Arriva il momento in cui bisogna diventare più grandi e definirsi, un processo drammatico, a volte quanto una rivoluzione, quindi vi conviene stare pronti perché oggi tocca ad una delle storie produttive più caotiche forse di sempre, benvenuti al nuovo capitolo della rubrica… Like a Stone!
Il tentativo di Oliver Stone di costruirsi una carriera ad Hollywood è passato attraverso diverse fasi, prima il trionfo anche alla notte degli Oscar come sceneggiatore, poi la gavetta nei film dell’orrore, e infine, un tentativo di stringere le dita attorno ad un film nel tentativo di controllarlo, tanto da finire per perderlo definitivamente. Ci sono tracce di una grande lezione di vita nella prima parte della carriera del nostro Oliviero, che a quel punto deve aver pensato di optare per il classico: scrivi di quello che conosci, e una cosa Stone da reduce del Vietnam la conosceva bene, la giungla.
Una giungla era la guerra civile laggiù in El Salvador, così come una giungla è stato trasformare la sua sceneggiatura, scritta a quattro mani con il vero Richard Boyle in un film. La Orion rifiutò il copione definendolo “Eccessivo”, anche per Elizabeth, la moglie di Stone, il finale era fin troppo deprimente, ma il nostro non ne ha cambiato una virgola, per “Salvador” non voleva la solita storiella edulcorata da Hollywood sul salvatore bianco che passa da cinico ad amante della cultura locale. Proprio per questo voleva un attore che potesse dare davvero vita a Richard Boyle sul grande schermo, anche perché parliamoci chiaro, l’idea originale di far recitare a quel mezzo irlandese pazzo e scroccone la parte di se stesso, per fortuna è naufragata presto, e anche così, la produzione di “Salvador” è stata un carnaio, ci mancava davvero solo quell’agente del caos.
No, per la parte Stone aveva bisogno di qualcuno affidabile come Martin Sheen, che sembrava seriamente intenzionato, almeno fino a quando non ha sentito parlare del piano di lavorazione, quasi tutto sul suolo messicano, il Paese simbolo del cinema libero e focoso di Sam Peckinpah per Sheen evocava i ricordi del suo infarto durante le riprese di “Apocalypse Now” (1979), una crepa nella parete di roccia chiamata Martin in cui si è infilato un altro agente del caos titolato: James Woods.
Interessato al copione, Woods iniziò a frequentare casa Stone come da abitudine di Oliver di portarsi a casa il lavoro. Sciupafemmine e faccia da schiaffi sono due delle espressioni che potrebbero riassumere Woods, oggi lo definirebbero “maschio tossico”, io penso che un pezzo famoso degli Stadio sia la sua descrizione migliore: «Ah Sheen? Grande scelta ma non è Cattolico? Pensavo volessi realismo per il tuo film Oliver, siamo sicuri che sarà a suo agio con tutte quelle parolacce nel copione?», il diabolico Woods cominciava il suo lavoro di logorio, il tutto mentre giocava a chi era più bravo ad attirare l’attenzione tra lui e l’altro ospite fisso di casa Stone, il personaggio che voleva interpretare, ovvero Richard Boyle. Anche se va detto, che la competizione vera quei due, l’hanno messa su per capire chi dei due sarebbe stato il primo ad impalmare la notevole babysitter svedese assunta dai coniugi Stone per badare al loro pupo Sean. Per la nuda cronaca: Woods primo alla meta e prontissimo a vantarsi. Ribadisco, gli Stadio, per uno così solo gli Stadio.
Ecco, ci sarebbe il problema della mezza germofobia dell’attore, che infatti in Messico è volato all’ultimo secondo utile, per assicurarsi di passarci il minor tempo possibile, ma prima bisognava trovare il socio di Boyle, la sua spalla, uno ancora meno affidabile e tendente al caos, ovvero il Dottor Rock, ma visto che come avrebbe detto la volpe di Von Trier «Il caos regna!» perché non aggiungere all’equazione anche un membro della famiglia Belushi? Non una dinamo come John, ormai volato via sulle ali dello Speed, ma suo fratello, uno che si stava facendo notare come Jim. Ecco, avete presenta l’immagine che oggi abbiamo tutti di un compagnone come Jim Belushi? Quando ha incontrato dal vivo il vero Dottor Rock è corso da Stone urlando: «Non vorrai mica farmi interpretare quello stronzo svalvolato, vero!?», date retta alla volpe di Von Trier, ma sappiate che siamo solo all’inizio!
Il cast si completa con Elpidia Carrillo nei panni di María, l’amante sul posto di Boyle, un’attrice abituata ai tempi delle soap opera latine, ma anche con una certa propensione all’abbraccio che nella sua autobiografia Stone, confessa nemmeno velatamente che se non fosse già stato sposato, vabbè, avete capito no? Invece per il ruolo del mio quasi omonimo John Cassady, un fotografo di guerra in odore di Robert Capa, viene scelto John Savage, che è ufficialmente simbolo di candore in mezzo ad un sanguinoso conflitto fin dai tempi de Il cacciatore.
Oliver Stone batte ufficialmente il primo ciak sul set messicano giovedì 24 giugno del 1985 anche se sulla tavoletta del ciak che tiene in mano il titolo del film scritto con il gessetto è “OUTPOST”, il produttore Gerald Green, l’unico a credere nel copione di Stone aveva, vabbè diciamo ottenuto l’ok a procedere per un film d’azione intitolato appunto “Avamposto” rifiutato da Arnold Schwarzenegger. Quindi perché sprecare quel gruzzoletto? Noi iniziamo a girare “Salvador”, diciamo che stiamo facendo “Outpost” e poi vabbè, in qualche modo sistemo, tranquillo Oliver! Tra i tanti bucanieri che hanno resto possibile la realizzazione del film, Green era il più piratesco di tutti.
Per essere un film che parla di come gli Stati Uniti d’America, abbiano sempre portato avanti la loro politica di alimentare dittatori locali, per allontanare l’incubo Comunista negli stati dell’America del sud, raccontato utilizzando la situazione salvadoregna come esempio esaustivo, ovvero materiale comunque esplosivo mentre al governo ci sta un presidente ultra nazionalista come Ronald Reagan (ad un certo punto Woods nel film si chiede: «Ti sembra possibile che uno che faceva la spalla ad uno scimpanzé al cinema possa diventare presidente?» tutta la voce della disillusione di Stone nei confronti di Bonzo), cosa potrebbe esserci di meglio che impegnarsi a girare questo candelotto di dinamite che trasuda nitroglicerina già di suo, su un set che è pieno di incendi pronti ad esplodere? Oltre alle difficoltà logistiche di girare in Messico con maestranze locali, metteteci anche l’atteggiamento eternamente provocatorio di Woods nei confronti di tutto e tutti.
Per poco Woods non arriva alle mani con James Belushi, che lo accusava di “impallare” le sue inquadrature, il tutto per tacere delle sue costanti uscite da divo isterico, più di una volta sentendosi non abbastanza considerato, Woods minacciava di mollare tutto costringendo Stone ad andare a riprenderlo per i capelli, a volte quasi già sulla scaletta dell’aereo. Il racconto di questo disastro sulle pagine di “Cercando la luce” (2020, edito da noi per la nave di Teseo) di fatto è la storia di un uomo che capisce che non puoi davvero domare il caos, puoi lasciarti trascinare via dalla sua corrente finendo chissà dove oppure, puoi utilizzarlo, fare surf sulle onde del caos per arrivare a destinazione.
I tuoi protagonisti litigano? Bene, i loro personaggi hanno un rapporto al limite, quindi l’idea di Woods di “stuzzicare” il collega è il suo personalissimo modo di dimostrare che ci tiene alla riuscita, così come quando cerca di attirare l’attenzione con le sue fughe. Le maestranze scioperano quando la mattina arrivi sul set? Invece di farsi venire una sincope, Stone impara a farsi sonnellini in un rottame d’auto abbandonato, tanto la rivolta verrà risolta un paio d’ore dopo, tanto vale riposare (storia vera).
“Salvador” è un film di guerriglia girato, se non con lo stile “Guerrilla” per lo meno con la guerriglia nel cuore, quante volte ho usato questa parola? Abbastanza perché spero vi arrivi il concetto. Come operatore Stone si sceglie uno con esperienza nei documentari, il realismo, la volontà di raccontare la realtà è sempre il Nord magnetico di un regista che proprio con questo film ha definito per sempre il suo marchio: un cinema muscolare, diretto, senza fronzoli o volontà di edulcorare, ma sempre utilizzato al servizio di tutte quelle verità che Hollywood di solito, non vuole raccontare. Tosto? Sicuramente. Brutale? Spesso, ma beccami gallina se una storia immaginaria (seppur basata su fatti reali) come “Salvador” non sia stato in grado di spiegare meglio la passione tutta americana per l’esportazione della democrazia elevata ad industria che è sempre stata la politica estera Yankee, in America del sud e non solo.
La trama inizia negli Stati Uniti dove Richard Boyle (il già citato Giacomo Boschi) è uno spiantato, un paria anche presso i suoi colleghi giornalisti. Scroccone nato, capace di campare di espedienti, ma con un fiuto non da poco per scovare per primo gli scandali della politica estera, anche se poi vuol dire perdersi nei bordelli di Beirut. Bruciato in patria, l’unica soluzione è partire per El Salvador, per motivi politici? Col cavolo! Perché laggiù con duecento fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti campi bene, e per convincere il compare Dottor Rock (Belushi), che ha perso il cane quindi non ha più nessun legame con gli Stati Uniti, gli descrive tutto quello che puoi ottenere pagando sette dollari una prostituta locale. Due gentiluomini, in pieno “Gonzo Journalism” visto che a bordo della loro decapottabile scassata, sono del tutto identici ai protagonisti di un futuro adattamento di Gilliam, tratto dall’autobiografica paura e disgusto a Las Vegas di Hunter S. Thompson del 1971.
“Salvador” costa relativamente poco, meno di cinque milioni di dollari e un temporaneo giro nelle patrie galere per la produzione e le truffe e truffette messe su per racimolarli, nei botteghini dell’America di Reagan incassa noccioline (circa un milione e mezzo), ma dalla sua trova all’inizio una serie di recensioni disgustate, in particolare per via della scena più terribile del film, lo stupro di gruppo delle suore girato con quella volontà di realismo a tutti i costi che non risparmia niente, ma proprio niente, sollevando il vespaio che solo la verità può scatenare. Tra accuse di essere un “rosso” anti-clericale e la presa di posizione da parte delle monache dello stesso ordine, determinate a chiarire che la loro presenza in Salvador non aveva nessun tipo di legame politico (anche se nel film di Stone è chiarissimo, ma le polemiche sono polemiche), il film scatena un putiferio ma mette in moto qualcosa, che lo stesso Stone, ormai quasi a suo agio con il caos tanto da pensare ad un “prequel” con le avventure di Richard Boyle a Beirut (prima di rinsavire), ha visto infiammarsi lentamente, esplodendo come una guerra civile.
In un lasso di tempo abbastanza breve e mentre era ancora impegnato a cercare un produttore per la sua sceneggiatura del cuore, ovvero “Platoon”, iniziarono a fioccare recensioni entusiasmanti su “Salvador” dalle maggiori piazze del Paese, prima di conquistare l’Europa. Alcuni critici che lo avevano definito disgustoso per i suoi horror e per il suo approccio, lo etichettano come il “Macho man della sinistra americana” e quel matto di James Woods si becca una nomination, non convertita in Oscar per la sua prova, la migliore della sua carriera a sua detta, o almeno pari a quelle di Videodrome, C’era una volta in America e il ruolo “maranzo” di Vampires.
“Salvador” è un film troppo strano per fare soldi, ha dei momenti da commedia davvero riusciti che ruotano quasi tutti intorno al Dottor Rock, e degli scarti di tono, anche improvvisi che ti colpiscono a tradimento, magari stai ancora ridendo per un momento divertente quando arriva una scena di morte, con i protagonisti che cercando di non farsi crivellare dai soldati urlando loro «Periodistas! Periodistas!», arrivando ad apici come la terrificante e già citata scena di stupro, oppure momenti strazianti come il rullino che contiene la fotografia perfetta scattata da John Cassady, insomma un film bellissimo, militante, incazzato e votato al realismo, il film che Oliver Stone sognava di dirigere fin dagli albori della sua carriera, oltre a quello che lo ha messo sulla mappa geografica.
Uno dei miei momenti preferiti di “Salvador” è la festa in cui Richard Boyle (quindi James Woods in gran spolvero) si lancia in un lungo monologo, tutto incazzato ed esemplificativo su come la politica estera americana abba finanziato, armato e supportato dittature locali, il tutto, purché non siano comunisti, una tirata scritta con la rabbia nel cuore e la volontà di realismo nel cervello che culmina con quel lapiradio: «Left-wing, Colonel? Eh, maybe. But I’m not a Communist. And you guys never seem to be able to tell the difference!». Per la prima volta Stone è riuscito a portare la verità ad Hollywood, alle sue condizioni, ignorando le pressanti richieste di tagli per tutto, anche per il finale che la moglie riteneva deprimente, ma a guardarlo, è l’unico davvero possibile per una storia come questa.
Se Stone ha imparato con “Salvador” a fare surf sulle onde del caos, i due furfanti a cui dobbiamo questo film tosto e bellissimo sono senza ombra di dubbio quel pazzo scroccone di Richard Boyle e il produttore Gerald Green, che per “Salvador”, un film di cui ancora oggi va molto orgoglioso, si è giocato credibilità, contatti in Messico e sulla lunga distanza, anche la libertà personale per via di certe leggi americane. Stone dal canto suo ha dedicato il film al padre scomparso nel frattempo (e non sarebbe stata l’ultima dedica), convito che avrebbe riso delle uscite di Boyle e che forse tutto sommato, sarebbe stato contento di sapere che suo figlio con questa storia del cinema, non è finito sotto i ponti.
Quello in fissa per guardare dentro gli abissi sosteneva che bisogna avere il caos dentro di sé per partorire una stella danzante, oppure il caos bisogna surfarlo per essere pronti a fare i conti con il proprio “Cuore di tenebra”, dopo essere uscito alle sue condizioni dalla giungla della produzione di “Salvador”, ora Oliver Stone era pronto a tornare in un’altra giungla, quella che conosceva meglio di tutte. Tra sette giorni qui, non mancate per nessuna ragione al mondo, perché questa rubrica è decisamente entrata nel vivo!
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