mandano da sempre giù di testa, quindi perché non celebrarli entrambi in una
rubrica di musica e colonne sonore che serva a farvi alzare il volume mentre vi
dico la mia sul disco di Eddie Vedder.
affini sia più facile ritrovarsi, ad esempio non credo che sarei mai riuscito a
scrivere qualcosa di decente e non eccessivamente coinvolto su “Into the wild”
(2007), per fortuna lo ha fatto nel modo migliore Quinto Moro, ma qualcosa vorrei aggiungerla, quindi lo faccio qui
e siccome sono partito dagli spiriti affini, seguiamo questa traccia, vediamo
fin dove mi porta.
giovane Eddie Vedder pensavo che quel ragazzo non ce l’avrebbe mai fatta, troppo
incazzato con tutto. Potevo capirlo ma temevo che avrebbe fatto la fine di Andrew
Wood, oppure di Layne, di Kurt, magari anche peggio, Chris, ultimo e per certi versi anche più sofferto tra i cantanti
dell’area di Seattle che abbiamo perso.
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In un mondo di cantanti
che si atteggiano «Grrr! Guardatemi come sono arrabbiato!» lui lo era davvero,
venendo dato per scontato, mettici poi una certa ritrosia nell’atteggiarsi da
star a tutti i costi, per via di una certa riservatezza di fondo e il gioco è
fatto. “Riot Act” non è uno dei dischi più celebrati dei Pearl Jam, è piuttosto
oscuro nel suo elaborare la tragedia del Roskilde festival (attraverso la
bellissima “Love Boat Captain”) e non si nasconde dietro un dito quando è ora
di usarlo quel dito – medio – contro qualcuno (Bu$hleaguer) era il 2002 e il
nostro Eddie era ancora un’anima parecchio inquieta.
poco tempo dopo, quando per seguire la sua passione per il Surf, si è disperso
insieme ad altre cinque persone, nel bel mezzo di una tempesta al largo delle
isole Hawaii, ripescato da un provvidenziale pescareccio di passaggio da quelle
parti (storia vera). L’album successivo del 2006 intitolato “Pearl Jam” (anche
noto come “Avocado” per via della copertina) era ancora piuttosto incazzato ma
con un atteggiamento più positivo (con pezzi come “Life Wasted”) e ironicamente
anche una canzone sul surf (“Big Wave” che per altro faceva anche parte della
colonna sonora di “Surf’s Up – I re delle onde” del 2007).
appassionato di surf? Sean Penn, a cui Eddie Vedder ha fatto da testimone di
nozze (storia vera) i due sono amici dai tempi di “Dead man walking” (1995) dove
Eddie curava un pezzo della colonna sonora del film. Trovo abbastanza
significativo che dopo una vita passata a fare la corte alla famiglia McCandless,
per poter portare sul grande schermo la storia del loro figlio Christopher –
già raccontata nel libro di Jon Krakauer “Nelle terre estreme” – il vecchio
Sean abbia pensato proprio al suo amico Eddie.
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Sean & Eddie: B.F.F. |
In fondo Christopher
McCandless era un ragazzo arrabbiato con le storture di questa nostra società,
alla ricerca di un cielo perfetto – senza le scie degli aerei a macchiarlo – disposto
a cercarlo anche lontano, da qualche parte in Alaska («Alaska Alaska, o la
città di Alaska?»). La colonna sonora di “Into the wild” diventa per Eddie
Vedder l’occasione perfetta per il suo esordio come solista, un disco strano: undici
pezzi per 33 minuti di musica, troppo colonna sonora per un esordio, troppo
album solista per piacere davvero a tutti. Dal 2007 non ho mai smesso di
ascoltarlo, e Sean Penn dovrebbe offrire da bere ad Eddie ogni volta che lo
incontra, perché questi undici brani forse sono ancora la parte più solida del
suo film.
molto breve, per venire incontro al loro utilizzo nella pellicola, per
definirlo direi che ogni canzone di Vedder, all’interno del film di Sean Penn
diventa un po’ la voce narrante del protagonista, come accadeva ai pezzi di Cat
Stevens in un altro film ribelle nell’indole come “Harold e Maude” (1971).
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Dischi che non dovrebbero mancare nella vostra collezione. |
La canzone più lunga è la
bellissima “Hard Sun” che è quella che di solito colpisce di più ai primi
ascolti del disco, e quella che piace di meno sulla lunga distanza, almeno per
me è così. Anche per il semplice fatto che è una cover del cantante Canadese
Indio (nome d’arte di Gordon Peterson), proprio per questo “suona” un po’
diversa dagli altri pezzi. Ci sarebbe anche da raccontare di come Indio dopo
aver suonato varie volte con Eddie Vedder dal vivo, poi gli abbia fatto causa
per l’uso del suo pezzo, causa vinta da Vedder come ridere visto che i due
avevano regolare contratto, ma questa è solo una nota di colore a parte, per
fortuna le note che funzionano in “Into the wild” sono ben altre.
undici pezzi che compongono la colonna sonora raccontano in musica la storia di
Christopher McCandless, proprio come Sean Penn lo ha fatto utilizzando le
immagini, si inizia con “Setting Forth” pezzo che sa proprio di mettersi in
viaggio, con tutto l’entusiasmo che serve a chi vuole volontariamente perdersi
in mezzo alla natura, ma per certi versi anche “Far Behind” rappresenta
molto bene quel tipo di energia necessaria a lasciarsi tutto alle spalle.
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Ecco, così abbiamo anche il fotogramma del film dove compare il nome di Eddie. |
“No Ceiling” è
uno dei miei pezzi preferiti perché che mette bene in chiaro che l’amore per la
vita vagabonda, non ha bisogno di un tetto sopra la testa. “Rise” invece è un
pezzo dal respiro molto più ampio, il pezzo che serve a sottolineare come il
protagonista della storia che Vedder ci sta raccontando in musica, abbia quasi
trovato il suo posto nel mondo.
chitarra e sempre con quella sua voce unica, che è al tempo stesso coccole e
carta vetro, Eddie Vedder fa da narratore di questo viaggio. Pezzi come “Tuolumne”
oppure “The Wolf” sono improvvisazione organizzata, quella che ai Pearl Jam non
mancava di certo attorno all’anno 2007.
Vedder si conferma uno dei più adatti a portare avanti la tradizione delle grandi
voci americane, come Bruce Springsteen oppure zio Neil Young, che è canadese lo
so, ma di fatto ha tenuto a battesimo tutti i cantanti Grunge, tra cui proprio
Eddie, quindi è quasi una questione di famiglia.
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Un “ragazzo” che alla fine ce l’ha fatta: una foto a supporto della tesi. |
Tra i pezzi più riusciti
del disco di sicuro “Society”, che è l’altra cover presente nella colonna
sonora di “Into the wild” ma che con la voce di Eddie non solo rinasce a nuova
vita, ma diventa il simbolo della ribellione di McCandless. Ma il meglio per la
fine, “Guaranteed” dal 2007 è uno dei miei pezzi preferiti, anche solo per
quella frase che giustifica il titolo del pezzo: I knew all the rules but the
rules did not know me, guaranteed.
capitato di viaggiare da soli, non per forza in direzione dell’Alaska, ma in
solitaria per una vostra sincera esigenza di fuga. Ecco se lo avete fatto in
questo disco ci troverete qualcosa di quello spirito un po’ ribelle, anche se
il massimo è andarsene a zonzo, con Eddie Vedder nelle orecchie. Provare per credere.