Avete presente quando esce il nuovo film di un regista quotato e molte aspettative vengono infrante? Una cosa è giudicare i film nell’immediato, poche ore dopo la loro uscita, ben altra è avere dalla propria il supporto del miglior critico cinematografico del mondo, Padre Tempo. Benvenuti al nuovo capitolo della rubrica… Life of Brian!
Nei primi anni ’80 Brian De Palma si era fatto un nome grazie ai suoi thriller, anche se Blow Out non aveva incassato quanto sperato (e quanto quel film avrebbe meritato), ci voleva un successo al botteghino grosso, un elemento che diventerà un fattore nella filmografia del regista del New Jersey: l’alternanza tra progetti “sicuri” e altri più legati alla sua idea di arte (ma tutti diretti con grande maestria) diventerà sempre più netta anche nel corso di questa rubrica. In quel momento della sua carriera, però, Brian da Newark sentiva un altro bisogno: scrollarsi di dosso l’etichetta di imitatore di Hitchcock, di lusso, certo, ma una definizione che a De Palma va decisamente troppo stretta. L’occasione è arrivata da un remake dalla genesi articolata.
Tra Sidney Lumet e Brian De Palma, i famosi gradi di separazione sono molti meno dei canonici sei. Il regista del New Jersey si era visto sfilare di mano dalla Warner “Il principe della città” (1981), ne abbiamo parlato anche nel corso della rubrica. La tendenza sembrava destinata a continuare, visto che la Universal si era messa in testa di produrre un remake di “Scarface” (1932), un vero classico diretto dal Maestro Hoaward Hawks, a cui Lumet era molto interessato ad una condizione: portare realismo e contemporaneità alla storia. Quindi, niente più Antonio “Tony” Camonte, interpretato da Paul Muni e ispirato ad Al Capone, ma un criminale cubano, per una storia ambientata a Miami, il centro nevralgico del traffico della droga nell’America degli anni ’80, perché a Lumet interessava molto la politica, la critica sociale e magari una bella storia che mettesse in chiaro i legami tra gli spacciatori della Florida e la guerra alla droga messa su da Ronald Reagan. Materiale bollente, scomodo, smaccatamente politico, chi può essere tanto matto da prendersi la doppia rogna di sfidare Hawks e la politica del presidente americano in carica? Il più politico di tutti: Oliver Stone.
Olivero Pietra era un aspirante regista che sognava di portare al cinema la sua esperienza come soldato in Vietnam, ma fino a quel momento era riuscito a farsi un nome solo come sceneggiatore, portandosi a casa il primo Oscar della sua carriera con il copione di “Fuga di mezzanotte” (1978), l’idea di Lumet lo esaltava, inoltre, il progetto era nato sotto una buona stella, quella di Al Pacino che scalpitava per lanciarsi nel ruolo principale e con lui a bordo, la Universal sentiva già il profumo dei soldoni al botteghino, tanto da lasciare quasi carta bianca a Stone che per le sue ricerche sul campo non si è fatto mancare niente, nemmeno una trasferta con la moglie Elizabeth in Sud America, per approfondire il flusso del traffico e la vita dei criminali, problema: in quel periodo sia Stone che la moglie facevano uso, diciamo ricreativo, della più popolare polverina bianca degli anni ’80, quindi tra una sniffata, un Cuba Libre e una chiacchierata con i malavitosi locali, lo stesso Stone si è trovato al centro di una serata di paura che è finita dritta nella sceneggiatura del film, la famigerata scena della motosega e della doccia (che tanto deve aver attirato De Palma) arriva proprio da lì (storia vera).
Stone, legatissimo alla sua sceneggiatura come ogni scrittore con aspirazioni da regista, crea Tony Montana (in omaggio a Joe Montana, campione dei San Francisco 49ers) e se Hawks a causa della censura imposta dal codice Hays, doveva rendere il suo gangster disgustoso agli occhi del pubblico, ma non poteva sottolineare il rapporto al limite dell’incestuoso tra Tony Camonte e sua sorella, Stone non ha certo di questi limiti, la sua sceneggiatura è la classica storia di ascesa e caduta di un malvagio, anni ’80 fino al midollo, esagerato perché fittizio, un cattivo nato con i film (alle guardie americane dice che parla la loro lingua, perché è cresciuto con i film di Cagney e Bogart) e perfetto per mettere alla berlina un tema su cui Stone sarebbe tornato nella sua filmografia, l’avidità che è il sottoprodotto del capitalismo.
Il risultato finale è dinamite, ad altissimo potenziale, fin troppo per Lumet che a quel punto si tira indietro, ma la Universal non ha nessuna intenzione di mettere al comando del progetto Stone, uno sceneggiatore che, nel frattempo, per concludere il copione si è auto esiliato in Francia, dandoci un taglio con la coca (nella sua autobiografia, “Cercando la luce” edita da la nave di Teseo pubblicata nel 2020, dichiara che da quel momento avrebbe usato la cocaina in rare occasioni di convivialità, ah gli anni ’80!), anche se per la casa di produzione non era certo una sicurezza ed è a questo punto della storia che Brian De Palma vendica la perdita di “Il principe della città” spiazzando tutti, anche Stone.
Ve lo immaginate essere in sala nel 1983 (io ho un alibi di ferro, il film è uscito nei cinema americani il giorno dopo la mia nascita, storia vera) per vedere il nuovo film di De Palma e trovarsi davanti “Scarface”? Una storia di ascesa e caduta di un gangster che pare aver davvero poco da spartire con la filmografia dell’imitatore di Hitchcock. Per fortuna non esisteva ancora “Infernet”, ma, bisogna dirlo, “Scarface” aveva bisogno di De Palma e viceversa, anche se è chiaro che questo film abbia trovato un senso nella filmografia del regista del New Jersey dopo, quando Brian è tornato a trattare il genere gangster come vedremo nel corso della rubrica e proprio per questo sostengo che Padre Tempo resti il miglior critico cinematografico del mondo. Perché “Scarface” è senza ombra di dubbio un Classido, anche se nel 1983 quasi nessuno sarebbe stato disposto ad etichettarlo in questo modo, soprattutto perché io ero nato da un giorno e non mi ero ancora inventato il logo rosso che vedete qui sotto!
De Palma non ha problemi a dirigere la dinamite scritta da Stone, due registi che nella mia testa associo sempre, perché da ragazzino li ho “scoperti” insieme, ma anime decisamente poco affini che hanno avuto questo film come punto di contatto e più di un dissidio sul set, anche se erano entrambi d’accordo su un fatto: Glenn Close era la loro perfetta Elvira, anche perché Stone aveva scritto il personaggio come una ragazza bene di New York. Entrambi, però, hanno dovuto incassare il due di picche netto del produttore Martin Bregman, inflessibile su due cose: la sua passione per le bionde e il fatto che tale Pfeiffer Michelle, illustre sconosciuta intravista in un paio di filmetti prima di questo, doveva essere l’oggetto del desiderio del protagonista. Con tutto il rispetto che ho per De Palma e Stone (tantissimo) aveva ragione Bregman perché non solo Michelle Pfeiffer avrebbe fatto strada, ma valeva la pena riscrivere il personaggio adattandolo su di lei per averla nei panni di Elvira.
Dove De Palma e Stone non vanno d’accordo è in tutto il resto, ok che ognuno è l’eroe della propria storia, infatti in “Cercando la luce”, il futuro regista di “Platoon” mette in chiaro che l’approccio di De Palma al materiale non faceva proprio per lui. Stone ha parole di stima perché Padre Tempo ha dato ragione al regista del New Jersey, ma per De Palma riserva aggettivi come “pachidermico” nel metodo di lavoro, sottolineando la scarsa forma fisica del regista (come se lui, ex tossico da una manciata d’ore fosse il massimo dell’atletismo), piccole stoccate legate all’attaccamento di Stone alla sua sceneggiatura. Da una parte abbiamo un aspirante regista nevrile, con una chiara idea della storia e dei personaggi, dall’altra un regista che arrivava dai Thriller ed era qui per scrollarsi di dosso un’etichetta, infatti nella sua autobiografia Stone sottolinea come De Palma scomparisse nel fine settimana e non fosse rintracciabile, nemmeno al telefono, ma anche come sia salito sull’aereo di ritorno lo stesso giorno della fine delle riprese. Insomma, i due nella mia testa sono registi affini, ma nella realtà non più di tanto, eppure né Lumet e di certo non Stone, sarebbero stati in grado di rendere “Scarface” un classico del cinema come solo Brian De Palma ha saputo fare e questo, con buona pace delle edulcorate frecciatine di Stone nella sua autobiografia, resta un fatto.
De Palma scompariva nei fine settimana, ma aveva anche un divorzio da Nancy Allen in corso e, soprattutto, le idee più chiare di tutti sul set, tanto chiare da essere in grado di continuare le riprese anche quando Al Pacino, dopo essersi ferito ad una mano per eccesso di impeto durante una sequenza (aveva messo la mano su una canna di fucile rovente, storia vera) latitava dal set. Cos’ha fatto De Palma? Per prima cosa ha avuto la meglio su Stone che sognava per la morte di Tony Montana, una sortita di pochi sgherri armati, quando De Palma ha trasformato la fine della vita di un personaggio “Larger than life” (come dicono dall’altra parte dell’Atlantico) in un massacro, una catastrofe di proiettili, sputi, urla, morti ammazzati e Pacino che una volta uscito dall’ospedale, poteva tuonare la leggendaria «Say hello to my little friend» (diventata parte della cultura pop e piallata dal nostro doppiaggio) il finale perfetto che De Palma è riuscito a girare quasi senza il protagonista, riempiendo l’attesa a girare da ogni angolazione possibile la sparatoria al fine di renderla grottescamente epica, tanto che sul set ha invitato anche un suo “little friend”, ovvero Steven Spielberg che si è spanciato con l’amico Brian a dirigere da uno dei tanti punti macchina sparsi durante la scena della sparatoria nella villa di Tony (storia vera).
Seguendo l’ordine di uscita dei film di De Palma, ritrovarsi davanti a “Scarface” dopo le commedie godardiane e i thriller alla Hitch è come sbattere contro un muro, 170 minuti di tutto sommato canonica ascesa e caduta di un malvagio, che percepiti sono meno della metà di quelli dell’ultima serie tv con cui vi siete annoiati sul divano l’altra sera, eppure ad una prima occhiata mancano quei virtuosismi e la “grammatica Hitchcockiana” a cui De Palma teneva molto, ma solo ad un occhio distratto, perché in realtà il massacro con la motosega nella doccia se ci pensate è puro De Palma, così come le telecamere a circuito chiuso che moltiplicano il punto di vista (e la paranoia) di un Tony Montana con il naso più bianco di Fruit of the loom (cit.) pronto a diventare più rosso di un livello di Doom (seconda cit.), ennesimo anti-eroe Depalmiano che brucia nel fuoco della sua ossessione, mentre i personaggi femminili attorno a lui risultano più tosti dei maschietti.
Elvira sarà anche la donna trofeo, ma non si autodistrugge nell’avidità come Tony che è consumato anche dalla gelosia per la sorella Gina (la permanente di Mary Elizabeth Mastrantonio) in un rapporto torbido ad un passo da un incesto mai consumato, perché con buona pace di Stone, Brian De Palma aveva semplicemente capito meglio di tutti come raccontare una storia che è una critica al Capitalismo, all’avidità che impedisce al protagonista i fermarsi, una farsa dai toni grotteschi da tragedia che trova in Al Pacino l’interprete dei sogni, anche se ad un certo punto De Palma lo ha dovuto separate da Stone, interdetto dal set perché continuava a cercare di non far fare modifiche alla sua sceneggiatura (storia vera).
Parliamo di un attore che all’apice della sua fama, si “scaldava” verso il settimo ciak e che, per ansia da prestazione, non concedeva a nessuno di dichiarare una scena finita per davvero, senza la sua approvazione. De Palma non solo ha sopportato tutto questo, ma ha messo l’attore nella condizione di divorarsi ogni scena con la stessa voracità di Tony Montana, infatti “Scarface” è un’infilata di scene madri una più memorabile dell’altra, un procedere per accumulo che passa dal primo omicidio su commissione per la carta verde di Tony, fino al massacro della doccia e poi su per arrivare al finale facendo due tappe chiave.
La prima è il ribaltamento di fronte rispetto al film di Howard Hawks, lì la frase simbolo era “The world is yours”, De Palma, invece, mostra il suo protagonista finalmente arrivato, con Elvira nel letto a guardare il dirigibile della Pan Am nella notte di Miami, con la stessa scritta che diventa il suo motto, la sua consacrazione (infatti morirà ironicamente sotto la stessa scritta, nel finale), il momento perfetto per far cominciare una sorta di “Training montage” che è uno dei momenti più anni ’80 di tutto il cinema americano, con in sottofondo la classica Push it to the limit, contraltare anche musicale perfetto, alla colonna sonora, in equilibrio tra il latino e l’apocalittico firmata da un altro mammasantissima come Giorgio Moroder.
Toccata la vetta si può solo iniziare a scendere, mai nessuno nella settima arte lo ha fatto con più stile di Al Pacino in questo film, il suo monologo al ristorante è talmente esagerato, fumettistico e in linea con il tono volutamente fittizio dato da De Palma al film, da fare il giro completo diventando leggenda. Il suo «Quello è un uomo cattivo» è l’apoteosi di un personaggio nato nei film e cresciuto come puro materiale da cinema, il male, così fittizio da poter sbattere in faccia a tutti l’ipocrisia di chi lo guarda, se non è uno dei migliori monologhi della storia del cinema, allora non iniziamo neanche a stilare la classifica.
De Palma non si sarà fermato a fare il brindisi di fine riprese per correre a prendere l’aereo, ma aveva capito che per inquadrare un momento storico in cui i fiumi di droga scorrevano come l’avidità, bisognava utilizzare il filtro del cinema, spingendo davvero tutto al limite, dalla messa in scena barocca alla fotografia di John A. Alonzo, perché intorno alla brama di potere capitalistica di un personaggio sopra le righe come Tony Montana, devi costruire un mondo all’altezza, quello dei sogni per tutti quelli che in un cattivo così, come non ne avremmo visti mai più (parafrasando il suo monologo) si è riconosciuto.
“Scarface” alla sua uscita non è stato il titolo spacca botteghini che sognava la Universal, certo, ha portato tanti soldi nelle casse della casa di produzione, ma i fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti veri sono arrivati più che altro nel corso degli anni, quando il culto attorno al film è cresciuto, perché alla sua uscita oltre che ad una buona prova di Al Pacino, pochi critici hanno sottolineato l’abilità di De Palma, la maggior parte sono rimasti spiazzati dal fatto che l’imitatore di zio Hitch, non stesse più imitando.
Eppure, “Scarface” è stato il primo grande film di gangster a definire l’intera iconografia del genere, almeno in epoca moderna, facendo per gli anni ’80 quello che Hawks (a cui il film è dedicato) aveva fatto nel 1932, per ritrovarci davanti ad un altro salto quantico per il genere gangster, abbiamo dovuto attendere fino al 1990 e “Quei bravi ragazzi”, guarda caso diretto da uno molto amico di De Palma, parte della cricca dei genietti della New Hollywood come Scorsese.
Ma l’impatto di “Scarface” sulla cultura popolare è quantificabile ancora di più oggi che allora, un altro ragazzo molto talentuoso e bravo ad annusare l’aria per capire da che parte tirava il vento come Michael Mann, è partito dal film di De Palma per portare quel modello, quei colori sparati, quelle musiche a palla e le ambientazioni della Florida nella case di tutto il mondo grazie a “Miami Vice”, la serie con cui gli anni ’80 sono iniziati per davvero e che non sarebbe mai esistita senza il film di De Palma.
Alziamo ancora di più la posta in gioco? Quanti riferimenti più o meno espliciti a “Scarface” ci sono in Breaking Bad? Forse tutta l’idea stessa del cattivo gangster come protagonista assoluto è iniziata con Tony Montana per arrivare fino all’altro grande Tony, Soprano.
Tutto qui? No, perché trovo affascinante il modo in cui De Palma, con quel suo stile distaccato e il sorriso sornione di chi ha fatto suo l’umorismo nero, ha sempre sottolineato come molti dei suoi film sapevano parlare di megalomania, terminando spesso in un bagno di sangue il più delle volte, raccontati dal punto di vista di personaggi considerati dei “cattivi” dalla società, perché cresciuti in contesti sociali isolati, come Carrie o il Fantasma del palcoscenico. Eppure, mi fa ridere vedere le interviste in cui De Palma, di fatto uno scienziato nerd prestato al cinema, parla con un po’ di stupore come lui, lontano anni luce dal mondo dei videogiochi e dalla cultura Hip Hop, ancora più di quanto non risultasse alieno al collega Oliver Stone, di fatto ha avuto un peso specifico pari a quello dell’oro su entrambi.
La serie di videogiochi “Grand Theft Auto” è costellata di citazioni prese di peso da “Scarface”, anzi, sembra proprio il videogioco ufficiale del film, prima che ne uscisse uno per davvero, “Scarface: The World Is Yours” del 2006. Allo stesso modo i cantanti Hip Hop hanno reso Tony Montana il loro padre putativo, non so nemmeno in quante canzoni sia citato e non ci provo nemmeno a farvi degli esempi, preferisco farne uno più vicino a me, il campione dell’NBA Shaquille O’Neal, oltre ai tatuaggi dedicati al film, ha acquistato l’automobile usata da Tony Montana nel film, oltre ad avere in casa la struttura rotante con la scritta “The World Is Yours” sotto la quale muore il personaggio (storia vera).
Gli esempi di come “Scarface” sia ormai radicato nella cultura popolare e come sia considerato oggi (a ragione) un classico del cinema sono infiniti, basta citare la leggenda urbana per cui il numero di “fuck” del copione, siano 182 come il numero nel nome di un popolare gruppo, Stone afferma che erano di meno, non sa quanti, ma Pacino li ha enfatizzati (storia vera). Quindi, rifletteteci la prossima volta che vi capiterà di dover giudicare un film sulla base dei suoi incassi, o magari sulle aspettative create dai titoli precedenti di un regista, perché viviamo in un mondo dove “Scarface” è stato accolto come uno sbaglio, un errore di percorso nella filmografia di De Palma, ma oggi diventa davvero difficile trovare un film più di culto di questo, mica male per un film “sbagliato” dal nostro Brian di Newark, no?
Visto che siamo immersi negli anni ’80 fino alle ginocchia con Tony Montana, la prossima settimana andiamo in apnea, portatevi la controfigura, perché diventerà tutto un po’ a luci rosse tra sette giorni, non mancate!
Sepolto in precedenza venerdì 11 novembre 2022
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