Ci sono icone che riescono a superare anche il limite del formato cinematografico, talmente grandi da diventare patrimonio di chiunque su questo gnocco minerale che ruota intorno al Sole. Di tutti i protagonisti di questa élite di pellicole in grado di scaldare il cuore degli spettatori, Rocky è il più umano di tutti, un mito che in questi giorni torna in sala per celebrare i suoi primi 40 anni… Pensate davvero che mi sarei perso questo compleanno?
Esiste un enorme pregiudizio intorno al personaggio di Rocky Balboa, legato a filo doppio con la fama dell’uomo che lo ha sempre impersonato e creato, lo “Stallone Italiano” è assorto a vette di tamarrraggine assoluta, arrivato a rappresentare il meglio (e il peggio) dell’America Reaganiana e attraverso colonne sonore da battaglia, patrimonio mondiale dei lettori MP3 usati durante gli allenamenti di tutti, non fate i superiori: anche il vostro, come se non vi conoscessi mascherine…
Ma questa scalata “from zero to hero” è iniziata con un piccolo film in cui nessuno credeva, se non il suo sceneggiatore, una pellicola che, dopo quarant’anni, ha tutto per sorprendere quegli spettatori che proprio per quella (brutta?) fama da filmaccio d’azione con quel tamarro di Stallone come protagonista, hanno sempre snobbato, ancora oggi un film in grado di apici di malinconia infiniti alternati a momenti di esaltazione pura. Se l’idea dei Classidy è nata per celebrare i film fondamentali, “Rocky” deve per forza fare parte di questo club, un archetipo cinematografico bellissimo e invecchiato alla grande… Vai con il cartellone!
“Rocky” è un capolavoro non perché ancora oggi centinaia di persone sono pronte ad additarlo come il loro film preferito di sempre, nemmeno perché è nella classifica dell’American Film Insitute dei “Cento film americani più importanti di sempre (57esimo posto per la precisione), non pensate ai sette seguiti (contanto anche Creed), non contano nemmeno i due Oscar (Miglior film e miglior regia) e nemmeno per il primato personale di Stallone, nominato per la celebre statuetta sia come miglior attore che come miglior sceneggiatore, un onore che prima di lui era toccato solo a Charlie Chaplin e Orson Welles… Non propriamente gli ultimi della pista.
No, questo è tutto un extra, “Rocky” è un capolavoro perché è un film in grado di schivare come pugni quasi tutte le scelte di sceneggiatura facili e melense, optando sempre per la soluzione più difficile, ma anche la più efficace e giusta per la storia. Certo qualche bel diretto sentimentale c’è e lo centra dritto in faccia, ma il film arriva alla fine come il suo protagonista, in virtù di un cuore enorme, che da quarant’anni affascina gli spettatori e li convince a tifare per lui, un film fondamentale che ovviamente… Nessuno voleva produrre.
Nel 1976 Sylvester Stallone era un nessuno, con grossi problemi economici e l’allora sua prima moglie in dolce attesa, la sua sceneggiatura del film (scritta in tre giorni) veniva puntualmente rifiutata da tutte le maggiori case di produzione, per una semplice ragione: nessuno credeva in lui considerandolo bravo, ma non abbastanza, un brocco non meritevole di attenzione, proprio come Rocky all’inizio del film.
Solo la United Artists dimostra un minimo di interesse nella sceneggiatura, i produttori Irwin Winkler e Robert Chartoff offrono un bel po’ di ex presidenti defunti ritratti su carta verde per i diritti di sfruttamento, ma Stallone, sfidando la logica, le bollette arretrate e immagino anche le lamentele della moglie, rifiuta, il film si farà, ma solo con Sly nel ruolo di sceneggiatore e di protagonista, così o niente.
La United Artists fissa il budget sui due milioni, ma pretende uno a scelta tra Robert Redford, Ryan O’Neal, Burt Reynolds o James Caan come protagonista. Stallone agita il ditone a tergicristallo, mette le corna per terra e non si muove di un centimetro: «Ok hai vinto, ma ti diamo solo un milione, fattelo bastare». Basterà, considerato che al botteghino i dollari entrati nelle casse della UA sono stati: duecentoventicinque… Sì, ma milioni!
John Boorman rifiuta la regia che viene, quindi, affidata a John G. Avildsen, lo stesso che nel 1984 dirigerà il primo “Karate Kid”, ma questa… E’ un’altra storia. Avildsen è l’unico con un minimo di esperienza chiamato a tenere a bada una banda di gatti senza collare armati di buone intenzioni, ma nuovi del mestiere, come il compositore Bill Conti al suo primo film, il direttore della fotografia James Crabe che fino a quel momento aveva lavorato solo per la televisione, anche se non si direbbe, visto il risultato finale della pellicola.
Ma l’uomo della svolta è Garrett Brown, originario proprio di Philadelphia, pronto a volare ad LA per mostrare un corto da lui realizzato utilizzando la sua ultima invenzione: la steady-cam, una cosina che qualche gioia cinematografica in linea di massima l’ha anche regalata. Avildsen vede il corto e chiama Brown, stai fermo lì tu e quel tuo gioiello, tanto stiamo venendo tutti già nella città dell’amore fraterno per girare, prepara la pellicola che abbiamo poco tempo. Infatti, il film viene girato in 28 giorni, come ha dichiarato Stallone, il tempo di gestazione di un girino.
La steady-cam diventa fondamentale per rendere più dinamiche la appena appena (ma proprio due righe) celebre corsa sulle scalinate del museo dell’Arte di Philadelphia, di quell’altra scena piuttosto famosa dell’allenamento (icona da lasciare aperta che ripasso, oh se ripasso!) e del match finale, in cui quattro round sono stati girati per intero una volta con Garrett Brown e la sua steady-cam dentro il ring e una seconda dal punto di vista degli spettatori.
Per il soggetto del film, Stallone si è ispirato al match del 24 Marzo 1975 tra Chuck Wepner e Muhammad Ali (Bumaye campione, che la terra ti sia lieve…), i più pensavano che se Wepner avesse retto tre round con Alì sarebbe stato un mezzo miracolo, incredibilmente il pugile del New Jersey portò Alì fino all’ultima ripresa, la quindicesima, prima di incassare il KO tecnico sotto i colpi del campione, quindi nella testa di Stallone, il campione del mondo Apollo Creed, doveva essere qualcuno con lo stile, la potenza e la faccia da schiaffi di Muhammad Ali.
Durante l’audizione al grande Carl Weathers venne chiesto di boxare un po’ con Sylvester Stallone, convinto della sua prova Weathers parlando con John G. Avildsen, fa notare al regista come la sua prova sarebbe anche migliore quando potrà recitare insieme ad un attore vero e non il primo che passa preso a fare da sparring partner. Avildsen scoppia a ridere dicendo: “Guarda che quello è l’attore protagonista ed è pure lo sceneggiatore del film”. Risposta secca di Weathers: «Well, maybe he’ll get better». Dopo quella Stallone ha capito di aver trovato il tipo giusto per la parte di Apollo.
Adriana, la bella del film… |
…Ecco, così va già meglio dai! |
«…On the streets of Philadelphia» |
Quello che l’accademy award non capì nel 1976 (e a dirla tutta nemmeno nel 2015 per Creed) è che non esiste un altro bipede sulla Terra in grado di interpretare Rocky meglio di Stallone, perché Sly e Rocky Balboa sono la stessa persona, unico caso della storia del cinema in cui un attore ha interpretato (alla grande) lo stesso personaggio per sette volte di fila, senza mai vincere la famosa statuetta… E con questo riassumo tutto quello che penso degli Oscar.
Stallone ha messo nel personaggio tutta la sua frustrazione di attore considerato troppo scarso da tutti quelli del giro che conta e ha ricalcato il personaggio su se stesso anche nei dettagli, quando mostra ad Adriana il suo dito rotto, non è un effetto speciale, Stallone si era rotto davvero il dito giocando a Football al college, le foto del giovane Rocky, Stallone le ha portate da casa pescando dalle foto d’infanzia. Anche Butkus (Birillo stando al doppiaggio italico), il Bullmastiff che Adriana regala a Rocky nel corso del film, era il vero cane di Stallone… Questo spiega perché il cagnone rumoreggia felice ogni volta che Rocky entra in scena.
Se vogliamo dirla tutta, Rocky è mancino proprio come Stallone, infatti qualche anno dopo Rambo, impugnerà l’arco con la mano destra (l’arco si solleva con la mano debole), questo livello di sovrapposizione tra autore e personaggio, si rispecchia anche nella recitazione di Stallone, uno chiamato alla grande occasione, quella che capita una volta nella vita e, proprio come il suo protagonista, ha saputo andare contro i limiti apparentemente impossibili dell’impresa, ritagliandosi un posto nella storia del cinema, nella cultura popolare, della musica e negli spettatori. Qui stiamo celebrando i primi quarant’anni del film, ma sono sicuro che tra altri quaranta, ci saranno ancora persone pronte ad innamorarsi di questa storia e di questi personaggi, garantito al limone!
Questo perché “Rocky” è un film autentico, composto quasi interamente da cuore, per essere un dramma sportivo ha una componente emotiva gigantesca e non ha nessuna vergogna di mostrarlo, malgrado tutta questa emotività Stallone è stato impeccabile nel non cadere mai nello stucchevole, anche le parti meno credibili (per non dire del tutto implausibili) della trama vengono percepite come realistiche, non si tratta nemmeno di sospensione dell’incredulità, ma proprio di patteggiare completamente per i protagonisti della vicenda.
Questa vittoria è stata ottenuta da Stallone combinando dialoghi scritti come si scrive in paradiso e momenti in cui le parole vengono messe completamente da parte, in favore dell’azione in scena, che poi è quello che il cinema dovrebbe sempre fare. Un lavoro di one-two-punch da grande pugile che per tutta la durata del match/film, regala momenti straordinari.
Rocky non ha nulla del vostro classico eroe cinematografico, non è particolarmente bello e di sicuro nemmeno intelligente, anzi, non brilla per nulla per comprendonio, ha un solo talento nella vita, anzi due: sa fare a pugni e ha la testa dura, cosa che comunque non lo aiuta, infatti quando facciamo la sua conoscenza nella prima scena, vince sì il match, ma la poca gloria di quella vittoria in un circuito minore, va di pari passo con i movimenti sgraziati del personaggio.
Proprio i personaggi tengono banco, la parte romantica dovrebbe essere la sotto trama in un film sportivo, no? Sbagliato! “Rocky” si dimostra un film speciale anche in questo, infatti per moltissimi minuti, la boxe resta sempre sullo sfondo, se non fosse che Rocky non parla d’altro, sarebbe quasi assente, al centro di tutto ci sono Rocky ed Adriana, l’apice del loro rapporto è nella fantastica scena del pattinaggio, aaah! E ‘mo mettetevi comodi che ne parliamo!
Nelle intenzioni iniziali di Stallone, sulla pista avrebbero dovuto esserci 300 comparse impegnate a darci dentro con i pattini da ghiaccio, ma il budget consente di avere ben… Aspettate che controllo, una comparsa. Come si fa? Gli si fa interpretare il custode, il risultato, però, è un capolavoro di regia e sceneggiatura.
Quei due sono da soli sulla grande pista, una è tutta imbaccuccata nascosta sotto cappello e occhialoni, l’altro è talmente fuori luogo che non ha nemmeno i pattini, infatti corricchia sul ghiaccio accanto ad Adriana. In un film normale, vedremmo solo tante inquadrature ravvicinate sui protagonisti, John G. Avildsen, invece, riprende i due da lontano all’inizio e man mano che Rocky parla ed Adriana inizia ad ascoltarlo davvero, si avvicinano alla macchina da presa, in una scena di gran dinamismo, ma anche molto tenera.
Primo appuntamento: lei non parla, guarda solo la punta delle proprie scarpe, lui cosa fa? Si apre con la ragazza nell’unico modo che conosce: parlandole di quello che ama, ovvero la boxe, aprendole le porte del suo mondo, il tutto con il custode (pagato profumatamente!) che scandisce il tempo. Come a ribadire che Rocky ogni volta, ha una sola, breve occasione per trionfare: tutto o niente.
Poi ho sempre trovato geniale il (quasi) monologo di Rocky sul fatto di essere un mancino, lo descrive come la ragione per cui nessuno ha mai voluto dargli una possibilità vera (i mancini sono più pericolosi), ma anche come una scusa per giustificare il fatto che non abbia mai sfondato e che faccia il picchiatore per un mafiosetto asmatico… No, dai, trovatemi dei dialoghi migliori di questi forza!
«Sembri un pesce lesso vestito a festa» (cit.) |
Ed è qui che Stallone e Avildsen piazzano il loro colpo migliore, sempre alternando dialoghi e azioni mostrate come un pugile che cerca di fiaccare l’avversario. In un qualsiasi altro film, il protagonista confesserebbe i suoi timori, le sue paure, la sua ansia di non essere all’altezza, invece sceneggiatore e regista iniziano a caricare Rocky di motivi per reagire e proprio queste motivazioni sono il fuoco che alimenta Rocky nei suoi allenamenti, vi ero debitore di un’icona lasciata aperta no? Ecco, questo è il momento giusto per riprenderla.
Dopo la (bellissima) scena del litigio e della successiva riappacificazione con Mickey (gran momento che alterna dialoghi e azioni solamente mostrate), arriva quello che è a tutti gli effetti il marchio di fabbrica di Rocky: il training montage.
Trying hard now! Getting strong now! |
Come ci sentiamo tutti, alla fine di una sessione di allenamento di qualunque sport. |
Per concludere il discorso su questa storica scena, Bill Conti non aveva un titolo per il pezzo quando lo fece ascoltare per la prima volta a John G. Avildsen, fu proprio il regista a battezzarlo dicendo: «It should be almost like Rocky is flying now»… BAM! Ecco il titolo!
I dialoghi ritornano centrali soltanto nella scena chiave presente nel pre-finale del film, Rocky torna a casa e finalmente confessa il suo stato d’animo ad una assonnata Adriana, l’incontro con Apollo è molto di più del risultato finale, sarà il momento chiave della sua vita, se riuscirà a resistere e restare in piedi fino alla fine, dimostrerà a se stesso di non essere solo un bullo di periferia. Il singolo momento in cui qualunque spettatore non può non tifare per questo personaggio e la sua volontà ferrea di riscatto morale.
Anche in questa scena, personaggio e autore sono chiamati alla prova della vita, una sola occasione per dimostrare tutto, perché la produzione non era convinta dell’utilità di quel dialogo, Stallone di nuovo, corna per terra a ribadire che, invece, questo è il momento chiave del film. L’accordo anche per motivi di tempo e budget prevede un solo ciak a disposizione per Stallone, un’altra occasione unica per dimostrare il suo valore, tutto o niente. Se ricordate la scena, se l’avete vista… In linea di massima avete intuito com’è andata a finire: dritta nel montaggio finale, buona la prima (ed unica).
Il match con Apollo Creed poi, vabbè, manuale e stampo per tutti gli altri match di boxe visti al cinema, l’ingresso tamarro di Apollo, il cameo di Joe Frazier e la coreografia dell’incontro, ideata da Stallone (anche questa!), ripetuta all’infinito da Sly e Carl Weathers, sul set e fuori, procurandosi diversi infortuni reciprochi, con i primi due round mostrati per intero e Rocky che manda Apollo a terra (per la prima volta in carriera) proprio grazie al suo sinistro.
Ma è nel finale che “Rocky” scrive per sempre la sua leggenda andando su su su, nel Valhalla dei migliori film di sempre, anche nell’immaginario del pubblico. L’incontro è finito, Rocky è rimasto in piedi fino al quindicesimo, fatidico round, ha dimostrato a se stesso e al mondo di non essere solo un bullo. Qui Stallone e John G. Avildsen avevano idee differenti per il finale, scartata l’idea di far morire Rocky sul ring (un opzione lungamente considerata), Avildsen vorrebbe mostrare chiaramente il vincitore e concludere il film, Stallone è del parere che, invece, non sia quello l’obbiettivo finale. La vera conclusione dell’arco narrativo di Rocky e Adriana, girando la scena, Avildsen capisce guardando i giornalieri che manca qualcosa… Toh! Aveva ragione Stallone! Anche questa volta.
Nella scene definitiva, che immagino abbiate visto un paio di volte in vita vostra, Rocky e Adriana si cercano, anche la musica sul teso andante è un indizio del fatto che il match è finito, ma il film non ancora, mentre inizia l’annuncio finale dell’arbitro, Adriana tenta di raggiungere Rocky e il verdetto che incorona Apollo Creed vincitore del match ci viene mostrato frettolosamente, l’attenzione è tutta sui protagonisti, d’altra parte per due ore abbiamo seguito le loro vicende, quindi anche in questo affollato finale si fa il tifo per loro.
“Rocky” da quarant’anni affascina, il suo lascito è enorme pari solo al suo peso nella storia del cinema, il numero di film (anche non a tema puramente sportivo) che sono stati influenzati da questo capolavoro non si contano, un film unico in costante equilibrio tra i toni bassi e malinconici dei perdenti del mondo e quelli altissimi del riscatto sociale. Per essere un film di pugni, ha tantissimo cuore ed è anche il motivo principale per cui ancora oggi dopo quaranta candeline, chi scopre questo filmone per la prima volta resta sorpreso per questa sua natura da piccolo film dal cuore enorme. Quello che dovrebbe essere un muscolare film d’azione, in realtà ha un cuore che fa provincia, ma d’altra parte, anche il cuore è un muscolo, no? Auguri Rocky per i tuoi primi quarant’anni, per altro portati alla grande! Trovate la locandina d’epoca del film sulla pagine di IPMP.
«Nessuno colpisce duro come la vita»