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Schindler’s List (1993): chi salva una vita, salva il mondo intero

Quanto è importante la preparazione? Presentarsi ad una grande prova, nel momento migliore, quello che si considera giusto. Spielberg sarà anche tra i più grandi registi viventi di questo gnocco minerale che ruota attorno al sole, forse il più influente, ma tra le ragioni che lo rendono ammirevole, almeno ai miei occhi, mettete pure in conto una certa dedizione alla storia che decide di raccontare, un rispetto di fondo che non è scontato.

Ora che la stagione dei premi cinematografici è alle porte, proprio il suo The Fabelmans è l’ennesima prova che Spielberg prima di affrontare una storia per lui particolarmente sentita, fa viaggi lunghi, portandoci per mano insieme a lui. Uno dei più lunghi e complicati della sua carriera, lo ha intrapreso trent’anni fa, il risultato è stato pluri premiato, anche lui verso febbraio con tante statuette di zio Oscar, ma come per The Fabelmans è stato il punto di arrivo di un percorso iniziato decadi prima, quando il giovane Steven imparò a leggere i numeri, ben prima dell’età scolare, insegnati dalla nonna che li portava tatuati sull’avambraccio e non perché fosse una veterana della musica Trap (storia vera).

Gli anni ’90 di Steven Spielberg sono iniziati con il tiepido successo di Hook, un film per cui lo stesso regista non va orgoglioso come invece dovrebbe, visto che il tempo ha riconosciuto l’effettiva qualità di quel gioiellino. Fino a quel momento il regista di Cincinnati aveva saputo mostrare l’orrore, anche quello senza volto, rappresentato da un camion o dalle orbite nere di Bruce. Aveva scherzato con gli amici e con quello spirito da uomo-bambino che lo ha sempre contraddistinto, ha creato gli eroi della nostra infanzia, ci ha chiesto di guardare le stelle mentre con l’altra mano, affrontava temi decisamente adulti con titoli come “Il colore viola” (1985) e “L’impero del sole“ (1987).

Era il momento per il cinema di Spielberg di andare fuori dal blu e dentro il nero, per dirla alla Neil Young.

Un eterno dualismo, tra cinema “alto” e “basso”, tra successi commerciali e lavoro più intimisti, teso tra il buio e la luce, il bianco e il nero verrebbe da dire, fino al 1993, l’anno chiave, quello in cui ha fatto quel passo che sentiva, probabilmente dai tempi delle lezioni con la nonna, era il momento di diventare grande, alle sue condizioni certo e non senza gli immancabili dolori della cresciuta.

Non è un caso che l’uomo-bambino nello stesso anno ci abbia regalato il massimo dello stupore, il trionfo della “Spielberg face”, utilizzando il cinema per realizzare un sogno infantile, come quello di vedere i dinosauri e allo stesso tempo, sempre grazie ai mezzi offerti dalla settima arte, abbia mostrato l’orrore supremo. Anche se “Schindler’s List” per Spielberg è stato a lungo una sfida rimandata, per un semplice motivo: non si sentiva all’altezza. Il più grande regista vivente che non si sente all’altezza, mentre il globo è popolato di cinefili con la puzza sotto il naso pronti a sputare sentenze lapidarie su ogni film. Poi ditemi come faccio io a non avere enorme stima di Spielberg.

«Liam giuro che dopo, ti farò fare solo ruoli facili per il mio amico George»

Il produttore Syd Sheinberg, aveva acquistato i diritti del romanzo di Thomas Keneally nel 1982, per adattare la vita di Oskar Schindler in una sceneggiatura è stato coinvolto Steven Zaillian, uno che sarebbe diventato la penna di fiducia di Martin Scorsese a cui Spielberg a bordo come produttore esecutivo, ha cercato più volte di passare la palla, nemmeno fosse l’ovale del rugby. Ma il celebre compare nel gruppetto di ribelli della “New Hollywood” non è stato l’unico nome che per il regista di Cincinnati poteva essere quello giusto per “Schindler’s List”, il buon Steven ha provato a coinvolgere tutti, da Billy Wilder fino a Sidney Lumet, per poi arrivare a Roman Polanski. Su quest’ultimo aveva ragione, se non fosse che per il regista di “Rosemary’s Baby” già solo leggere la sceneggiatura è stato un traumatico viaggio indietro sulle ali dei (brutti) ricordi, lui che bambino, quel 13 marzo del 1943 lo ricordava bene perché lo aveva vissuto, costretto a fuggire da Cracovia il giorno della liquidazione del ghetto, non poteva proprio dirigerla quella storia, troppo personale, lo avrebbe fatto più avanti, con un soggetto non per questo più facile, come “Il pianista” (2002).

L’unico nome a cui Spielberg non aveva pensato come regista era stato il suo, alla fine accettò di imbarcarsi nell’impresa, ad una condizione: prima giro Jurassic Park e poi passo a  “Schindler’s List”, tra i due film doveva esserci un cambio di mentalità, un passaggio dal bianco al nero necessario, anche se poi nella realtà le cose non sono state così facili, visto che le post-produzioni dei due titoli si sono sovrapposte, tanto che Spielberg si trovò anche a lavorare su entrambi i titoli nello stesso giorno (storia vera), come ha dichiarato lui stesso intervistato anche nel fondamentale documentario targato HBO che porta il suo cognome: «Ogni grammo di intuizione su Schindler’s List. Ogni grammo di mestiere su Jurassic Park». Non è un caso se per vederlo tornare alla regia dopo, il regista ha fatto passare quattro anni, per poi affrontare un’altra doppietta di titoli opposti, Il mondo perduto e “Amistad”, entrambi del 1997.

La scelta di fotografia è così radicale, che anche le immagini sulla Bara sono in bianco e nero.

In “Schindler’s List”, Steven Spielberg ci ha messo ogni grammo di intuizione ma anche molto del suo passato, dalle lezioni con la nonna, all’antisemitismo con cui ha dovuto fare i conti in gioventù. Un film con un approccio quasi da documentario, largamente ispirato infatti da “Shoah” di Claude Lanzmann del 1985, ma sempre filtrato dalla sensibilità e dal mestiere di uno dei più grandi talenti che la settima arte abbia mai visto, quindi Spielberg avrà anche fatto a meno degli storyboard, cercando di cogliere il momento sul set, ma togliere il cinema da uno così non è proprio possibile, infatti i 195 minuti di “Schindler’s List” filano via alla grande solo perché Spielberg è un grande uomo di cinema, perché per il resto nemmeno un minuto di essi risulta fuori posto, o ammettiamolo candidamente, leggero.

Leggero nel senso che non si può guardare “Schindler’s List”, a cuor leggero, sarà pur vero che parti della vita di Oskar Schindler sono state romanzate, ma ci mancherebbe altro è il compito del cinema. Però qui Spielberg si è caricato sulle spalle un altro compito, ancora più doveroso, quello di tenere viva la memoria. La stessa che in troppi preferiscono rivedere, rivalutare verso il basso, archiviandola come esagerazioni o peggio complotti. Perché con il passare del tempo inevitabilmente le testimonianze dirette verranno meno, ma “Schindler’s List” con la sua solennità è un film che si fa carico del compito, non si sopperire alla memoria, ma di tenerla viva, un titolo che ha il sapore amaro dei racconti di mio nonno, partigiano e prigioniero, scampato per un pelo, per età e destino, che ritrovo qui, quando l’abile artigiano capace di fare un cardine in pochi secondi, si salva solo perché non una, ma due pistole si inceppano. Una trovata che altrove verrebbe bollata come “buco di sceneggiatura” e che qui funziona perché la vita non è sempre sceneggiata, a volta è ironica, tante volte soggetta al caso se non proprio al caos mentre alcune volte, ti chiede di guardare negli occhi l’orrore.

Il cinema non può concedersi il lusso delle coincidenze, ma sono quelle che possono salvarti.

Tanto che lo stesso Spielberg, per eccesso di coinvolgimento emotivo lasciava ai registi delle seconde unità, Marek Brodzki e Krzystof Zbieranek, di dirigere alcuni passaggi, e alla fine di una giornata di lavoro, l’alleggerimento per la sua anima erano puntate di “Seinfeld” (che nel doppio episodio della quinta stagione intitolato “Gli impermeabili”, omaggiava proprio questo film), oppure in alternativa, una telefonata a Robin Williams che lo faceva ridere o gli leggeva parti del copione di “Aladdin” (storia vera).

Non si può guardare “Schindler’s List” a cuor leggero, io credo di averlo visto tre volte nella mia vita, uno di quei film per cui si sprecano parole prestampate come “necessario” o altre frasi fatte da cinefili come questa, ma che risulta fondamentale per davvero perché ha saputo incarnare, fare sue e restituire al pubblico l’aurea che solo la testimonianza diretta di chi lo ha visto e vissuto quell’orrore può trasmettere, questa è la vera importanza di un film che se devo bollare con una parola, per me può essere solo questa: Classido. Non a caso con logo di colore rosso.

Se pensate al cinema di Spielberg, l’uso del colore e della luce è sempre stata una delle sue prerogative, inizia a colori anche “Schindler’s List”, nello specifico con il rituale dello Shabbat, con quella candela che si spegne e con essa, la “luce” su tutto il film. Syd Sheinberg che ha creduto fortemente in Spielberg dietro alla macchina da presa, deve aver avuto qualche ripensamento quando il regista ha imposto il bianco e nero, soluzione stilistica che storicamente mette in fuga il pubblico, ma è tornato sui suoi passi davanti alla motivazione del regista di Cincinnati, non un vezzo artistico per darsi un tono, ma una precisa scelta, lo Shabbat iniziale è un momento di calma prima della tempesta che ha colpito gli ebrei, il bianco e nero fotografato dal fidato Janusz Kaminski invece sta tutto in queste parole: «L’Olocausto fu vita senza luce. Per me il simbolo della vita è il colore. Per questo un film che parla dell’Olocausto deve essere in bianco e nero.»

La calma prima della tempesta.

La forza di “Schindler’s List” sta nell’essere un film che parla ovviamente dell’Olocausto, ma lo fa attraverso il punto di vista di una persona, il bianco e nero dopo le parole di Spielberg non ha bisogno di altre spiegazioni, ma serve anche a descrivere l’arco narrativo di Oskar Schindler, che qui in qualche modo, sembra percorrere lo stesso percorso complicato del regista: abbiamo un industriale, un commerciante abituato a fare soldi, che messo davanti all’orrore, non volta la testa dall’altra parte e finisce per crescere, mettendo il suo talento al servizio di un obbiettivo. Potremmo dire che un po’ è il percorso di Spielberg, eroe dei film della nostra infanzia, campioni al botteghino, chiamalo alla prova della vita e a una cresciuta che per il regista di Cincinnati ha coinciso con la sua definitiva consacrazione come Autore (maiuscola doverosa), i sette Oscar al film, tra cui miglior film e miglior regia sono la prova che serve a chi ama i premi cinematografici, “Schindler’s List” in tal senso parla abbondantemente da solo.

Ma il film è anche il percorso del suo protagonista, brillantemente interpretato da quel Liam Neeson che in patria era noto per interpretare Shakespare a teatro, che in America si è fatto un nome con il cinema di genere e prima di tornarci, con un solo grande ruolo, questo, ha cambiato forse per sempre la percezione che il pubblico aveva, e ancora ha di lui. Neeson l’irlandese da combattimento, sarà sempre un attore “serio”, uno che fa grandi film, perché qui lo è stato in maniera del tutto superba, quindi anche questo rientra nella memoria collettiva, quella da preservare di “Schindler’s List”.

Diviso tra luci ed ombre (e da un’ottima fotografia)

Oskar Schindler entra in scena con un primo piano, metà del volto di Liam Neeson è in ombra, l’altra metà esposto alla luce, più chiaro di così Spielberg non avrebbe potuto essere. Fa festa con i Nazisti, corrompendoli e sfoggiando la spilla con la svastica, una facciata per un personaggio che è teso tra il bene e il male, costretto a far buon viso a pessimo gioco, sia quanto si approccia  con il bene, la luce, rappresentata da un personaggio totalmente positivo come il contabile Itzhak Stern (Ben Kingsley che ancora oggi, raccoglie il credito di questa sua prova) e il male assoluto, il nero del buio incarnato da Amon Göth, interpretato da un Ralph Fiennes in una prova monumentale, un incubo in divisa che riesce ad essere pazzo, patetico e orribile fino al midollo, incarnando tutte le idiosincrasie di un’ideologia folle e senza senso.

1982, Richard Attenborough dirige Ben Kingsley. 1993, Spielberg per non sbagliare, nello stesso anni li dirige entrambi.

Cinema di assoluti, bianco e nero, vittime e carnefici, forse perché non si può raccontare l’assoluto orrore dell’olocausto senza spingere al massimo i concetti chiave, perché quella manciata di anni ha incarnato tutto il meglio e il peggio dell’unica razza che esiste per davvero, quella umana, come aveva ribadito anche Einstein. Art Spiegelman nel suo fondamentale “Maus” (1980) disegnava gli ebrei come topi e i nazisti come gatti, senza che nessuno rischiasse mai di pensare, nemmeno per un momento alla Disney. Steven Spielberg, l’uomo-bambino dell’intrattenimento cinematografico per eccellenza fa lo stesso calandoci in un film dove attorno all’arco narrativo di Oskar Schindler, vediamo muoversi tutto il campionario umano che va dal bianco al nero.

Anche se è affrontare il grigio nel mezzo, la parte che risulta forse davvero più difficile per il personaggio.

La sequenza iniziale in cui Stern cerca di distribuire più fogli di lavoro possibili a chiunque, anche ad un professore che non si capacità che insegnare storia per i nazisti non sia un lavoro importante, oppure le mille scene, tutte dolorosissime che compongono il rastrellamento del ghetto di Cracovia, che sono più spaventose di qualunque horror perché se non accadute davvero, come raccontate da Spielberg con stoico (e per lui e noi doloroso) distacco, sono realistiche in un modo che solo il cinema può rendere tale, figuriamoci il cinema che si carica sulle spalle il compito di preservare le memoria, per non farci dimenticare mai.

Una cosa è parlarne, studiarlo sui libri, ben altra farselo raccontare da chi lo ha vissuto, allo stesso modo Spielberg utilizza il suo amato cinema, non per farci stare bene e felici, ma per prenderci a schiaffi, perché certe lezioni le puoi imparare solo così, leggendole da un avambraccio tatuato per capirne il vero valore del coraggio e del sacrificio che sta dietro. No, non si guarda mai a cuor leggero “Schindler’s List” ma merita di essere visto, rivisto e tramandato, perché per uno Stern salvato all’ultimo secondo da Schindler, minacciando velatamente di spedire in Russia gli addetti ai treni in divisa, ci sono momenti come l’entrata in scena del cattivo, quando Amon Göth fa sparare all’ingegnere ebrea e poi fa eseguire i lavori come da sue indicazioni, in un altro film, uno qualunque, sarebbe la prova della malvagità del cattivo di turno, qui è spaventoso perché magari non è mai accaduto che qualcuno perdesse la vita in un modo così insensato, oppure peggio, Spielberg ci sta raccontando una versione edulcorata dei fatti, perché no, non si può raccontare l’olocausto senza assoluti come il bianco e il nero.

Nazisti, io la odio questa gente! (cit.)

Di mezzo centinaia di scene in grado di strapparti il cuore dal petto: l’uomo costretto e recuperare l’oro da una manciata di denti gettati sul tuo tavolo dai nazisti, gli anziati fatti correre senza vestiti per il campo, oppure i bambini che felici e ignari salutano le madri disperate che li vedono partire a bordo dei camion. 195 minuti, tutti così, dove anche i picchi di assoluta follia del personaggio interpretato da Ralph Fiennes non fanno che dettare il passo solenne di un film che è un requiem, un lungo “Memento mori” o anche solo “Memento”, perché quello che conta è ricordare.

Il fuoco riesce ad essere sui tanti personaggi, spesso senza nome, uccisi a sangue freddo o costretti ad inventarsi qualunque cosa pur di salvarsi, che Spielberg ci fa guardare tutti negli occhi, illuminati come il fascio di luce sul volto nel bambino che di nasconde nella latrina, perché l’Olocausto è un argomento su cui non si può e non si deve distogliere lo sguardo, non a caso la scena simbolo del film, ruota proprio attorno a questo.

Le cose non potrebbero peggiorare, o forse purtroppo potrebbero.

Olivia Dabrowka all’epoca aveva tre anni, Spielberg la scelse per un ruolo destinato a diventare tra i più iconici della storia del cinema, proteggendola con un atteggiamento quasi paterno, un po’ come Kubrick con Danny Lloyd in Shining, non a caso uno dei grandi idoli del regista di Cincinnati. Spielberg spiegò alla piccola attrice che era tutto un gioco, una finzione come il cinema stesso, implorandola di non vedere mai il film finito fino alla maggiore età. Promessa infranta da Olivia Dabrowka che finì per vederlo a scuola, all’età di undici anni restando anche piuttosto turbata, ci sono voluti anni per lei per diventare orgogliosa dell’aver preso parte ad un film e ad una delle scene più famose della storia del cinema.

Un momento doloroso ma necessario, per noi e per Oskar Schindler, che nella folla e tra la morte del rastrellamento, vede una bimba dal capottino rosso, una scelta cromatica che per Spielberg rappresenta due cose, la prima una metafora del fatto che ai tempi, non vedere cosa stava succedendo era impossibile, come non notare una bambina vestita di rosso in un film in bianco e nero, la seconda una colta (doppia) citazione. Akira Kurosawa in “Anatomia di un rapimento” (1963) non solo strizzava l’occhio alla bandiera rossa, del propagandistico ma fondamentale “La corazzata Potemkin” (1925) di Eisenstein, ma chiedeva al pubblico di focalizzare la sua attenzione su quel dettaglio chiave per l’intreccio. Per Spielberg il rosso è politico come per Eisenstein e invita il pubblico a non distogliere lo sguardo (come del resto fa anche Schindler) seguendo la lezione di Kurosawa. Lo fa utilizzando una falsa soggettiva, perché come spettatori possiamo seguire la bambina anche quando entra dentro il palazzo, Schindler dal suo punto di osservazione non potrebbe mai vederla nascondersi sotto il letto, noi si, siamo noi che vediamo il suo cappotto tornare in bianco e nero, forse al sicuro, forse salva, o forse no come dolorosamente ci verrà sbattuto in faccia a tradimento più avanti. Il cinema, quindi la finzione, al suo meglio e al servizio della memoria di tutti, provate a dimenticarlo dopo aver visto questa scena.

A mani basse tra le scene più iconiche della storia del cinema.

Il percorso umano e personale di Oskar Schindler è tormentato, quando qualcuno si presenta al suo ufficio cercando salvezza, lui lo caccia via, ricordando di essere per prima cosa l’imprenditore di una fabbrica dove si lavora. Per certi versi lo stesso tormento sfoggiato anche da Spielberg nella sua ritrosia a dirigere questo film, ma allo stesso modo, regista e personaggio, quando poi hanno compreso l’importanza del loro rispettivo ruolo, ci si sono dedicati anima e corpo. Non è un caso se la trasformazione, l’ultimo gradino della cresciuta di Oskar Schindler arrivi con un pianto liberatorio, con la disperazione di chi ha capito che avrebbe potuto fare anche di più. Il personaggio che faceva buon viso a cattivo gioco alle feste con i nazisti e il regista dei nostri sogni d’infanzia, che ci fanno percorrere insieme a loro lo stesso doloroso e fondamentale percorso nella memoria, vedere per capire, vedere per non dimenticare e al cinema, lo sguardo è sempre il più importante tra tutti i sensi.

L’arco narrativo del protagonista ora è completo.

L’altro, l’udito, in linea di massima qui viene accarezzato dalla colonna sonora di John Williams, sontuosa, l’ennesima composizione di un Maestro che al pari di Spielberg, qui trova un altro modo per imprimersi nella nostra memoria collettiva, tanto che il finale è tutto per lui, la sua musica accompagna il ritorno del colore e l’ultima mano, a posare un dono sulla tomba del vero Oskar Schindler è quella di Liam Neeson (storia vera), giusto per ribadire che il cinema qui, è totalmente al servizio della memoria.

Sono passati trent’anni dall’uscita di “Schindler’s List”, la definitiva consacrazione per Spielberg come Autore con la “A” maiuscola, tanto che Kubrick dopo, cancellò la produzione del suo “Aryan Papers” perché aveva capito che le grandi ambizioni del film di Spielberg, erano state non solo rispettate ma anche raccontate in maniera definitiva, fatte arrivare al grande pubblico nel modo più diretto possibile, nella sua parola ci sta tutta l’incredibile portata di questo film: «L’Olocausto riguarda 6 milione di persone uccise, “Schindler’s List” di 600 persone che non lo sono state.»

Chi salva una vita, beh il resto lo conoscete.

A volte l’unico modo è affrontarlo l’orrore, qui lo sguardo di uno dei più grandi registi viventi è al servizio di un compito nobile ma difficilissimo, solo Spielberg poteva muoversi dalle luci dei bei ricordi cinematografici al buio del punto più basso della morale umana, restando comunque il grande uomo di cinema che è sempre stato. Spesso si usa la frase fatta su un film, finendo a definirlo “indimenticabile”, questo è l’unico che lo è doverosamente, se necessario anche dolorosamente, ma per davvero.

Sepolto in precedenza mercoledì 1 marzo 2023

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