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Rogue One – A Star Wars Story (2016): come fare pace con Guerre Stellari

«La Rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La Rivoluzione è un atto di violenza.» Mao Tse-tung.

Non volevo darmi un’aria intellettuale tutto d’un colpo e nemmeno citare la frase iniziale di Giù la testa a caso, ma la citazione di Mao è molto adatta per parlare di questo film.

Come sapete non ho questo gran rapporto con Episodio VII – Il risveglio della Forza, un film che mi ha molto deluso, tanto che ho passato un anno a discuterne con chiunque (Ciao Valerio), non arrivando ad una conclusione, continuo a pensare che sia una paraculata, vedremo se con i film successivi, riusciranno a creare una trilogia coerente, ci spero, ma in ogni caso ho trascorso l’ultimo annetto da separato in casa con Star Wars, pensate che dalla delusione ho pure smesso di guardare Star Wars Rebels che mi stava anche piacendo.

Fin dal suo annuncio, questo “Rogue One” mi ha dato dieci ragioni per attenderlo e altrettante per temerlo, mettiamo pure il nome del regista, la presenza di un cast mica male tra le cose positive, mentre la scottatura di Episodio VII e il fatto che i prequel sono storie molto in voga, ma raramente davvero valide, tra i punti negativi.

Quella sporca (mezza) dozzina.

La cosa incredibile di “Rogue One” è che avrebbe potuto sbagliare tutto trasformandosi in un disastro, invece manda a segno tante di quelle trovate positive da riuscire in un intento mica da ridere, quello di mandarmi a casa felice dopo aver visto un nuovo film di “Star Wars”, scusate se è poco.

Per quei due nella galassia che ancora non lo sapessero, “Rogue One” è il primo spin-off della saga creata da Lucas, anche se ufficialmente è un prequel, visto che si colloca prima di “Guerre Stellari” o come si chiama oggi Episodio IV – Una nuova speranza. Quindi, trovo abbastanza buffa tutta questa ansia da SPOILER che sembra il più grosso problema che affligge la razza umana. Calma, tiriamo tutti il fiato, avete visto “Guerre Stellari”? Bene, allora sapete già come finisce “Rogue One”, solo se siete stati intrappolati nella Grafite per gli ultimi quarant’anni, siete giustificati. Ogni fan di questa saga sa benissimo del sacrificio che c’è stato dietro al recupero dei piani di costruzione della Morte Nera, una delle storie “non narrate” più affascinanti di questa saga.

Running as fast as they can, Iron Man lives again! (Cit.)

Da vecchio giocatore di avventure grafiche della LucasArts, mi hanno sempre sfiziato i giochi ispirati al mondo di “Star Wars”, tipo “Dark Forces”, ma anche i più recenti “Jedi Knight” e, perché no, “Battlefront”, la cui particolarità era presentare personaggi inediti, incastrando le loro vicende con quelle note della trilogia originale, anzi scusate LA TRILOGIA e magari facendo fare qualche comparsata illustre ai personaggi principali.

“Rougue One” fa proprio questo, inoltre, dà una logica ad uno dei più grossi buchi di Guerre Stellari, sfruttandolo per far cominciare la trama, avete presente la Morte Nera? La più grande arma di distruzione della galassia che si può comodamente distruggere sparando un colpo nel punto giusto? Non era un difetto di progettazione, tra gli ingegneri Imperiali uno ha volutamente inserito questa debolezza per favorire la caduta dell’Impero, il suo nome è Galen Erso, ha il faccione monolitico di Mads Mikkelsen (l’Hannibal Lecter della serie tv) e una figlia di nome Jyn Erso (Felicity Jones), abbandonata nella mani dell’estremista ribelle Saw Gerrera (Forest Whitaker), quando papà venne costretto con le cattive a tornare a lavorare alla stazione da battaglia dal simpaticissimo (si fa per dire…) Orson Krennic (Ben Mendelsohn), ambizioso capo della divisione armamenti dell’Impero.

Morte Nera, per il cattivo che non deve chiedere mai.

Se c’è una cosa che Star Wars ci ha insegnato è che i rapporti padre/figlio sono sempre al centro di tutti i casini intergalattici che tuo papà sia un contrabbandiere rubacuori, un Jedi passato al lato oscuro della Forza, o il capo progettista della Morte Nera, finisce tutto a colpi di “Blaster”, stando al nuovo (tremendo) doppiaggio della celebre arma.

Bisogna dire che non parte benissimo questo “Rogue One”, dopo la classica “Tanto tempo fa in una galassia lontana lontana…” (ma niente scritta che sparisce verso l’orizzonte questa volta) c’è parecchia carne al fuoco, ci vengono introdotti i personaggi chiave che nel corso del film non hanno ulteriore spazio, quello che ne esce più danneggiato di tutti è proprio Saw Gerrera, anche per colpa di un doppiaggio del tutto inadatto e urticante, ma su questo punto conosco un Ribelle che fa al caso nostro, l’uomo giusto per questo tipo di lavoro

Saw Gerrera, con il suo nome che ricorda volutamente Che Guevara, qui ha davvero poco spazio, ma il suo passato era già stato raccontato, perché si tratta di uno dei pochi personaggi dalla serie animata “Clone Wars” che trova spazio in un film della saga, l’altro era il generale Grievous. Mi viene da pensare che tutti i personaggi di quel cartone soffrano di gravi problemi respiratori, decompressione tra piccolo e grande schermo? Bah, chi lo sa.

Ora lo sappiamo, anche i cartoni animati invecchiano.

Per nostra fortuna, con il passare dei minuti “Rogue One” trova il suo ritmo, Gareth Edwards dimostra di essere cresciuto anche lui a pane e Star Wars, fin dalla prima inqaudratura si dimostra subito a suo agio e la cosa che mi ha fatto più piacere in assoluto è stato vedere che il regista di “Monsters” (2010) e del sottovalutato “Godzilla” (2014) ha saputo imprimere un tocco personale alla storia, optando per una palette di colori più oscuri, molto adatti alla storia, mi rifiuto di utilizzare la parola “Dark”, per colpa di Christopher Nolan ora non la posso più sentire, a meno che non si parli di gruppi con Robert Smith alla voce.

Avevo dei dubbi anche sugli sceneggiatori, non tanto per Tony Gilroy che ha scritto tutti i “Bourne” e diretto quello sbagliato (Legacy), più che altro, per Chris Weitz che ha scritto Cenerentola di Kenneth Branagh e diretto un “Twilight” (Gulp!), devo dire che i due hanno fatto un mezzo miracolo di equilibrismo, riuscendo a sfornare personaggi riusciti, anche se pensati per accontentare il reparto marketing. Ad un’occhiata veloce i protagonisti di “Rogue One” potrebbero essere etichettati come: protagonista giovane e carina che va di moda ad Hollywood, Han Solo e Chewbecca in versione discount, un Pakistano (Riz Ahmed quello di The Night of) e un paio di Cinesi perché sono il mercato più grosso del mondo e vanno onorati.

«Tecnicamente parlando io sarei Inglese, come Alec Guinness»

In realtà, i personaggi funzionano alla grande, sarà un dato da poco, ma ho già imparato tutti i nomi, non posso dire lo stesso di tutti i personaggi di Episodio VII, quello che ho trovato davvero riuscito dei ribelli di questo film, è che risultano incattiviti dalla guerra, la dimensione del male si misura anche sugli effetti che esso ha su quelli che lo combattono, in “Rogue One” non ci sono eroi, al massimo anti-eroi che sparano alle spalle ai traditori della causa dopo avergli detto “Andrà tutto bene”, che calcolano in percentuale la possibilità di disastro, o quando va bene (si fa per dire…) si gettano contro il nemico alla cieca, affidandosi solo alla fede (“La Forza è con me ed io sono un tutt’uno con la Forza” già frase di culto).

Ho sempre fatto un po’ a pugni con i film interpretati da Felicity Jones e Diego Luna, invece qui li ho trovati entrambi molto azzeccati, la Jones nei panni di Jyn Erso in particolare, sarà pure giovane e carina come Rey, ma non è nemmeno da paragonare, è una che le cose deve guadagnarsele, una che anche se dice “So come distruggere la Morte Nera!” nessuno le crede, è una signorina che si tira su le maniche e fa il lavoro sporco, mica una squinzia con il papà famoso, che prende in mano una spada laser e diventa subito un Jedi, insomma, il tipo di personaggio che piace a me, che ci volete fare, sono nato ribelle.

Rebel Rebel, how could they know? Hot tramp, I love you so! (Cit.)

Questi personaggi sono talmente sul genere “brutto sporco e cattivo” che persino la quota simpatia del gruppo, il droide, di fatto, è un’arma rubata al nemico e riconvertita in puro stile guerriglia, K-2SO, inoltre, ha un pragmatismo più vicino a quello dei pessimisti che al freddo calcolare dei Robot, per la maggior parte del tempo sottolinea le (basse) percentuali di successo e ci ricorda, in uno dei pochi casi della storia del cinema, che trovare dei file nascosti non è affatto una cosa semplice (specialmente su una nave spaziale grande come un pianeta) e che bisogna tenere conto delle dimensioni dei file per inviarli.

«Cavo dati impigliato? Questo è Star Wars non Ritorno al Futuro»

K2 ha il piglio di uno che andrebbe da Marvin, l’androide paranoide della Guida Galattica di Douglas Admas, gli metterebbe una mano sulla spalla e gli direbbe: “Fai bene ad essere depresso, hai lo 0% di possibilità di uscire vivo dalla tua vita”. Per queste ragione fa ridere, ma è anche quello che ho trovato simpatico da subito, la sua resistenza finale è coinvolgente, che poi è la parola chiave parlando della sporca (mezza) dozzina di “Rouge One”, lasciatemi alzare un pallone ai “Browncoat” là fuori, i fan della serie tv “Firefly” che sono gli unici che possono davvero capire che i personaggi di Alan Tudyk sono evidentemente destinati prima a farci ridere e poi a stenderci con un groppo alla gola che levati, ma levati proprio.

«I am a leaf on the wind. Watch how I soar» (Cit.)

Menzione speciale doverosa per Donnie Yen, che giova ricordarlo, è il vero motivo per cui la Cina è stato l’ultimo Paese al mondo che ha potuto vedere Il Risveglio della Forza, perché era già prevista in patria l’uscita di Ip Man 3, noi a Natale cinepanettoni, loro Donnie Yen (storia vera!). Che qui nei panni di Chirrut Îmwe, riesce ad essere il primo artista marziale orientale, a non fare la figura della scimmia ammaestrata in un blockbuster americano, vendicando così gli sprecati Iko Uwais e Yayan Ruhian, ma, perché no, anche il Tony Jaa di Fast and furious 7.

Il suo Chirrut è una “Furia cieca” devoto alla Forza, i combattimenti che lo vedono protagonista funzionano, anche se probabilmente Donnie Yen non avrà nemmeno sudato per realizzarli, li avrà considerati gli esercizi che fa tutte le mattina quando si sveglia prima di fare colazione.

Chissà come rimbombano le mazzate dentro quel casco.

Il suo personaggio riesce a fornire il giusto livello di epica, in una scena in particolare, ma anche a fornirci la prova concreta che gli Stormtrooper imperiali hanno una mira veramente di merda, sono anni che li vediamo colpire qualunque cosa tranne che il loro bersaglio, ora abbiamo le prove: sono più ciecati di Chirrut!

Con due occhi non ti vedo, con due piedi ti spezzo.

Donnie Yen forse ancora non lo sa, ma è appena entrato nel club di Alec Guinness, ovvero il grande attore che verrà ricordato dal grande pubblico solo per la sua parte in “Star Wars”, Sir Guinness ci ha messo parecchi anni a fare pace con questa fama, sono sicuro che Donnie con il suo ego smisurato ci metterà molto meno tempo.

A proposito di grandi attori del passato, nel film trova spazio anche Tarkin, interpretato da Peter Cushing nel film del 1977 e qui rimpiazzato da un sosia vitaminizzato a colpi di computer grafica, normalmente sono contro questo tipo di operazioni, però qui mi ha fatto piacere vedere che si sono impegnati usando della buona CGI, che ha evitato risultati imbarazzanti come quello di Jeff Bridges ringiovanito (male) in quella porcheria di “Tron: Legacy”.

«Nun me somiglia pe niente!» (Cit.)

Inoltre, la presenza di Tarkin non è una strizzata d’occhio ai fan della vecchia guardia, ma un ruolo concreto che, proprio per questo, non mi ha infastidito, a differenza di un altro personaggio celebre di questa saga, di cui non vi rivelerò il nome, ma che compare proprio nell’ultima inquadratura del film, che, invece, ho trovato davvero una forzatura in odore di pupazzata che avrebbero tranquillamente potuto evitare, a volte meno è meglio.

Visto che siamo sull’argomento personaggi celebri della saga (non è uno SPOILER, compare anche nella locandina del film), l’entrata in scena di Darth Vader funziona alla grande, specialmente quando il compositore Michael Giacchino accenna la “Imperial march” di John Williams e come direbbero gli Yankee: And the crowd goes banana!

Un’estate al mare. Stile balneare Imperiale…

Sapete che non ho apprezzato per niente l’esagerato “Fan service” (scusa Sergio, non lo dico più giusto) di Episodio VII, mi sono posto il problema mentre guardavo “Rouge One” ho proprio pensato: perché questo mi sta piacendo e quell’altro mi ha irritato e basta? Anche qui c’è qualche strizzatina d’occhio ai fans, la prima arriva dopo 25 minuti di film (piccola, ma presente, giusto per dirne una), mi sono dato una risposta: tutto il secondo atto del film ha l’obbiettivo d’incastonarsi in un’iconografia già esistente e molto nota, cosa che è ben diversa dal pescare dal passato, per mettere in scena qualcosa e venderla come “nuovo”, virgolette obbligatorie.

Gareth Edwards, lo ammetto candidamente, è stato il principale motivo per cui ero quasi più interessato a questo “Rouge One” che a Il risveglio della Forza, il ragazzo sa davvero come gestire un film ad alto budget: più i dettagli da portare in scena sono tanti e massicci, più lui diventa una macchina da guerra dietro la cinepresa, motivo per cui la battaglia finale è grandiosa, state pure tranquilli che ricorderemo la battaglia di Scarif come una delle più riuscite dell’intera saga di “Star Wars”, lassù nell’empireo dei nostri cuoricini insieme a quella di Endor o di Hoth.

«Arruolati nell’Impero dicevano, vedrai posti bellissimi dicevano!»

Il tutto senza perdere il gusto per un tocco quasi autoriale, ho trovato azzecatissimi Jedha City con i suoi echi mediorientali, una città polveriera pronta ad esplodere, perché piegata da un assedio militare che, volendo, potrebbe essere letto come una metafora, non voglio buttarla giù troppo dura, ma Edwards è riuscito nei limiti di un blockbuster natalizio PG-13, a ricordarci che la guerra è brutta e cattiva e che chi la combatte rischia di perdere tutto, anche l’umanità per la causa, in questo il monologo finale di Cassian è credibile, travolgente, ma è la negazione del classico discorso motivazionale pre battaglia a cui Hollywood ci ha abituati tutti.

Le forze di occupazione Americane Imperiali.

Questa sporca (mezza) dozzina di partigiani che combattono per la libertà sono pronti all’estremo sacrificio, roba da farti patteggiare totalmente per loro, tanto che ad un certo punto ti devi chiederti: «Siamo sicuri che questa roba sia davvero stata prodotta dalla Disney?»

I personaggi sono così azzeccati per questo tipo di storia e Gareth Edwards fa un lavoro talmente ottimo, che riesci addirittura a dimenticarti il dettaglio (non proprio insignificante) che tu sai già come finirà questa storia, che poi è l’unico modo possibile per giustificare l’esistenza di un prequel.

Si passa dal groppetto in gola (storia vera) al fomento per la battaglia, al totale coinvolgimento di un finale che di Disneiano (e Natalizio) ha poco (aggiungerei per fortuna), per poi incastrarsi perfettamente nei binari che conosciamo, motivo per cui tutta questa ansia da “Spoiler” è più che mai assurda.

«La Forza sarà pure potente, ma un grosso fucile è meglio»

L’ultimo regalo Edwards lo piazza nel finale, il controcampo di quella mitica scena, quella che ricordiamo tutti come uno dei più incredibili momenti cinematografici di sempre, la prima volta da bambini in cui quella porta scorrevole si è aperta e ha fatto il suo ingresso un cristone nero vestito, che ansimava da dietro una maschera. Qui lo vediamo poco in azione, ma se non fossi venuto su guardando Star Wars a ripetizione, mi sarei fatto domande come: «Chi è quel tipo? Chi sono i Jedi? Ce ne sono altri come lui?». Ovvero quello che un prequel dovrebbe sempre fare, roba da uscire dal cinema ed andare subito a casa a mettere su il DVD di Guerre Stellari.

Vader, Fener, chiamatelo come volete, come entra in scena lui non lo fa nessuno!

Per motivi puramente anagrafici, mi sono perso La Trilogia, un dettaglio che mio padre non perde occasione di ricordarmi, lui si che nel 1977 andò in sala a vedere lo Star Wars giusto e ci portò pure mia madre, mia madre! A cui non frega un’infiocchettata di questi film ha visto Guerre Stellari ed io? La “Prequel Tragedy” o al massimo quello di GIEI GIEI Abrams.

La Forza scorre potente in quest’uomo.

Gareth Edwards mi ha fatto ricordare perché Darth Vader era il mio personaggio preferito della saga (poi è arrivato Yoda, e allora ciaone!), ma soprattutto fin’ora è stato l’unico che è riuscito a lasciarmi galvanizzato dopo aver finito di vedere un nuovo film di Star Wars. Grazie Gareth, mi hai fatto fare pace con questa saga. “La Forza è con me ed io sono un tutt’uno con la Forza”.

Sepolto in precedenza mercoledì 21 dicembre 2016

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