Sta per uscire in sala “Rambo: Last blood” il quinto capitolo della guerra personale del soldato più famoso della storia del cinema e questa Bara Volante non può perdere l’occasione per ripercorrere tutte le tappe di una delle più grandi icone della storia del cinema.
Come abbiamo visto, il personaggio di Rambo nasce tra le pagine del romanzo Primo sangue scritto da David Morrell, un soggetto che attira subito l’attenzione di Hollywood fin dalla sua uscita nel 1972, perché offre un punto di vista nuovo sui reduci del Vietnam e in qualche modo porta la guerra (e i suoi effetti) direttamente in casa, sul territorio americano. Il piano è quello di farne un film drammatico sullo stile di “Taxi Driver” (1976) non a caso un’altra pellicola che parlava di un reduce che non riusciva più ad integrarsi nella società. Ma definire il passaggio da carta a grande schermo complicato, sarebbe peccare di ottimismo.
Il film viene offerto a tutti i registi e gli attori in circolazione, no sul serio, volano così tanti nomi che per trovarne di più toccherebbe sfogliare gli elenchi del telefono. Il ruolo da protagonista viene proposto a Clint Eastwood, Robert De Niro, al solito Nick Nolte (che li ha rifiutati tutti, da Superman a Jena Plissken), entrambi i Douglas, Michael e papà Kirk, ma anche a Paul Newman. Steve McQueen dovette rifiutare perché troppo vecchio, mentre Al Pacino fece lo stesso, quando gli vietarono di interpretare il personaggio in modo da renderlo completamente matto (storia vera). Nella disperazione di trovare un attore, bussarono a tutte le porte anche a quella del nostro Terence Hill che rifiutò perché per lui il film era troppo violento.
La mia combinazione preferita tra le scelte mancante, però, resta quella di Kris Kristofferson, identico al personaggio del libro (solo di qualche anno più vecchio) con la speranza che convincesse il suo amico Sam Peckinpah a dirigerlo, forse loro sarebbero stati quelli giusti per adattare fedelmente Primo sangue per il grande schermo.
Ma la svolta ha un nome e un cognome, anche piuttosto famoso: Sylvester Stallone. Fresco del successo di Rocky III accetta ad una condizione: vuole rimettere mano alla sceneggiatura. La produzione viene bloccata per sei mesi per permettere a Sly di modificare quanto già scritto da Michael Kozoll e William Sackheim, quando, poi, per la regia viene assunto Ted Kotcheff, la produzione parte senza guardarsi più indietro.
Qui bisogna avere chiaro in testa un dettaglio fondamentale: Sylvester Stallone ha sempre avuto delle idee molto chiare per i suoi personaggi e come sceneggiatore (e regista) non ha mai dimenticato qual è il suo pubblico di riferimento, lo stesso che premiandolo al botteghino ai tempi del primo Rocky, gli ha permesso di smettere di dormire sui divani degli amici (quando andava bene) e di ricomprarsi il suo bullmastiff di nome Butkus (storia vera).
Lo Stallone autore, ha sempre un occhio puntato verso il pubblico che in sala ci va per davvero, questo lo ha portato all’apice della sua fama nel 1985 a sfornare due pellicole di propaganda come Rocky IV e “Rambo 2” (a breve su queste bare), ma il tutto sempre all’interno della sua poetica dei perdenti iniziata proprio con il primo Rocky. Proprio per questo “First Blood” – da noi in uno strambo Paese a forma di scarpa solo “Rambo” per continuare la tradizione dei titoli ad personam dei film di Sly che con il tempo ha anche generato mostri – è la storia di un altro perdente, ma ha anche la volontà di provare ad intercettare, almeno sul grande schermo, i malumori del popolo americano.
Di tutte le guerre combattute dagli Americani che per non perdere il vizio ne hanno sempre qualcuna in corso da qualche parte nel mondo, quella del Vietnam ha fatto perdere idealmente la verginità al Paese della torta di mele e della libertà per tutti. I reduci della Seconda Guerra Mondiale sono stati ribattezzati “The Greatest Generation”, quelli che hanno combattuto contro un nemico malvagio e tornando a casa, sono stati celebrati come eroi, dando il via alla ricostruzione e ad anni di economia fiorente, i reduci del Vietnam, invece, accolti a sputi e insulti negli aeroporti erano la testimonianza vivente degli errori (e degli orrori) compiuti da laggiù e per questo abbandonati a loro stessi nel totale disprezzo, anche se molti di loro tornavano a casa feriti nel corpo, nella mente e magari vittime di qualche grave dipendenza da droga.
Nel romanzo di David Morrell, Rambo è il frutto dell’ambiente militare, una macchina da guerra che per via dei traumi subiti non potrà più integrarsi in una società che non ha nessuna intenzione di riprenderselo. Stallone decide di trasformarlo nel buono a tutto tondo della storia, la vera vittima di una sporca guerra che altri hanno voluto, per farlo gli dona un po’ più di contesto, delle motivazioni e soprattutto un nome, John – mai usato nel romanzo – che poi è anche il più comune negli Stati Uniti.
Stallone sposta così tanto l’attenzione su John Rambo da sacrificare tutta la bella caratterizzazione fornita allo sceriffo Will Teasle nel libro, ridotto ad uno stronzo intollerante molto ben interpretato da un Brian Dennehy in stato di grazia. Di tutto il passato del personaggio nel film resta poco o nulla, giusto le medaglie al valore ricevute in Corea che si vedono dietro alla sua scrivania in ufficio, fine della caratterizzazione.
John Rambo arriva nell’immaginaria cittadina di Hope (Nomen omen) non per vagabondare, ma per trovare un vecchio commilitone, lo fa con tutte le buone intenzioni, le tasche piene di roba (abitudine che condivide con il personaggio di Balboa), ma è costretto ad incassare la storia triste della morte di Delmar Berry, descritta in un modo drammatico, per mettere subito in chiaro che i tanto odiati reduci, sono persone proprio come il pubblico in sala.
Per Stallone, “Rambo” diventa una risposta cinematografica al pessimismo cosmico di film come Il cacciatore e “Apocalypse Now” (1979): se ti farò vedere in faccio il “mostro”, se gli darò un nome, una storia e ti racconterò quello che ha passato e deve ancora passare anche tornato in patria, farà ancora così paura?
Ecco perché “Rambo” da questo punto di vista è totalmente schierato, John arriva in città con ottime intenzioni e Teasle lo conduce fuori dalla sua giurisdizione senza nemmeno ascoltarlo («Qualche legge mi vieta di mangiare qui?», «Sì, la mia») e quando lo arresta per vagabondaggio e possesso del coltello, tutti i poliziotti devono essere per forza uno più stronzo dell’altro (infatti uno è Chris Mulkey, tra le facce da cattivo preferite da Walter Hill) e l’unico che prova a mostrare un minimo di empatia per Rambo – il rosso David Caruso, futuro Horatio Caine di “CSI: Miami” – verrà presto ridotto a più miti consigli con le cattive dallo sceriffo.
Armare Rambo con un gigantesco coltello (i critici seri con la pipa e gli occhiali che odiano i film d’azione, parlerebbero di simbolo fallico, ma questo è un blog serio. Si fa per dire) è un’altra scelta di Stallone che ha chiesto di disegnare l’arma ad uno specialista del settore, per renderla più multiuso possibile (storia vera) ed è un altro punto in comune con Rocky. Ricordate che lo “Stallone Italiano” piantava coltelli nelle pareti di casa, per usarli come appendiabiti?
“Rambo” sarà anche uscito negli anni ’80, ma ha uno spirito ed un aspetto da film degli anni ’70 (che per me resta il complimento migliore che si possa fare ad una pellicola), Ted Kotcheff è il regista giusto al momento giusto e anche grazie al miracoloso lavoro di fotografia di Andrew Laszlo, tutto risulta incredibilmente realistico, anche quando lo scontro tra Rambo e Teasle si trasforma nella versione in grande di un duello da film western, però con degli M60 al posto delle classiche colt a sei colpi.
Per arrivare a quel finale in crescendo il film prima ci fa completamente patteggiare per Rambo e lo fa con i piccoli dettagli: il modo in cui Stallone si tira continuamente su il colletto del giubbotto da reduce, inadatto ad affrontare le temperature locali, oppure con la famigerata scena della doccia, anzi sarebbe meglio dire dell’idrante, una tortura che a Rambo ricorda quelle subite durante la prigionia nel campo Vietnamita, a quel punto quando il personaggio fugge rabbioso – ma rigorosamente senza ferire nessuno dei poliziotti – il pubblico è già tutto dalla parte di John.
La fuga nei boschi è il momento che cambia la prospettiva, qui è Rambo ad essere nel suo elemento naturale e mi fa sempre sorridere che Orval (personaggio ridimensionato a comparsa rispetto al romanzo originale) sia interpretato da John McLiam, che in Nick mano fredda interpretava di fatto lo stesso ruolo: colui che portava i cani addestrati per inseguire il fuggitivi di turno.
“Rambo” trasforma per la prima volta in film d’azione, un tema che per gli Americani fino a quel momento, sarebbe stato un tabù raccontare, figuriamoci sotto forma di “action”. Stallone trova il modo di farlo rendendo il personaggio un buono assoluto, opposto a dei cattivi per i quali è impossibile patteggiare, infatti a metà film ormai il cambio di prospettiva è completo, si tifa spudoratamente per il reduce e le sue parole oltre ad essere il manifesto programmatico del personaggio (e di Stallone), fomentano: «Potevo ucciderli tutti, potevo uccidere anche te. In città sei tu la legge, qui sono io. Lascia perdere. Lasciami stare o scateno una guerra che non te la sogni neppure. Lasciami stare, lasciami stare».
Malgrado il totale controllo sul progetto, il primo montaggio del film non piaceva per niente a Stallone che pretese di rimontare tutta la pellicola e in particolare il finale (lasciatemi l’icona aperta, più avanti ci torniamo), raggiungendo il minutaggio “popolare” di 93 minuti, però, bisogna dire che il film ne ha solo giovato, perché davvero “First Blood” come i migliori film d’azione non ha un solo tempo morto, nemmeno quando introduce personaggi e dialoghi come, ad esempio, il Colonello Samuel Trautman.
Richard Crenna ha battuto la concorrenza di attori molto più blasonati, come Gene Hackman, Robert Duvall, Lee Marvin oppure Rock Hudson che ha dovuto rinunciare per sottoporsi ad un intervento al cuore (storia vera), ma di fatto con il ruolo di Trautman si è scolpito il suo ruolo nell’immaginario collettivo e nella storia del cinema. Se nel libro è soltanto un personaggio di contorno, nella filosofia di Stallone, il colonello non può che essere un personaggio che serve a far brillare Rambo ancora di più, infatti ogni volta che apre bocca snocciola una frase leggendaria come ti aspetteresti da uno che di fatto è il Creatore («Come ha fatto Dio in cielo a fare un uomo come Rambo?», «Non è stato Dio a fare Rambo, l’ho fatto io»).
Trautman è il dottor Frankenstein venuto in città a cercare la sua creatura, i suoi intenti sono chiarissimi «Io non sono qui per salvare Rambo da voi. Io sono qui per salvare voi da lui», infatti è anche l’unico autorizzato a provare a parlare con John, quello che sa che niente potrà fermare la creatura a cui lui stesso ha dato la vita.
Se rielaborando il classico di Mary Shelley, il cinema ci ha insegnato che la creatura veniva assediata dai villeggianti ottusi in un mulino, nel tentativo di distruggerlo con forconi e torce, qui accade con lo stesso con un bazooka e una miniera. Un tentativo inutile che non fa altro che scatenare ancora di più la furia del “mostro di Trautman” sulla città.
Vi ero debitore di un’icona lasciata aperta, la chiudiamo subito: un dettaglio del primo montaggio del film che Stallone odiava, era il finale scelto dalla neonata casa di produzione Anabasis, di Mario Kassar e Andrew G. Vajna. Originariamente la storia prevedeva che Rambo venisse ucciso per mano dell’unico in grado di farlo, ovvero suicidandosi, una scena che di fatto è anche stata girata e che per la gioia di Stallone, è stata odiata fortemente dal pubblico durante le proiezioni di prova, ennesima dimostrazione del fatto che Sly il suo pubblico lo conosceva bene.
Questo ha dato campo libero a Stallone, un attore ricordato giustamente per i suoi muscoli e per un’espressività limitata che, però, quando vuole (e quando la storia lo richiede) sa essere molto intenso. Il finale di “Rambo” non è una morte fisica per il personaggio, ma più che altro una morte emotiva, uno sfogo che segue ad un crollo mentale, un momento che di “action” non ha nulla, visto che si tratta di un monologo recitato da un attore (il libro invece si risolveva tramite l’azione vera), ma rappresenta un apice emotivo, uno dei miei preferiti di sempre che doppiato da Ferruccio Amendola aggiunge anche qualcosa alla prova maiuscola di Stallone. Io ve lo dico, lo sanno tutti a casa Cassidy, ma anche dove lavoro, se per caso qualcuno fa l’errore (gravissimo!) di dirmi «È finita», io parto subito con «Non è finito niente. Niente! Non è un interruttore che si spegne!» (storia vera).
Dopo un finale così intenso non serve aggiungere altro, basta il tema bellissimo e malinconico del grande Jerry Goldsmith, impreziosito dalla parole cantante da Dan Hill (It’s a long road / When you’re on your own…) che fanno per Rambo quello che Bill Conti aveva già fatto per Rocky e un fermo immagine sul primo piano di Stallone, il cui personaggio ancora una volta perde, ma di fatto vince con se stesso, di sicuro con il pubblico, perché al netto di un budget di 15 milioni di ex presidenti defunti stampati su carta verde, “Rambo” ne porta casa 125 regalando a zio Sly il suo secondo personaggio più celebre in carriera.
Per sentire parlare di “Stress post traumatico” bisognerà aspettare ancora un po’, ma almeno al cinema “Rambo” cambia un po’ le cose, anche se il successo traviserà buona parte del messaggio anti-militarista di fondo della storia, i reduci al cinema troveranno un loro spazio e il successo del film trasformerà la piccola Anabasis, nella leggendaria Carolco, la casa di produzione che ci ha regalato tanti film del cuore, prima di inabissarsi per sempre.
Tutto questo è iniziato con “Rambo” che tutti identificano con una fascia rossa che qui esattamente in linea con la filosofia della pellicola è assolutamente funzionale (per bendarsi una ferita alla testa), ma che di fatto comparirà per davvero solo a partire dal prossimo capitolo, quindi lasciatemi dare a “Rambo” un’altra fascia rossa, quella dei Classidy!
Per questo film è tutto, ma non per John Rambo che terrà banco sulla Bara Volante anche la prossima settimana, non mancante, come dite? La rubrica è finita? Non è finito niente. Niente! Anzi direi che abbiamo appena iniziato, guardate un po’ qui sotto?
Settembre sarà un mese dedicato a John Rambo, insieme a Lucius Etruscus abbiamo intenzione di far volare parecchio piombo rovente, con iniziative sui rispettivi blog tutte legate al personaggio. Troverete tutto riassunto nelle pagine qui sotto, per ora in aggiornamento, a breve piene di link a cui sparare… Cliccare! Volevo dire cliccare! La pagina riassuntiva del Zinefilo e la locandina d’epoca di questo film di IPMP.
Sepolto in precedenza venerdì 30 agosto 2019
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