Anno interessante il 1984, pieno di film notevoli e diventati di culto, secondo voi potevo lasciar andare via il compleanno di un titolo proveniente dall’Australia? Ma che scherziamo!? Erano anni che aspettavo di scrivere qualcosa su “Razorback”, i suoi primi quarant’anni sono l’occasione perfetta per farlo.
Va detto che l’Australia è un posticino interessante, paesaggi incredibili ma fondamentalmente qualunque cosa può ucciderti laggiù da quelle parti, considerando gli spazi e la scarsa densità di popolazione, ci potrebbero volere dei mesi prima che qualcuno sia in grado di inciampare nelle ossa del vostro femore rosicchiato. Ragni grandi come zaini da montagna, serpenti, scorpioni, ogni genere di insetto, per non parlare di canguri scazzottatori e se per caso vi venisse l’idea di farvi un bagno nell’oceano, squali bianchi. L’animale più tenero che hanno è il carinissimo vombato, che è fondamentalmente nato incazzato come un fan degli Slayer rimasto senza birra, ma ci credo! Vorrei testare il vostro umore se foste stati costretti da Madre Natura a fare la cacca quadrata.
Secondo voi, in un posto dove per sopravvivere come minimo devi essere George Miller, gli adorabili maialini possono non essere cinghiali selvatici a loro volta in grado di ammazzarvi in mille modi? Il primo a pensare che un horror dedicato ad un cinghiale australiano poteva funzionare è stato l’autore della sceneggiatura, Everett De Roche, lo stesso che ha firmato titoli di culto come “Patrick” (1978) o un altro horror animale uscito poco dopo “Razorback”, mi riferisco allo scimmiesco “Link” (1986).
In quarantani questo strambo “Monster movie” si è ritagliato un posto nei cuori del pubblico, anche grazie all’ondata di amore degli americani per l’Australia, la famosa Ozploitation, quel periodo in cui eri bello e figo se ti chiamavi Bruce, bevevi birra anche a colazione e somigliavi a Paul Hogan. Anche se a ben guardarlo “Razorback”, con il suo vendicativo cinghialone è anche un ottimo esempio di eco-vengeance, tema comunque molto caldo in quella porzione di pianeta, non solo perché ogni bestia del creato può mettere in dubbio il primato umano nella piramide alimentare, ma ha sfornato esempi anche di un certo livello di titolo perfetti nel loro ricordare a tutti la natura, selvaggia e pericolosa di beh, la natura.
Quando poi un film, anche a distanza di anni, ha potuto contare sulla sua versione da discount, che non allaccia nemmeno le scarpe a “Razorback”, vuol dire che un po’ di culto lo sei diventato, anche perché parliamoci chiaramente, Russell Mulcahy sembrava destinato al Valhalla cinematografico, anche se poi il meglio lo ha dato con il suo secondo lungometraggio, perché già il terzo scricchiolava rumorosamente.
“Razorback” è la storia di una vendetta, ma anche come detto un eco-vengeance in odore di pellicola anni ’70, che dimostra pienamente di aver imparato la lezione Spielberghiana de Lo Squalo, visto che il cinghialotto si vede sempre volutamente poco, non perché sia timido ma solo perché Mulcahy dimostra di sapere il fatto suo, avrebbe potuto essere il solito “videoclipparo” che al suo esordio, si gioca uno Slasher con un enorme cinghiale al posto del solito assassino mascherato, invece ci ha regalato uno strano ibrido, quasi sperimentale.
La storia inizia con un prologo bello tosto, un nonno si vede strappare via il nipotino in fasce dall’attacco brutale del razorback del titolo, un carro setoloso e con le zanne inarrestabile, troppo visto che nessuno crede alla storia del nonno, processato per direttissima e spernacchiato come un vecchio rincoglionito con una scusa patetica che lo rende anche oggetto di sfottò.
Cambio scenario (più o meno), dalla liberale New York arriva una giornalista, il suo obbiettivo è documentare le atrocità dell’industria australiana per la macellazione della carne di canguro. Riuscite a pensare a qualcuno di più fuori luogo di una giornalista ecologista in mezzo ai ruvidi cacciatori, lanciatori di freccette e bevitori di birra australi?
Ultimo giro, ultimo cambio di scenario, il marito della giornalista, che si lancia nella sua personale versione del walkabout, per ritrovare ‘a mugliera (tipica espressione australiana) e da qui, le tre trame finiranno per incrociarsi, ancora una volta con un occhio rivolto a Spielberg, vecchi cacciatori che l’hanno presa sul personale insieme a ragazzi di città, tutti sulle piste del mostro, che non nuota in mare aperto, ma corre in lungo e in largo, fiero rappresentante di una natura indifferente, se non proprio crudele.
Capisco che per sopravvivere in un posto dove l’animale più tenerino è il Vombato che caga cubi (perché tanto i Koala sono una rarità), tu, oriundo discendente di una genia di tagliagole di Albione, abbia come dire, messo su una pelle spessa come le setole del cinghiale del titolo. Ma se la natura è indifferente, l’umanità qui rappresenta la quota crudeltà della storia, per un film che visto più volte nel corso degli anni, mi sfugge sempre via dalla memoria per la sua trama, come dire, sulfurea, ma che si ricorda benissimo per un elemento chiave: l’estetica.
Russell Mulcahy era maestro in un arte ormai quasi del tutto perduta, quella del videoclip, ne ha sfornati di celeberrimi, A kind of Magic dei Queen oppure Hungry like a Wolf dei Duran Duran, ma l’elenco sarebbe bello lungo. Il suo approccio a questo horror è quello di uno che poteva dirigere grandi videoclip con una mano dietro la schiena, ma che si approccia alla materia per lui nuova, ovvero la regia di un lungometraggio, con uno stile che conosce bene.
C’è una lunga sequenza in “Razorback” in odore di walkabout, dove il protagonista vaga delirante e febbricitante nel deserto, una roba che non aggiunge davvero niente alla storia, ma che con la sua estetica impeccabile, tra fotografia e scelte di angoli di inquadratura, racconta di una natura strapotente, in grado di sovrastare in tutto l’uomo, osservando i suoi drammi indifferente, come il mucchio d’ossa a cui il regista dedica una riuscitissima inquadratura.
“Razorback” è anti eroico, da Spielberg non prende il finale con i bidoni gialli, ma ne regala una versione australe riuscitissima, ancora oggi, risulta un film quasi sperimentale, per quanto calato in un genere specifico, con un risultato finale spietato e artistico in parti uguali, più di quando la premessa di B-Movie con grosso porcellone lascerebbe intendere.
Insomma, a quarant’anni dalla sua uscita questo film fa ancora la sua beh, porca figura! Auguri “Razorback”.
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