare nei funerali sono perfette. Belle o brutte, ma perfette.” |
Il film è chiaro da subito su cosa vuol essere: non
un piagnisteo da vecchidimmerda che si lamentano di come “eeeeeeeh ai miei
tempi”. È quella nostalgia che tira un cazzotto all’ipocrisia sbattendoci in
faccia la realtà di un ventenne morto d’overdose, buttato in un fosso. Non è
uno spoiler, Freccia è morto già al minuto 5. Nessun pathos sul perché la radio
si chiami così. Già lo sappiamo.
Freccia è un orfano che ha vent’anni, un lavoro e
una madre vacca. Ha nostalgia del padre e rabbia dentro. E’ un operaio lontano
dai tumulti di piazza. Uno che tira a campare. Ma non è Freccia il
protagonista. È il suo mondo che è come un tessuto fatto di tanti fili, tante
persone. E non è un film sull’amicizia perfetta che trionfa su tutto. C’è l’idealismo
e la vicinanza, ma pure il distacco e a volte l’indifferenza. Freccia e i suoi
amici sono imperfetti gli uni per gli altri. La scena più potente arriva nel
confronto tra Bruno e Freccia, quando si parla faccia a faccia dell’eroina, con
un capolavoro di montaggio e interpretazioni: scambio serratissimo di sguardi
che mette a nudo tutto il disagio di Freccia e i suoi più fidati amici che ne
sanno così poco. Perché l’amicizia è anche l’incapacità di capirsi e sostenersi
fino in fondo, tra buoni sentimenti e piccole cattiverie, chiusi nella speranza
che le cose rimangano sempre le stesse, storditi dal diventare adulti.
![]() |
Freccia fuma aspettando che l’introduzione finisca e la bara sotto i suoi piedi decolli |
Radiofreccia è una storia del borgo, tante storie che
si intrecciano, senza conoscersi fino in fondo e senza capirsi, e alla fine
resta solo il ricordo della strada fatta insieme, o degli incroci. È un po’
della storia di Bruno, il romantico che s’innamora dell’idea d’una radio per
far sentire la sua voce, uscendo dal guscio di bravo ragazzo fino a promuovere una
spedizione ladrona per far nascere il sogno. Ed è quasi un anarchico mancato,
l’amico più fidato di Freccia, quello a cui rivolgersi nel momento del bisogno.
Poi c’è Tito, il bonaccione più ingenuo e sfigato
del gruppo, coi suoi demoni, che nemmeno sa di averli finché non lo travolgono.
C’è Boris il cinico, lo stronzo che non si
smentisce mai. Quello che fa il superiore, catechizzando gli altri per farli
sentire delle merde.
Iena, che a dispetto del nome non farebbe male a
una mosca, tipico primo della classe, regolare fino al midollo. È quello che
non crede alle leggende metropolitane dei “pesci siluri” e animali esotici nei
laghetti dei ricconi nelle ville di campagna. Quello che non si ribella mai,
che non si tuffa nello stagno con gli amici. Il primo che si sposa (una specie
di onta nella logica del gruppo).
E c’è Freccia, che ha qualcosa del buono e del
cattivo di tutti. Con la sua rabbia e il suo vuoto. Quello a cui tocca il ruolo
di protagonista suo malgrado. È quello di cui la storia parla perché con la
morte è uscito dal racconto di una vita misera e banale, lasciando in eredità
agli altri il vuoto della sua presenza.
![]() |
Un giovane e sexyssimo Stefano Accorsi intento a spararsi una motosega mentale sul significato del film |
La storia di Freccia passa per uno degli espedienti
narrativi più usati: la voce narrante di un amico che ha condiviso col
protagonista carismatico parte della sua vita. Freccia è per Bruno quel che
Dean Moriarty è per Sal Paradiso in “Sulla strada”, quello che Martino è per
Alex in “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” (il film tratto dal libro omonimo
lanciò Accorsi, tra l’altro). Ma senza Bruno non ci sarebbe la storia di
freccia, dimenticata nel gorgo di tanti tossici morti in un decennio di
indifferenza. Perché in questo film c’è la voglia e l’onestà di raccontare quel
po’ di storia che all’Italia non è mai interessato raccontare: quella dei
tossici. Nel periodo storico in cui le siringhe affollavano i sottopassaggi dei
ponti, in cui i tossici in overdose attraversavano in barella i pronto soccorso
degli ospedali, in cui pezzi d’una generazione scomparivano nel silenzio il
cinema italiano trovava la sua identità nella commedia sexy. Oh, non è
moralismo contro le docce della Fenech e le battutacce di Alvaro Vitali, ma m’è
sempre rimasto sul gozzo che come unica presa di coscienza su buchi e overdosi il
nostro cinema si fosse fermato ad “Amore tossico”.
Perciò questa radio libera col nome di un tossico
morto mi ha preso da subito. Era già tardi, era il 1998, ma credo non sia tardi
per parlarne, ché a ricordare non è mai abbastanza tardi.
![]() |
“Ma l’hai invitato te ‘sto rompicoglioni che fa discorsi da vecchio e parla di tossici?”, “Tesoro, è un amico”, “La prossima vita scegliti amici migliori” |
Il film non idealizza la gioventù con l’aria mitica
di anni gioiosi e perfetti che non ci sono mai stati. La sceneggiatura – come
regia e montaggio – azzecca i tempi del racconto piazzando la diaspora degli
amici a metà film, così da mostrare un prima e un dopo. Le strade dividono la
compagnia cresciuta insieme, che si credeva indissolubile.
Radiofreccia è un racconto di perdita, del distacco
dagli amici più cari che prendono strade diverse, invischiati in storie che non
ti appartengono più. È così per Freccia e la sua deriva nell’eroina che lo
estrania agli altri. Per Iena il matrimonio. Per Tito il carcere. Bruno e la
sua passione per la radio, che non è tanto un capriccio adolescenziale quanto
una presa di coscienza. È diventare qualcosa, un’estensione di se stessi. La
scoperta e la voglia di avere qualcosa da dire, una voglia di crescere ancora
inespressa, che avanza. L’uscita dalla zona di confort dell’adolescenza senza
l’impatto duro con la realtà, perché la realtà la conoscevi anche prima. È
un’isola di salvezza dal terreno che ti frana sotto i piedi mentre stai
crescendo.
![]() |
E’ ora di affrontare l’elefante nella stanza. Beh, quasi. |
E adesso parliamo un po’ come si conviene alla
nostra Carabara, come direbbe uno dei nostri venticinque lettori.
L’elefante L’ippopotamo nella stanza: il
nome di Luciano Ligabue alla regia fa sgranare gli occhi ad alcuni e avvelena
il dente del pregiudizio ad altri. Il film è nato per l’intuizione di Domenico
Procacci alla lettura del libro di racconti “Fuori e dentro il borgo” scritto proprio
da Ligabue. Procacci, che con la sua Fandango si è fatto un nome nella
produzione italiana, all’epoca non era ancora così noto, e Radiofreccia è uno
dei suoi primi (e più grandi) successi e intuizioni. Intuizione che fa seguito
alla follia, dopo aver pensato a questo e regista, di lasciarlo dirigere aveva
respirato storie, cioè Ligabue, che si è lasciato convincere – a stento – pur
non sapendo nulla di come si gira un film, guidato dalla sola passione per il
cinema. Certo ha potuto contare su tecnici talentuosi, ma oltre al cast azzeccatissimo
della cricca di amici, la visione di un racconto coerente e sentito si
percepisce tutta. Questo non è un filmetto musicale che si aggrappa alle
musiche e la regia di Ligabue non è un pretesto promozionale, con quei tocchi
sperimentali da opera prima un po’ ruvidi che a me piacciono un casino.
Del Liga non sono un detrattore ma nemmeno un fan,
e la storia di come ho scoperto questo film meriterebbe un capitolo a parte. Materiale
per le guardie. Ve la racconto? Non l’ho mai raccontata a nessuno, giuro. Ma sì
dai.
![]() |
Spero non ci siano guardie (o amici delle guardie) all’ascolto |
Radiofreccia l’ho scoperto per colpa di una vhs
difettosa. Compro ‘sta vhs “X-Files – File 11 Patient X” a 17.900 lire (tutto
mi ricordo, tutto!) ma quella è più silente e pudica come un nastro vergine.
Rabbia, ira funesta, ché al di fuori degli eventi natalizi e compleannici, le
spese per film e fumetti venivano dai miei risparmi. Lire 17.900 erano un
investimento. Solo che due giorni dopo trovo la stessa vhs nel cesto di un
altro centro commerciale, a 4.500 lire. Che fare? Ce n’è una sola. Chissà se l’altra
la rimborsano. La compro.
Torno al primo centro commerciale per restituire la
vhs guasta, fare un cambio merce, ma il commesso niente, non ne vuole sapere.
Quella ho comprato, e quella uguale devo riprendermi. Non posso nemmeno tentare
di rivendermela a qualche amico, come coi fumetti doppi. X-Files non se lo fila
nessuno (adolescenza dura dalle mie parti). “Ma posso aggiungere la differenza”
dico. “Niente da fare” dice il commesso. ‘Sto servo dei padroni. Chino la
testa, annuisco, e lui fesso se ne va.
Davanti ho una muraglia di vhs invitanti, ma allo
stesso prezzo non ce ne stanno. Tutte più care. Quella che costa meno è
Radiofreccia, che fa 20.900 lire. Un film fatto da Ligabue? Sarà una cafonata,
penso, tipo Jolly Blu degli 883. Ma chissene. Almeno la canzone “Radiofreccia”
mi piaceva. E insomma, rimetto a posto X-Files, tengo sottobraccio Radiofreccia
e mi dirigo all’uscita senza acquisti. Sudori freddi davanti alla guardia
giurata. Occhiata fugace. C’è il pannello antitaccheggio. Nelle orecchie c’ho
un pezzo dei Punkreas che mi profetizza tutto quello che accadrà: suona! Che
pacco! le mani nel sacco!
Manette. Spiegazioni vaghe. Sbugiardamento.
Umiliazione. Galera.
E invece niente. Non suona. Esco. Ho perso due
chili e uno spallaccio sull’armatura dell’onestà. Ma ‘stigazzi.
A casa guardo il film il pomeriggio stesso. Me ne
innamoro. Tra le altre cose, mi farà da mappa per la storia del rock negli anni
successivi. Lynyrd Skynyrd, Iggy Pop, David Bowie, Doobie Brothers eccetera. Ma
questo è materiale per un Rock’n’blog. Vi basti sapere che il rock d’epoca è
stato usato col preciso intento di accompagnare questa o quella scena, e non
per buttare lì un pezzo figo.
L’uso della colonna sonora non originale è tra i
migliori che abbia mai visto, lontano dalla ruffianata facile. Vale pure per
gli elementi di contorno che raccontano un’epoca senza esasperare la nostalgia:
le cose che si facevano ai tempi, non erano più importanti di tutto il resto.
La scena di Tito e Freccia ai videogiochi è un doppio manrovescio al
romanticismo per i bei tempi andati della cultura pop.
![]() |
“Oh, ‘cazzo mi parli dei tuoi problemi che sto vincendo a Space Invaders?” |
La fotografia di Arnaldo Catinari è tanta roba. C’è
una cura maniacale nella composizione cromatica in tutte le scene. Fateci caso
al rosso colore dominante, legato al personaggio di Freccia, che sembra
rappresentare il centro delle sue passioni e preoccupazioni. Tappezzeria, abiti,
veicoli, elementi d’arredo. Rosso ovunque, della medesima tonalità (un rosso
fuoco, carminio), a volte contrapposto a un blu ceruleo meno invasivo. Il rosso
c’è anche quando non lo noti, ma appare sullo sfondo, sui costumi. E’ uno dei
simbolismi sparsi e mai urlati, come il flashback d’infanzia di Freccia con la
testa mozzata del pesce che fa il paio con la pesca al pesce siluro (che non è
mitologico ma esiste davvero), o la scena dell’ippopotamo, ingombrante
incarnazione di tutte le angosce che non si riesce a scacciare. Momenti
surreali che raccontano qualcosa dello stato mentale di Freccia, e ognuno può
leggerci qualcosa.
![]() |
Manuale del simbolismo: vita tra due fuochi |
La scena più famosa resta il monologo di Freccia
alla radio, il suo “credo” di valori fondamentali, che sono poi quelle robe che
ci aiutano un po’ tutti a tirare a campare, dalle prodezze di un campione
sportivo ai riff di un rocker, dalle legnate della vita di tutti i giorni a
quel po’ di senso da cercare in un libro o in un film. O in un blog.
E allora, visto che ho parlato abbastanza voglio
chiudere come ha fatto Radiofreccia:
Grazie a Quinto Moro per aver commentato il film, vi ricordo di passare a trovarlo sulla sua pagina.