Ci sono film che fanno la storia del cinema, ci sono film che tracciano per primi il solco che tutti gli altri seguiranno e poi c’è Mario Bava, che giocava in una categoria tutta sua. Oggi festeggiamo i primi cinquant’anni di uno dei suoi film migliori di sempre.
A differenza della maggior parte dei film girati da Bava, che per un motivo o per l’altro sono sempre andati incontro a difficoltà in fase di produzione, “Reazione a catena” è stato girato in condizioni quasi ideali, il produttore Giuseppe Zaccariello concesse quasi carta bianca a Marione che poté scrivere il film insieme a Franco Barberi e Dardano Sacchetti, prima che per un motivo o per l’altro si ritirarono entrambi, lasciando Bava solo insieme a Roberto Leoni a completare il copione, che si intitolava… Già, come si intitolava?
Nelle numerose intervista rilasciate da Lamberto Bava, il figlio che sul set ricoprì il ruolo di aiuto regista – prima di diventarlo a sua volta – e qui girò anche la sequenza della morte di Simone (Claudio Volontè), ha più volte dichiarato che anche ad anni di distanza, per fare una domanda a papà Mario, non bisognava chiedergli di “Reazione a catena”, perché Marione si ricordava di questo film più che altro con il titolo di produzione ovvero “Così imparano a fare i cattivi” (storia vera), che dei tanti titoli appioppati a questo film è uno dei più rappresentativi, ma su questo ci torniamo più avanti.
Resta il fatto che Mario Bava, modesto e autoironico al limite del masochistico, non si è mai detto veramente soddisfatto di nessuno dei suoi film se non di “Baia di sangue” “Ecologia del delitto” “Così imparano a fare i cattivi” “Reazione a catena” (storia vera), forse nella sua carriera il regista nato a Sanremo non aveva davvero capito la portata storica del suo cinema, poi francamente trovo assurdo che a cinquant’anni di distanza dall’uscita di una pietra miliare come questa, gli unici riconoscimenti al cinema di Bava arrivino non da uno strambo Paese a forma di scarpa ma dall’estero.
Tim Burton sono trent’anni che va in giro a dichiarare il suo amore per il cinema di Marione, quando Guillermo del Toro fa un horror gotico lo fa con Bava nella testa, se James Wan ed Edgar Wright strizzano l’occhio al Giallo all’italiana, lo fanno con l’uso dei colori tipico di Mario Bava, ma l’elenco degli estimatori stranieri sarebbe ancora più lungo. Va bene che nessuno è profeta in patria, ma se Sergio Leone è (giustamente) un orgoglio italico non capisco perché Mario Bava debba ancora essere meno famoso del suo allievo Dario Argento, cioè lo capisco, un autore legato al cinema horror deve essere per forza serie B (se non proprio Z), però non lo accetto, a questo proprio non mi rassegno.
Anche perché parliamoci chiaro, è universalmente riconosciuto il fatto che Mario Bava sia l’autore (perché di questo si tratta) che ha diretto il film capostipite del Giallo all’italiana ovvero “La ragazza che sapeva troppo” (1963), per poi tornare sull’argomento codificando per sempre le regole del genere con “Sei donne per l’assassino” (1964), fino a qui siamo tutti d’accordo no? Penso che sia ormai assodato e oltre ogni ragionevole dubbio, quindi non si offenderà nessuno se aggiungo che praticamente da solo, Mario Bava ha definito anche i canoni del gotico all’italiana con La maschera del demonio. Questo ci porta al 1970, un periodo in cui Bava – come detto oltre modo modesto – pensava che il suo cinema fosse superato, quindi desiderava dirigere un titolo molto più estremo. Il risultato fu appunto “Reazione a catena” quindi in estrema sintesi potremmo dire che tra i generi inventati da Bava, bisogna annoverare anche lo Slasher.
Ma proprio questo sarebbe una sintesi estrema e anche un po’ facilona, perché lo Slasher, che è un po’ il cugino strambo del Giallo all’italiana, ha avuto diverse influenze, sarebbe impossibile non tenere conto di Psycho nell’evoluzione del genere più grondante sangue di tutti, eppure con “Reazione a catena” Mario Bava da solo, senza il sostegno dell’industria cinematografica italiana ha anticipato e codificato dal punto di vista estetico, molte delle trovate da cui altri avrebbero pescato a piene mani.
Sempre per amore di sintesi, sarebbe comodo dire che i due amanti infiocinati tipo spiedino nel loro letto, sia una delle scene più iconiche di questo film, copiata di sana pianta da Sean S. Cunningham e Steve Miner in Venerdì 13 – Parte 2 – L’assassino ti siede accanto, ma sarebbe troppo frettoloso risolvere tutto in maniera così sbrigativa, perché con “Reazione a catena” Mario Bava ha fatto un lavoro ben più profondo e per certi versi irripetibile, creando un vero archetipo cinematografico che in tanti hanno imitato ma nessuno ha mai saputo replicare per davvero, non negli ultimi cinquant’anni per lo meno. Classido? Potete scommetterci!
Cosa vi dico sempre dei primi cinque minuti di un film? Ne determinano tutto l’andamento e infatti Mario Bava inizia “Reazione a catena” prendendo le mosse del classico Giallo all’italiana, l’impiccagione violenta della vecchia contessa è quando di più in linea con i classici del Giallo ci possa essere, la trama parte da una presunta faccenda di soldi, l’eredità per la proprietà della baia (di sangue, stando ad alcuni dei titoli per i mercati stranieri del film) in cui si svolte tutta la storia portata in scena da Mario Bava.
Con una certa dose di distacco, da non confondere con mero cinismo, ma più che altro con una disillusa rappresentazione del presente, Mario Bava come un entomologo – non è un caso se nel film il personaggio di Paolo Fossati interpretato da Leopoldo Trieste faccia proprio questo di mestiere – mette sotto il vetrino del suo microscopio (la macchina da presa), un gruppo di persone, tutte insieme in un unico spazio chiuso, a suo modo anche questo un tratto distintivo che diventerà canonico per il genere Slasher. Facile riconoscere la somiglianza tra la baia e Crystal Lake, specialmente quando entrano in scena dei giovanotti in preda agli ormoni e al “fascino della tedesca”, che sembrano il prototipo di quelli che Jason falcerà per tutta la sua carriera.
Eppure Mario Bava non si limita a semplice macelleria, la porta ad un altro livello. Nel Giallo il più delle volte gli omicidi sono basati sul dolore provato dalle vittime, un lento mostrare l’atto dell’omicidio che denota una certa dose di sadismo da parte dell’omicida che è quasi sempre un assassino a sangue caldo, mosso da qualche movente passionale o interesse personale. Inoltre il genere Giallo non può essere tale senza la parte investigativa, che siano poliziotti o detective improvvisati, il mistero e la sua soluzione rappresenta la pietra d’angolo su cui si posa tutto il Giallo all’italiana, in “Reazione a catena” tutto questo viene spazzato via da Mario Bava, che se no fosse chiaro, qui prigionieri non ne prende, perché punta dritto alla giugulare…
Se lo spunto iniziale è una faccenda di soldi, una critica all’avidità umana mai più raggiunta nel genere Slasher, ad un certo punto in “Reazione a catena” non ha più davvero senso tentare di capire chi sia l’assassino, perché il film diventa un massacro, un tutti contro tutti dove non si può parlare di “buoni” contro “cattivi” perché mai più che qui, vale l’antico adagio per cui il più pulito c’ha la rogna. Non ci sono personaggi positivi in “Reazione a catena” ci sono personaggi avidi, gretti, materialisti, pronti a tutto per i loro interessi insomma, ci sono gli esseri umani, nella loro forma più bassa e allo stesso tempo realistica.
Per questo dico che la critica sociale di “Reazione a catena” non è mai stata replicata, ma anche Mario Bava qui non si è lasciato andare ad un facile “mugugno” contro la società, ha proprio saputo utilizzare il cinema di genere (più di genere che mai, visto che si stava esplorando territori del tutto nuovi) per portare in scena la rassegnazione dello schifo che vendeva in giro, e proprio da quella rassegnazione nasce anche il trasposto (o la mancanza di esso) nella rappresentazione egli omicidi.
Chiunque sia l’assassino (o gli assassini) di “Reazione a catena”, non sono certo killer a sangue caldo, ma animali a sangue freddo che uccidono senza coinvolgimento personale alcuno, senza volto e senza emozione accumulano cadaveri uno sull’altro, come poco dopo faranno i Michaele i Jason che nel solco tracciato da Bava, si muoveranno inseguendo babysitter e campeggiatori con passo lungo e deciso.
Mario Bava, sostenuto dagli effetti speciali di Carlo Rambaldi porta in scena una “Baia di sangue” in cui personaggi uno più odioso dell’altro, si uccidono tra di loro con un distacco ben sottolineato dalle musiche (spesso fuori contesto) della bella colonna sonora firmata da Stelvio Cipriani, anche questa una trovata che ha fatto scuola e proseliti, Tarantino di questa tecnica ne ha fatto una cifra stilistica, ma fosse l’unica trovata che il vecchio Quentin ha pescato dal cinema di Bava!
Il titolo che Mario Bava preferiva (e ricordava) per questa sua pietra miliare era “Così imparano a fare i cattivi” che è un perfetto riassunto del comportamento degli odiosi personaggi che popolano il film. I Francesi invece conoscono questo film come “Baia di sangue” e anche qui, non vedo errori visto che la baia è al centro della storia e il sangue non manca, ma a ben guardare anche “Ecologia di un delitto” sarebbe perfetto, visto che nel suo guardare il comportamento umano come un entomologo farebbe con quello degli insetti, Bava sembra tracciare le regole estetiche di un genere neonato che ha largamente contribuito a creare ovvero lo Slasher. Ma se volete sapere la mia, chiedo scusa a Marine, ma non esiste un titolo più adatto di “Reazione a catena” per questo film.
Perché quel distaccato e brutale ammazzarsi gli uni con gli altri non solo è una delle più lucide rappresentazioni della nostra società, ma è una dichiarazione d’intenti. Se gli Horror di norma devono finire con una scena ad effetto, in modo da far uscire gli spettatori terrorizzati dalla sala, “Reazione a catena” non è affatto da meno, ma più che per rispettare una tradizione, il finale qui è la ciliegina sulla torta del discorso portato avanti per tutto il film da Marione Bava. Questa lunga catena di omicidi, questo tutti contro tutti grondante sangue, crea una reazione a catena appunto, che ha effetti su tutti, anche sui bambini, una mattanza che allarga il discorso, perché ad un certo punto il film termina con l’arrivo dei titoli di coda, ma la sensazione di quell’effetto domino, la reazione a catena del titolo resta ancora in movimento, come il sassolino che rotola giù da una montagna generando la valanga, che poi è quello che è successo, visto che dopo “Reazione a catena” non solo il genere Horror non è più stato lo stesso, ma se un film dell’orrore deve restarti incollato addosso anche oltre i titoli di coda per spaventarti davvero, signor Mario Bava, missione compiuta!
Non potevo proprio concludere il 2021 senza fare gli auguri ad uno dei più grandi horror di sempre, diretto da un genio che dovrebbe essere considerato tale, perché da cinquant’anni tanti hanno provato ad imitare il cinema di Mario Bava, ma nessuno è riuscito per davvero a replicare il cinico esperimento socioculturale noto con tanti titoli, il più famoso “Reazione a catena”, un film che davvero ci ricorda: così imparano a fare i cattivi.
Sepolto in precedenza martedì 7 dicembre 2021
Creato con orrore 💀 da contentI Marketing