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Resident Evil – The Final Chapter (2017): you can stand under my umbrella (Ella ella, eh eh eh)

Che lo si ami o lo si odi, bisogna fare i conti con i fatti: la saga di Resident Evil iniziata nel 2002 è l’unica serie di film tratti da videogioco che ha saputo portare a casa degli incassi decenti, in un continuo tira e molla con il gioco da cui è tratta, che nel corso degli anni ha abbandonato il genere “Survival horror” per abbracciare il genere Action, almeno a quello che mi dicono, io sono ancora fermo a Resident Evil 2, l’ultimo alla quale ho giocato per bene.

Fin dal titolo questo sesto capitolo nasce con l’intento di chiudere per sempre baracca, burattini e mostroni linguacciuti, mettendo la parola fine alla saga creata dai coniugi Anderson, Paul W. S. che scrive e dirige e Milla Jovovich nuovamente nei panni di Alice. Ve lo dico così lo sapete: da qui in poi seguono moderati SPOILER, niente di che, ma così siete tutti avvisati.

La landa desolata degli SPOILER.

La prima delusione da registrare è che la scena della Casa Bianca assediata dagli zombie che concludeva il capitolo precedente (Resident Evil: Retribution, 2012) qui non ci viene mostrata, anche perché questo capitolo finale, sembra nato con intenti differenti: l’idea è quella di portare a termine la storia di Alice, come ci viene chiaramente annunciato dalla voce off di Milla che in un paio di minuti riassume a grandi linea quanto accaduto nei capitoli precedenti.

Un “Final Chapter” in tono minore anche nel budget, 40 milioni di ex presidenti spirati stampati su carta verde che fanno di questo film, il secondo meno costoso (si fa per dire…) dopo il primo del 2002 che ai tempi di presidenti defunti ne costò 35. In America è andato così così, ma tranquilli, nei botteghini giapponesi ha fatto sfaceli, quindi anche a giudicare dal (non) finale, non è detto che non vedremo un settimo capitolo, anzi, quasi mi stupirei se non accadesse.

«Questi specchietti retrovisori sono strani, guarda come sembra grosso quell’insetto»

I punti di contatto con il film del 2002 ci sono anche nella storia e non solo nei costi di produzione. Torna di moda la giovane Alicia e l’intelligenza artificiale nota come Regina Rossa (qui interpretata da Ever Gabo Jovovich-Anderson, giusto per ribadire che “Resident Evil” è un affare di famiglia), per salvare il manipolo di umani rimasti sulla Terra, la nostra Milla questa volta dovrà tornare a Racoon City e, dotata dello stesso orologino di Jena Plissken, ha 48 ore di tempo per intrufolarsi nuovamente nell’Alveare, trovare l’anti-virus per debellare il micidiale T-Virus della Umbrella (ella ella eh eh eh) e scoprire qualcosa sul suo passato, in un raffinatissimo (ehm…) passaggio di sceneggiatura in cui la Regina Rossa dice proprio ad Alice: “Lo saprai quando sarai lì, non puoi dirmelo subito così risparmiamo tempo? No vero? Ok…”.

[SPAZIO-LASCIATO-LIBERO-PER-LE-VOSTRE-BATTUTACCE]

Il dialogo chiave, però, è un altro. Nel mezzo del gran casino, dopo aver già fatto saltare in aria un carro armato e preso a cazzotti svariati cagnacci mutati geneticamente, dall’originalissimo nome di “Cerbero” (fantasia, portami via), Alice riflette e ha quello che gli alcolisti chiamano il momento di lucidità (Cit.), la rivelazione è che quello che ha fatto in tutta la sua vita è stato correre e uccidere, quasi una riflessione meta-cinematografica che chiarisce ancora una volta la natura videoludica di questa saga.

La saga di Resident Evil riassunta in un fotogramma.

Allo stesso modo, i comprimari intorno a Milla hanno lo spessore della carta velina. Claire Redfield qui è più monodimensionale che mai, un gran peccato perché la bella Ali Larter si vede sempre troppo poco e qui è pura tappezzeria.

Ma in ogni caso, è sempre un gran bel vedere.

Allo stesso modo, l’esordio di Ruby Rose in questa saga non sposta moltissimo, l’Australiana tatuata di Orange is the new black è ormai lanciatissima nei ruoli action dopo xXx- Il ritorno di Xander Cage, non capisco molto cosa sia servito aggiungere il suo personaggio per usarlo così poco, considerando anche che da qualche parte tra il capitolo cinque e sei di questa saga, ci sarebbe Michelle Rodriguez, che risulta ancora “Missing in Action”, nemmeno fosse la figlia di Chuck Norris.

Non chiamatele “Quote rosa” se non volete che spargano una gran quota (rossa) del vostro sangue.

Ma si sa che questa saga è sempre stata il “Milla Jovovich Show”, quindi deve ruotare tutto intorno a lei, mentre la sua Alice è intenta a ruotare appesa a testa in giù, o a guidare le truppe nell’assedio che vediamo verso la metà del film, ecco, vediamo… Se ci riusciamo! Perché per qualche oscura ragione (visto censura? Bah), Paul W. S. Anderson opta per un continuo utilizzo d’inquadrature molto, troppo ravvicinate e, soprattutto, un montaggio estremamente confusionario che rende alcune scene davvero impossibili da seguire, se non proprio incomprensibili e basta.

Assurdo, perché Paul W. S. Anderson è sempre stato un drago nel dirigere e montare scene d’azione fatte come si deve, qui a tratti sembra la brutta copia di se stesso e lo dico con enorme dispiacere, perché a scrivere è davvero quello che è, ma dal punto di vista visivo mi ha sempre mandato a casa contento, anche nei suoi lavori meno celebri o celebrati.

La fissa di Anderson per le simmetrie centrali (e per la moglie).

In generale, mi è sembrato un ultimo capitolo davvero poco ispirato, dall’ultimo acuto di una saga che ha sempre regalato quintali di caciara, è lecito aspettarsi qualcosa di più, capisco che risulti quasi fisicamente impossibile fare di più di Resident Evil: Afterlife (2010), il capitolo più tamarro e sbruffone di tutta la serie, ma complice anche quel finale-non-finale, si arriva sui titoli di coda pensando: “Ok, tutto qua?”.

Nel finale, poi, Paul W. S. Anderson sembra calare la maschera, la serie di film nata dai videogiochi pare tornare alle sue origini, Alice è l’avatar che corre e salta e la vecchia Alice sembra il videogiocatore che la manovra, sto esagerando con le chiavi di lettura? Forse, anche perché più che rivelazioni e non-finali, la scena che ho apprezzato di più è lo scontro tra Alice e il Dr. Alexander Isaacs (Iain Glen, il Ser Jorah di Giocotrono), anche se, di fatto, è una versione riveduta e corretta del famigerato corridoio laser del primo film.

«Facciamoci una foto Iain, così ti ricordi com’eri prima che ti spaccassi la faccia»

Non avevo grosse aspettative intorno, ma quello che mi sono trovato davanti mi è sembrato poco ispirato e poco esaltante, anche se nei minuti finali, ho apprezzato di trovarmi di fronte ad un film con solamente donne come protagoniste, ultimamente Hollywood si affanna a sfornare personaggi femminili per i suoi film “Young adult”, senza rendersi conto che il modello originale esisteva già da diverso tempo, e allora forse è vero che questo “Final Chapter” ha qualcosa di meta-cinematografico, infondo le cloni di Alice sono già sparse ovunque nel cinema di oggi, forse il vero lascito di questa saga, vuoi vedere che ancora una volta, il bistrattato e spernacchiato Paul W. S. Anderson era il più avanti di tutti?

Arrivederci Alice, ci mancherai di brutto, ed ogni farabutto ammazzato resterà (Quasi-cit.)
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