«Quando ho detto che mi piacciono i bambini mi hanno accusato subito di essere un pedofilo» «Hai ragione, non c’è più rispetto per il cannibalismo».
Non ho idea di dove io abbia già sentito la freddura qui sopra, ma mi sembra molto in linea con il tema del film e, ci tengo a precisarlo, non sono tipo da perdere la testa per la prima francese che passa, ma Julia Ducournau merita un discorsetto a parte, il suo “Raw” è un esordio illuminante che ha fatto parlare di sé per i motivi sbagliati, ma non fatevi distrarre dal clamore, questo è un filmone! Probabilmente dovrà vedersela all’ultimo morso con Get Out per il titolo di Horror dell’anno.
Un po’ ovunque nel giro dei festival che contano dov’è stato presentato, compreso quello di Cannes, “Raw” ha lasciato sul campo svenimenti in sala, record di percorrenza della tratta poltroncina del cinema – tazza del cesso per vomitare, più una serie di malori generalizzati che non hanno fatto altro che accrescere inutilmente le attese per un film che è già bello di suo, senza bisogno di questa pubblicità aggiuntiva, nemmeno originale perché di horror che fanno sentire male la gente durante la proiezione ne spuntano con puntualità svizzera.
Lo dico subito per spazzare via il campo da ogni dubbio: se come me vi lavate le mani dieci volte al giorno, oppure siete fissati con l’igiene, sappiate che “Raw” vi metterà a dura prova. Adesso, in non vorrei ricadere nel becero cliché “Sì, ma in Francia non c’è il bidet”, però i giovani protagonisti del film, causa festacce nere e ormoni che fanno le sgommate nei piazzali hanno un serio problema di igiene personale, inoltre studiano in una scuola di veterinaria, quindi mettete in preventivo cani, cavalli e mucche non proprio mostrati come appaiono nelle riviste tipo “Il mio amico cagnolino piccino picciò”. Detto questo, però, no, “Raw” non è l’horror più atroce, sbudellante e grondante sangue che vi capiterà di vedere, se siete smaliziati appassionati del genere più sanguino e sanguinolento, qui non troverete niente che non avete già visto, giusto il pubblico di Cannes, abituato ad altri tipi di visioni può sentirsi male, questo c’era anche da aspettarselo, secondo me.
Bisogna anche dire che l’esordio di Julia Ducournau è un film bello schietto che non ha nessuna paura di dire (e mostrare) quello che deve senza timidezza, ma nemmeno con la puzza sotto il naso di chi arriva e pretende di insegnare a tutti come si fa. Non ho intenzione di raccontarvi per filo e per segno le scene del film, in giro è già pieno di recensioni scritte da gente più blasonata di me (ci va pure poco) che si è divertita ad elencarle tutte, sappiate che a livello di grand guignol, il film si gioca un dito mozzato e la scena più dolorosa a cui assistere è quella di una ceretta all’inguine che mi ha fatto pensare che la definizione “Sesso debole” sia abbondantemente fuori luogo.
“Raw”, per nostra fortuna, non ha bisogno di chissà che trovate horror per stupire, rappresenta un esordio davvero ispirato da parte di una regista che ha il gusto per il sangue, un manifesto amore per il genere, tante cose da dire e persino un umorismo (nero, nerissimo!) che non guasta mai. Di fatto, il film non è altro che il romanzo di formazione di una giovane ragazza che scopre se stessa e si mette alla ricerca del suo posto nel mondo, è “La vita di Adele” (2013) con il cannibalismo al posto dell’omosessualità ed era proprio dal film di Abdellatif Kechiche che non vedevo una protagonista femminile così ben scritta, recitata e credibile per cui fare il tifo e affezionarsi alle sue vicende.
Non so come si dica “Famiglia del Mulino Bianco” in francese, ma Justine (l’azzeccatissima Garance Marillier) ne ha una, rispettosissima del suo essere vegetariana e con tanto di cagnone biondo a completare il quadretto. Per di più, Justine è una specie di prodigio, al suo primo giorno nella scuola di veterinaria la sua fama la precede e qui iniziano i casini, visto che la scuola ha la sua routine di riti di iniziazione, in cui il più tranquillo prevede secchiate di sangue suoi nuovi arrivati, giusto per farli sentire subito le Carrie White della situazione.
In poco meno di 100 minuti, Justine coprirà l’arco completo che la porterà dall’essere la ragazzina timidina appena arrivata, alla macchina da guerra delle festacce nere che nel campus non mancano (manca solo il Toga! Toga! Toga! Poi le fanno davvero tutte), il tutto passando tra svariate prime esperienze sessuali, alcoliche, eh beh, anche cannibalistiche. Non aiuta avere una cotta per il compagno di stanza evidentemente omosessuale Adrien (Rabah Naït Oufella) e una sorella maggiore di nome Alexia (Ella Rumpf), ormai veterana della scuola, che un po’ la bullizza, un po’ si prende cura di lei e del suo aspetto e un altro po’ la maltratta per il suo bene, o almeno lei così dice.
Visto a breve distanza da Sette minuti dopo la mezzanotte, mi fa piacere vedere che in giro ci sono ancora interpreti in grado di utilizzare il cinema di genere (horror nello specifico, anche se nel film di Bayona l’elemento è meno marcato che qui) per mostrarci una credibile e coinvolgente crescita dei giovani protagonisti e “Raw” proprio questo fa: usa elementi horror, per raccontare una storia sull’importanza di imparare a vivere con se stessi, ad accettarsi (non nel senso Jack Torrance del termine) per quelli che si è, pregi e difetti, che siano minori come lavarsi le mani dieci volte al giorno, o maggiori come beh, nutrirsi di carne umana, ecco.
L’esordio di Julia Ducournau è illuminante anche per la capacità di ribaltare, probabilmente per sempre, la figura dei cannibali al cinema, fino a questo momento gli Antropofagi sono stati colti ed eleganti come Hannibal Lecter, oppure dei selvaggi del Borneo come rappresentati da Ruggero Deodato nei suoi tanti film cannibali, però sono sempre stati distanti dal pubblico, l’elemento della storia da cui scappare, o da tenere al sicuro in una gabbia o dietro una museruola.
Qui il ribaltamento è completo, i cannibali sono in mezzo a noi, anzi considerando quanto è facile immedesimarsi con Justine, viene quasi da pensare che siamo proprio noi, Julia Ducournau è bravissima a non scadere mai nel banale, avrebbe potuto utilizzare sangue e budella per fare il più classico dei parallelismi sulla condizione della donna, sceglie invece di tratteggiare una protagonista femminile incredibilmente riuscita, per trattare un tema con cui tutti quelli che hanno superato (o stanno cercando di farlo) l’adolescenza possono riconoscersi.
Un film che riesce a dire tutto quello che vuole dire, senza peli sulla lingua e senza bisogno di sottolineare i passaggi trenta volte, non METAFORONE, ma solo azzeccata metafora come nel riuscitissimo finale. Trovo parecchio clamoroso che non abbia utilizzato i già svalutatissimi zombie per farlo, ma i cannibali, portando una linfa tutta nuova e allo stesso tempo una nuova prospettiva al sotto genere dei film cannibali. Niente male davvero Julia, ottimo lavoro!
Difetti? Forse qualche passaggio in cui il confine tra metafora riuscita e METAFORONE fa qualche sbavatura, come la scena in cui la protagonista si risveglia (e insieme a lei la sua coscienza di sé e della propria natura) con i ragazzi che vagano assonnati nel campus all’alba e in sottofondo “Ma che freddo fa?” di Nada. Non sono uno di quelli che si esalta quando sente una canzone italiana in un film straniero, ma se i difetti di un film d’esordio così riuscito sono tutti qui, c’è da metterci la firma.
Il finale è bellissimo, da solo riassume quando la Ducournau conosca e abbia assimilato il genere, perché la rivelazione (non impossibile da intuire, ma non è quello l’importante) incorpora la tradizione del finale a sorpresa degli horror, ma fa arrivare il messaggio bello dritto sparato allo spettatore. Un finale efficacissimo che personalmente mi ha fatto sorridere, un sorriso dolce amaro, perfetto per concludere il romanzo di formazione della protagonista. Quando ho finito di vedere “La vita di Adele” avrei voluto entrare nel film per abbracciare la protagonista e dirle “Andrà tutto bene, troverai un modo” qui la stessa cosa, a costo di beccarmi un mozzico su una chiappa.
A Julia Ducournau, invece, non vorrei dire altro che grazie, perché abbiamo bisogno di registi con questa conoscenza e questo amore per i film di sangue e budella e con questo invidiabile piglio autoriale, merçi beaucoup Julia, anche da parte dei due cannibali della freddura iniziale.
Sepolto in precedenza lunedì 5 giugno 2017
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