Ma se ad essere protagonista di un film horror è un nero, allora chi muore per primo? Ero molto curioso di vedere questo “Get out” che da noi arriva solo a maggio inoltrato e con un bello “Scappa” davanti, perché Italiani, popolo di poeti, santi e titolatori. Forse.
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«Eh eh eh. No aspetta, ma sono io il nero in questo film!» |
Che un horror prodotto da Jason Blum sia costato poco (4 milioni e mezzo di ex presidenti defunti stampati su carta verde) non è certo una notizia, ma nemmeno che ne abbia incassati tanti, 173 per la precisione. Quello che ha fatto parlare di questo “Get out” è stata l’isteria di massa, il pubblico, principalmente dei “Fratelli” com’è facilmente intuibile, ha riempito i cinema, trasformando le proiezioni in tifo da stadio per il protagonista (storia vera), roba da prendere un aereo e andare a vedere di persona, per vedere l’effetto che fa (vengo anch’io, no tu no).
Ora, non ho nessuna intenzione di atteggiarmi da sociologo della situazione, ma non è impossibile capire il perché di tanto successo e di queste reazioni. “Get out” tocca corde scoperte di un Paese in cui la questione raziale è una realtà, stiamo parlando degli Stati Uniti di Yankeelandia, gli stessi dove fino agli anni ’70, in certi Paesi del Sud, se prendevi le pagine gialle, le sfogliavi fino alla lettera “K” (seguita da altre due lettera “K”), ti rispondeva una signorina dicendo: «Ku-Klux-Klan buona sera come possiamo aiutarla? Sì, certo, le mando qualcuno con croci e cappucci nel giro di pochi minuti.»
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Bringing us together uuoo oo-ooohh, Ringo people. |
Aver avuto un Presidente nero è stato un segnale forte e il fatto che a novembre ne abbiano eletto un altro che pare l’opposto di quello precedente sotto tutti i punti di vista, fa capire che se sei nero negli Stati Uniti potresti avere qualche difficoltà, anche se sei una stella del basket professionistico. Ultimamente la prima stagione di American Crime Story, dedicata al processo di OJ Simpson ha saputo parlare molto bene della questione, ma basta dire che il movimento Black Lives Matter è stato fondato nel 2013, non nel 1958 e non lo scoprite certo da me che dall’altra parte dell’Atlantico, arrivano notizie di scontri tra i fratelli e i corpi di polizia che sembrano uscite dal testo di “American Skin (41 Shots)” di Bruce Springsteen.
Jordan Peele è più famoso come comico, questo film è il suo esordio sotto l’ala protettiva di Giasone Blum, il tocco della Blumhouse si vede tutto: interni, dialoghi, nessun attore famoso, massimo incasso con la minima spesa, ma “Get out” non è uno dei tanti horror più o meno validi sfornati dalla prolifica casa di produzione, questo ha un altro passo e altri obbiettivi, per nostra fortuna tutti centrati. Trama in arrivo sul binario uno!
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Una mimica facciale più spericolata di Russell Westbrook con la palla in mano. |
Dicono che quando sposi o ti fidanzi con lei, lo fai anche con la sua famiglia, è vero a tutte le latitudini del mondo e anche per Chris Washington (Daniel Kaluuya, che recita tutt’occhi e pure bene) nero e per Rose Armitage (Allison Williams) bianca che decide di portare la relazione con il ragazzo al livello “Ti presento i miei”, ma senza Sfigatti in circolazione. Ora, ci siamo passati tutti, il giudizio del suocero di solito nelle nostre teste maschili si riassume con un suono, il “CLICK” del cane del fucile caricato, discorso che vale doppio per Chris, che prima di partire si assicura: «Lo hai detto ai tuoi che sono nero, veeeeero?»
La ragazza lo rassicura, il suocero avrebbe votato Obama per un terzo mandato se fosse stato possibile e persino il cervo suicida che si lancia sotto la macchina dei due ragazzi, mentre sono in viaggio per la villa in campagna dei genitori (ah! Pure ricca? E bravo Chris!), sembra solo un piccolo intoppo. Dai non può mica andare storto, no? In fondo, papà Dean Armitage (Bradley Whitford ) parla dei bei tempi in cui Jesse Owens vinceva sotto gli occhi di baffetto Adolf e mamma Missy (Catherine Keener che è sempre un piacere rivedere) psicoterapeuta, si propone di togliere a Chris quel brutto vizio delle sigarette con una sola seduta di ipnosi, alla quale il ragazzo rinuncia.
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Due adorabili ed impeccabili suocerini. |
Anche il fratello scombinato Jeremy (Caleb Landry Jones) con tutto quel suo parlare di MMA non riesce a turbare davvero una situazione in cui sono tutti molto gentili con Chris, troppo gentili con Chris, quel livello di gentilezza e attenzioni al limite della morbosità inquietante, anche perché anche il resto degli ospiti di casa Armitage, arrivati per il weekend, non fa altro che complimentarsi dei muscoli di Chris, di dire che Tiger Woods è un figo e il nero il colore di tendenza.
So già cosa state pensando: ad un certo punto si rivelano tutti razzisti bianchi, tirano fuori i cappucci a punta e lo conducono all’albero più alto. No, mi spiace, mi tocca sventolare il dito a tergicristallo, per nostra fortuna “Get Out” è meno banale di così, ma non ho intenzione di rivelarvi altro sulla trama. Fino a qui sono tutte informazioni che potreste apprendere anche dal trailer, quando arriverà il momento di andare alla ciccia della faccenda, vi avviserò per tempo, tranquilli.
Jordan Peele si dimostra incredibilmente agile a gestire i generi, parte da uno spunto iniziale che potrebbe sembrare un “Indovina chi viene a cena?” (1967) aggiornato all’anno 2017 e poi getta dentro riuscite situazioni da thriller sociale, su tutto aleggia un’aurea alla “Funny games” che non aiuta certo a stare rilassatissimi e da spettatori ci si sente un po’ come il povero Chris.
Il primo abbozzo di METAFORONE arriva dalle varie persone di colore che popolano la casa degli Armitage, guarda caso tutti in ruoli di servitù: la governante, il giardiniere, persino un Toy Boy che viene da Brooklyn, ma non ha proprio il look e i modi di uno di quel quartiere (nel dubbio, oggi domani e sempre… Yo Brooklyn!). Questi neri sembrano de-nericizzati, per citare il grande B.B. King nel suo cameo in uno dei miei John Landis preferiti (“The Kentucky Fried Movie”) sembrano dei “Blacks without Soul” e no, non finisce con i bianchi che tirano fuori i cappucci, ve l’ho detto!
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Gotico (afro)americano. |
In mezzo a questa situazione bella tesa, Jordan Peele si dimostra bravissimo ad inserire altri generi, tipo la commedia, l’amico del protagonista che è rimasto a casa a badare al cane di Chris e si preoccupa quando non ha più notizie dell’amico è un ottimo e riuscito esempio di elemento comico funzionale e non fastidioso, la scena in cui va dalla polizia, poi, rischia di avvicinarsi alla parola definitiva sull’argomento polizia negli horror, ovvero: tu li puoi anche chiamare, ma tanto poi devi fare tutto da solo.
Ve lo devo dire, ma da qui in poi, SPOILER, quindi saltate il prossimo paragrafo, ma in generale, correte a vedervi il film, perché rischia di essere uno degli horror più riusciti della stagione!
Lo dico sempre che tenere a mente le lezioni dei classici del cinema è importante, Jordan Peele si è guadagnato dei punticini stima perché è stato bravissimo a ricordarsi quello che non solo è uno dei più grandi film horror di tutti i tempi, ma è anche il più grande film horror con protagonista nero di tutti i tempi, ovvero “La notte nei morti viventi” di George A. Romero. Nel finale di “Get Out” ho avuto proprio un momento in cui ho puntato il dito verso lo schermo dicendo “Eccolo! Ecco che arriva il momento alla notte dei morti viventi!”, per fortuna, Peele è più furbo di così e dimostra di conoscere il cinema abbastanza bene da poterne modificare alcune dinamiche. Non mi sono stupito quando ho scoperto che Peele ha dichiarato di essersi ispirato proprio al capolavoro di Romero, bravo ragazzo!
Di sicuro da zio George ha imparato il gusto per le metafora, le motivazioni degli Armitage non sono riconducibili al mero e orrido razzismo, il film mordicchia usando un’affilata satira con cui prendere di mira anche il perbenismo e il politicamente corretto a tutti i costi, ci si potrebbe dilungare parlando degli effetti dell’ipnosi, il “Sunken place”, il “Luogo sommerso” in cui Chris sprofonda durante l’ipnosi potrebbe essere una riuscita metafora delle persone di colore negli Stati Uniti, costrette a nascondersi, o comunque esiliate in luoghi nascosti, come i quartieri a loro dedicati delle grandi città.
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«Basta, basta con tutti questi spoiler!» |
Ma trovo molto più riuscito e gustoso scrivere della metafora ancora più diretta del film, gli Armitage non odiano i neri, ne ammirano genuinamente i maggiori mezzi fisici di cui la natura li ha dotati, avete presente, no? La forza fisica, il senso del ritmo e, probabilmente, anche lo Schwanzstück, come avrebbe detto Inga in “Frankenstein Junior”.
Questa ammirazione di facciata, in realtà, nasconde un razzismo ancora più becero, il loro piano di tenere i super corpi neri, ma di utilizzarli come ospiti per le menti della ricca borghesia bianca, è una metafora chiarissima: neri fuori, ma bianchi dentro. Era parecchio che un film horror non descriveva i nostri (brutti) tempi moderni in maniera così precisa, forse dai tempi di Society di Brian Yuzna. Ho trovato anche azzeccato il simbolismo del cervo: prima uno viene steso dall’auto dei due ragazzi, diventando un monito, quasi una premonizione per Chris, nel finale, invece, è con la testa di un cervo (impagliato) che Chris dà il via alla sua fuga, proprio quella che nei cinema americani viene celebrata, nemmeno fosse un coast to coast con schiacciata finale di Lebron James! FINE DELLO SPOILER!
Se proprio dovessi trovare un difetto, direi che forse, con una decina di minuti in meno il film sarebbe stato più snello, ma è un difetto da poco, “Get out” non inventa nulla, ma utilizza molto bene i suoi elementi, vedere un film di genere fare metafora nella nostra società così bene mi esalta sempre, se Jordan Peele ha avuto la fortuna del principiante, oppure se ha del vero talento, solo il tempo potrà dircelo, per ora va benissimo così: bravo!
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Ben fatto Jordan, dammi il cinque! |