Anche se ormai tutto il pianeta ha già visto il secondo capitolo di Creed, in uno strambo Paese a forma di scarpa tocca aspettare ancora qualche giorno, quindi oggi termino il mio allenamento con l’ultimo capitolo della rubrica… Win Rocky Win!
Vi ricordate la scena di “L’aereo più pazzo del mondo… sempre più pazzo” (1982) in cui nella sala d’aspetto dell’aeroporto si vede il poster di “Rocky XXXVIII” parodia della locandina di Rocky III, ma con un pugile vecchio e decrepito al posto di Stallone? Ecco, una singola gag comica che da sola può spiegare meglio l’atmosfera con cui è stato accolto l’annuncio dell’uscita di “Rocky Balboa”.
L’insuccesso al botteghino di Rocky V è stato un diretto in faccia per Stallone e il suo personaggio più famoso, per dirla come farebbero in questo film, zio Sly aveva ancora dentro delle cartucce da sparare e fin dal 1999 ha provato a riportare il pugile al cinema. Nella prima bozza di sceneggiatura, Adriana era ancora parte della storia, il figlio Robert Balboa sarebbe dovuto andare a servire nell’aviazione e il nostro “Rock” sarebbe dovuto essere una sorta di Mickey, impegnato ad allenare giovani pugili in una palestra di provincia, il titolo di lavorazione era “Rocky VI: Puncher’s Chance”, ma nessuno ha mai davvero voluto produrlo.
Gli anni sono passati, ma il vecchio leone aveva ancora qualcosa da dire per riscattare l’insuccesso di Rocky V, un altro match per dimostrare ancora una volta il suo valore, ancora una volta la vita di Stallone e quella del suo personaggio simbolo, sono talmente sovrapposte per cui capire dove inizia uno e comincia l’altro è impossibile, ma quando i Revolution Studios in collaborazione con la MGM (detentrice dei diritti sul personaggio) mettono sul tavolo 25 milioni di ex presidenti spirati, Stallone ha di nuovo la sua occasione per dar voce a quella bestia che ha dentro, sempre per usare le parole del suo personaggio nel film.
Personalmente non ci credevo più nemmeno io, le uniche notizie che trapelavano dalla produzione erano relative ad un infortunio collezionato da Sly durante la preparazione atletica (durata sei mesi) per tornare nei panni di Rocky, notizie dai più accolte con la stessa ilarità che viene riservata al personaggio nel film, insomma il mondo era davvero pronto a farsi quattro risate con il pugile decrepito del finto poster di Rocky XXXVIII.
Da parte mia, ho reagito un po’ come Paulie, te la senti Sly? Liberati di questa bestia che hai dentro e poi vai avanti, sono andato a vedere il film senza aspettative e con l’aria di chi va ad incassare una sconfitta che proprio come dice Paulie qui, è la condizione che richiede più coraggio in assoluto. Per motivi puramente anagrafici questo è stato l’unico film della saga di Rocky che ho visto al cinema, di fatto, sono un po’ come il commentatore a bordo ring della HBO che prima del match dichiara di essere cresciuto guardando Rocky e non avrebbe mai pensato di fare la telecronaca di un suo incontro, giusto per dare l’idea di quanto l’immedesimazione sia un fattore in questa pellicola. A fine film sono uscito con le farfalle nello stomaco e un’espressione più ebete del solito, so solo che se ci fosse stata anche una scalinata, probabilmente l’avrei fatta di corsa con “Gonna fly now” nella testa.
Parliamoci chiaro: nel film l’età di Rocky non viene mai dichiarata, si parla di over cinquanta, anche se nel 2006 le candeline sulla torta di compleanno di zio Sly erano un bel sessanta tondo tondo, non esiste un singolo modo al mondo per rendere credibile, o anche solo interessante a qualcuno, l’idea di un nonnetto che sale sul ring contro il campione del mondo dei pesi massimo, è una scommessa persa in partenza, uno scontro così ha un solo finale possibile, proprio per questo per fare un film da questo spunto, bisogna costruire una pellicola vera a lato del match finale e firmare una storia che funzioni, anche se su di essa aleggia l’inesorabile fine. Stallone messo alle corde, come Rocky fa un “come back” sorprendente concludendo nel modo migliore possibile l’arco narrativo del suo celebre e amatissimo personaggio.
Cosa vi dico sempre dei primi cinque minuti di un film? Che ne determinano tutto l’andamento, “Rocky Balboa” non inizia con il riassunto del capito precedente, come tutti gli altri film della saga, inizia con Tarta e Ruga nel loro acquario, ormai gigantesche, vecchissime, ma ancora in forma come Rocky che si alza, fa cinque trazioni a freddo e con la giacca addosso e come ogni giorno va sulla tomba di Adriana, si capisce che ci va sempre perché ha una sedia in legno che ripone sul ramo di un albero vicino. Con lui il solito Paulie, ma sua figlio Robert (Milo Ventimiglia, scelto per la somiglianza con Stallone e con lo sfortunato Sage Stallone) non si è fatto vivo nemmeno questa volta.
Sì, perché come dice lui, suo padre fa una grande ombra e Robert da quell’ombra non è mai uscito, è andato a fare qualcosa di opposto a quello che faceva sua padre, un qualche lavoro d’ufficio con numeri e computer vai a capire che prevede la cravatta e non di certo i guantoni, ma tra i due i rapporti sono ancora al minimo sindacale.
Rocky dal 1995 gestisce il suo locale, chiamato “Adrian’s”, un ristorantino italiano in cui il nostro va in scena ogni sera, intrattenendo gli avventori con le stesse tre o quattro storie dei vecchi tempi andati, “Glory Days” per citare Bruce Springsteen e malgrado sia tutto sommato sereno nella sua routine, quel passato continua ad aleggiare, proprio come il fantasma dei ricordi di Adriana, una presenza per tutta la durata del film, non è un caso se il film inizia e finisce al cimitero, sulla tomba del personaggio interpretato da Talia Shire, perché “Rocky Balboa” è Stallone, ormai indistinguibile dal suo protagonista, che fa i conti con il suo passato, spara le sue ultime cartucce e poi lascia andare Rocky con un ultimo saluto sentito, quello che era mancato dopo Rocky V, infatti nell’ultima inquadratura del film, Rocky ormai sereno, semplicemente sfuma all’orizzonte.
Ma quel passato è un macigno, lo dice anche Paulie (Burt Young) da sempre la coscienza del protagonista, che segue Rocky nel suo annuale percorso lungo la città di Philadelphia, nel giorno della scomparsa della sua Adriana, una Via Crucis che serve a tenere le proprie ferite aperte, in tutti i luoghi della loro storia, il vecchio negozio di animali ormai chiuso e, soprattutto la pista da ghiaccio, quella stessa pista da ghiaccio che fa da sfondo alla mia scena preferita del primo capitolo e che ora non esiste nemmeno più, perché come dice Rocky “Quando passi così tanto tempo in un posto, diventi quel posto” un po’ come Stallone è diventato Rocky (o viceversa, ormai non si capisce davevro più). Ma, come sempre, ci pensa Paulie a far riflettere Rocky, lo fa sempre con il suo modo grezzo: prima prende per i fondelli l’idea stessa della pista da ghiaccio («Il ghiaccio è stupido e chi ci va sopra ancora più stupido») solo per poi ricordargli che non si può vivere nel passato.
Dal presente, invece, arriva Mason “The Line” Dixon (il vero pugile professionista Antonio Tarver, anche se a guardarlo sembra più un giocatore di basket) campione in carica giovane e talentuoso, ma di certo non amato dal pubblico, perché la boxe non è più quella epica di un tempo e i suoi match durano tutti troppo poco, contro Dixon vanno tutti giù dopo un paio di round, tanto che nessuno lo prende davvero sul serio.
“Rocky Balboa”, fin dal titolo punta l’attenzione sull’uomo, con un’onestà intellettuale e un’umiltà invidiabili, degna degli atleti che ben conoscono i propri limiti, ma anche di Stallone, la cui intelligenza (ma anche la capacità di scrivere) è sempre stata offuscata dal suo stato di divo, anche un po’ tamarro diciamolo. Rocky qui è lo stesso personaggio che conosciamo, quello che sconfiggeva IL MALE (nel senso americano del termine) con i pugni, ma anche una rappresentazione della stato della carriera di Stallone, portata in scena con un’onesta disarmante, la faccenda della ragazzina che vuole scroccargli da bere al bar è qualcosa che è successo veramente a Stallone (lo racconta nel commento audio del DVD di Rambo) e il ciccione maleducato che insulta Marie (Geraldine Hughes), un Ivan Drago dei poveri, molto poveri.
Per un numero di minuti lunghissimi, “Rocky Balboa” funziona alla perfezione solo grazie a personaggi realistici scritti molto bene (i dialoghi di questo film, filano alla grande) il rapporto tra Rocky e Marie è sempre in equilibrio, quasi paterno mai macchiato dal bacetto che sarebbe stato fuori luogo. Tra le visite al canile, in cui “Rock” si porta a casa un vecchio cane (poi ditemi che i cani non somigliano ai padroni) e la sua colonna sonora malinconica, “Rocky Balboa” (personaggio e film) è mesto, ma con la testa alta, pesto, ma fondamentalmente sereno, sembra seguire l’adagio per cui da vecchio non vorrà sembrare più giovane, ma solo più felice e se non fosse per quella bestia dentro, quelle cartucce caricate a rabbia come le chiama Paulie, Rock sereno lo sarebbe davvero.
Mi disarma ogni volta la cura per il dettaglio, ad esempio, Pedro Lovell che torna ad interpretare Spider, il vecchio pugile che ha un tavolo fisso nel ristorante di Rocky con la cena sembra offerta, perché ora è un rottame, ma un tempo era qualcuno e il rispetto per il vecchio campione è tutto. Non ve lo ricordate Spider? Era quello che si scambiava cortesie con Rocky nella primissima scena del primo capitolo, ci sono saghe che ucciderebbero per avere una coerenza interna così.
Inoltre, con la consapevolezza dei propri mezzi tipica degli atleti, questo film si affida a dati reali per giustificare quello che ormai per il pubblico è un elemento fantastico, se non addirittura fantascientifico (un vecchio pugile che affronta sul ring un giovane campione), quindi viene citato l’incontro vinto da George Foreman (45 anni) nel 1994 contro il campione in carina Michael Moorer (26 anni), ma soprattutto il The Super Fight (1970), ovvero la simulazione realizzata al computer che ha determinato che se si fossero scontrati tra di loro all’apice della carriera, Rocky Marciano avrebbe battuto Muhammad Ali al tredicesimo round. Vi lascio immaginare i commenti di Ali che, ovviamente, non sono mancati.
La simulazione al computer del film, oppone il miglior Balboa al giovane Dixon e nomina “Lo stallone Italiano” come vincitore, un match fittizio che, però, accende il pubblico, torna a far parlare di boxe, ma girare i maroni e Dixon e provoca un attacco di bruxismo a Robert Balboa, proprio ora che tutti stavano iniziando a dimenticarsi del suo celebre padre, lui torna a far parlare di sé.
Il tempo e la medicina, devono aver curato i problemi all’occhio (Rocky II) e i danni neuronali (Rocky V), perché Rock ottiene la licenza per tornare a combattere e cosa fa? L’unica cosa logica: va da Paulie, la sua vera coscienza, per farsi dare un’ideale benedizione. Per sconfiggere quella bestia dentro che ancora muove la coda, ci vogliono quella cartucce caricate a rabbia e se i momenti intensi tra Rocky e Paulie in questa saga non mancano, quello di “Rocky Balboa” è il mio preferito, perché Stallone e Burt Young indossano i loro personaggi con enorme naturalezza ed entrambi sono all’ultima curva di un lungo arco narrativo che hanno percorso insieme.
L’altro momento in cui anche da spettatori, sentiamo quella belva dentro di cui parla Rocky, è il faccia a faccia tra padre e figlio dove Rocky quasi cita le sue stesse parole del primo film, dimostrando di essere maturo («Né io, né tu, nessuno può colpire duro come fa la vita») e poi manda a segno uno di quei discorsi che funzionano solo alle orecchie di chi vuole ascoltarli davvero, la risposta di Rocky a tutte quelle persone sempre in cerca di qualcun altro su cui scaricare le proprie colpe, con uno Stallone un briciolo, ma proprio appena appena intenso.
A questo punto, “Rocky Balboa” con la sua sincerità disarmante, ha mandato a segno così tanti momenti da averti già conquistato come spettatore, in un’ora buona, come direbbe il commentatore del match finale, viene davvero da pensare: «Benvenuti signori, nel mondo di Rocky!» e quel mondo prevede che, ad un certo punto, la musica abbia un ruolo e tocca al mitico Tony Burton aizzare la folla ricordando a Rocky che per il suo match non potrà contare sulla sua velocità perché quella è stata portata via da padre tempo, ma solo sulla sua forza fisica, dovrà sganciare addosso a Dixon delle bombe… E chi sarà ad innescare tutte queste bombe? Il fomento e anche il successivo training montage? La risposta la sapete anche voi.
L’ultimo colpo di genio, non posso che definirlo così, mandato a segno da Stallone in questo film, è proprio il match finale, il momento fantascientifico che dopo un’ora di film e un training montage (in cui Sly è stato ripreso a tradimento mentre si allenava davvero, storia vera) sarebbe, in teoria, ancora la parte scontata e risibile del film, ma a questo noi spettatori crediamo un po’ di più, anche grazie al fatto che Stallone decide di dirigerlo come un vero incontro, ad un certo punto lo schermo cinematografico diventa la diretta di HBO quando manda in onda gli incontri di boxe.
Una scelta realistica, quasi metacinematografica che funziona perché Rocky e Stallone ormai sono indistinguibili uno dall’altro e il film risulta così realistico e onesto che vedere Rocky in un match alla televisione potrebbe essere quasi la normalità.
Ecco perché la scena è stata girata (con quattro finali possibili, per non far calare l’entusiasmo del vero pubblico radunato) in un vero casinò di Las Vegas, utilizzando il formato delle dirette della HBO, il logo sullo schermo, i commentatori della trasmissione e anche ospiti, tipo Mike Tyson che presente ha pensato di iniziare davvero ad insultare Mason Dixon come lo vediamo fare nel film (storia vera). Capite da voi che a questo punto, distinguere tra attore e personaggio non è più possibile, si fa il tifo per Stallone che torna per riconquistarsi il cuore del pubblico? Oppure si tifa davvero per Rocky, come si sono messi a fare gli spettatori a Las Vegas che di loro spontanea iniziativa (e su imbeccata della produzione) hanno innalzato il grido “Rocky! Rocky! Rocky!”? Lo lascio decidere a voi, ma quando il cinema ha questa forza, si fa presto a dimenticare la parodia di Rocky XXXVIII e ci si esalta!
Al terzo round non ride più nessuno, Stallone dirige tutto con un drammatico bianco e nero da cui spunta giusto qualche colore, dei pantaloncini o del sangue, sapete perché tutto questo funziona? Perché è terribilmente onesto per essere qualcosa che storicamente nasce come fittizio (ovvero il cinema stesso), qui Stallone sale davvero sul ring giocandosi il tutto e per tutto anche a livello di credibilità, questo suo scommettere su sé stesso, credendoci, ma con grande umiltà rende davvero impossibile non patteggiare ancora una volta per lui.
La vittoria morale arriva anche se l’esito del match e segnato, già scritto, anzi proprio sceneggiato, perché “Rocky Balboa” in poco più di cento minuti, porta sullo schermo discorsi poco trattati sulla vecchiaia, affrontando anche un rapporto padre e figlio su cui aleggia, un po’ come il fantasma di Adriana, quello di Sage Stallone, morto troppo presto nel 2012.
Quando Rocky nel finale preso di peso dai suoi e chiamato a prendersi quell’ultimo applauso, non importa più se quello che abbiamo davanti è Rocky o Stallone, l’importante è che quella bestia dentro che da spettatori possiamo capire perché è anche un po’ la nostra, se ne sia finalmente andata, sfogata per sempre, ma soprattutto l’importante è gettarsi subito a terra a fare flessioni, perché se dovessero riaccendersi le luci in sala, almeno potremmo dire che stiamo sudando dagli occhi per l’immane sforzo di essere così duri come siamo, sapete è difficile avere una certa immagine di estrema durezza da mantenere con film così.
Capolinea gente! Anzi no, questa rubrica non era altro che il lungo training montage in vista del match vero, “Creed II” è in arrivo, prossimamente su queste Bare!
Sepolto in precedenza giovedì 17 gennaio 2019
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