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Secretary (2002): Il piacere del dolore

Ho sempre pensato che il lavoro fosse la più articolata e
radicata forma di masochismo per le donne e gli uomini di questo gnocco
minerale che ruota attorno al Sole.

Pensateci: ti svegli presto la mattina, abbandoni la persona
amata e tutte le tue care cose per andare a fare qualcosa per un numero
esageratamente alto di ore al giorno, ogni giorno, tutti i giorni, per
quarant’anni, forse anche di più. Se ti va bene al lavoro hai qualche collega
simpatico, il più delle volte non è affatto così, legato mani e pieni al ruolo
di schiavo volontario, due settimane all’anno di ferie e se fai il bravo magari
una promozione, più soldi per comprare cose che tanto non potrai usare, visto
che stai sempre al lavoro.
Per non parlare di cosa avviene all’interno di quel
rebus complicatissimo, stile scatola di Lemarchand che si chiama posto di
lavoro. Un intricato gioco di ruolo in cui vorresti mandare tutti a quel paese,
ma devi stare incasellato nel ruolo che ti hanno assegnato, in un rapporto di
dominazione a sottomissione ad un Cenobita che tutti chiamano signor direttore
che se ti va bene può essere un padrone magnanimo, ma anche in questo caso,
pensate mica di essere nati fortunati? Il lavoro nobilita l’uomo e lo rende
simile alla più grande forma di BDSM legalizzata e moralmente riconosciuta.

Ti capisco cara, non hai idea di che casino succede da me quando si blocca il server di posta.

Sì, perché se ti fai legare, maltrattare e sculacciare in
camera da letto sei perverso, se lo fai per mantenersi sei un lavoratore,
paradosso su cui si basano molte di quelle che una volta venivano considerate
patologie psicologiche e che nel corso del tempo, qualcuna di esse è stata
sdoganata tanto da diventare la norma.

In questo senso, Steven Shainberg ha descritto “Il piacere
della sofferenza” con l’aria giocosa di chi si approccia all’argomento del BDSM
senza moralismo e con il ghigno da Stregatto che dal suo ramo se la ride delle
tue sfighe di lavoratore masochista.
Non si parla mai molto di Steven Shainberg, uno che dà
l’impressione di dirigere un film solo quando ha davvero qualcosa da
raccontare, basta dire che tra il feticista ed impellicciato “Fur – Un ritratto
immaginario di Diane Arbus” (2006) con Nicoletta Ragazzino e Tony Stark nel
cast e il successivo Rupture, sono passati dieci anni. Ma la pellicola che ha
messo il nome (anzi cognome) di Shainberg sulla mappa geografica è stata la sua
quinta regia, “Secretary” del 2002.

“Eccola! Una bella recensione del film… ah no, è scritta da Cassidy”.

Di sicuro lo conoscete, ha una locandina che non passa
inosservata ed è anche un film che ha fatto parecchio parlare di sé,
specialmente in uno strambo Paese a forma di scarpa, dove le pellicole ad alto
contenuto di “Parola con le tre S” suscitano spesso più casino del necessario…
Italia, terra di santi poeti e moralizzatori. A ben guardarlo, però, “Secretary”
è ancora un film unico e molto riuscito, molto più classico nella forma di
quanto i benpensanti e la sua fama vorrebbero farci credere.

L’inizio è micidiale, come dico sempre i primi cinque minuti
di un film ne determinano tutto l’andamento, infatti “Secretary” inizia con Maggie
Gyllenhaal impegnata a sbrigare i lavori da ufficio della vostra normale
segretaria personale del capo, ma con collo e polsi intrappolati da una specie
di barra appendiabiti che gli esperti di BDSM (quindi non io) sapranno sicuramente
come si chiama, ma a vederla così sembra che sia esploso un armadio dell’Ikea
nelle vicinanze. Mentre la sorella di Donnie Darko si muove agile e felina
malgrado sto coso a crocefiggerla, il film pare già prendersi gioco di tutte le
vostre fantasie sulla sexy segretaria, mettendo in chiaro che qui tira un’aria
differenze e l’ironia ha certamente cittadinanza.

Non credo sia proprio questo il modo esatto di usare la
pinzatrice.

Salto indietro, prima di diventare una segretaria molto
particolare, la nostra Lee Holloway sembra la vittima sacrificale designata,
pronta a ritornare nel mondo dopo sei mesi passati in un istituto psichiatrico
è chiaramente fuori posto, tutta spalle curve, modi goffi e gonne volutamente
lunghe. Ad aspettarla a casa una situazione mica male: padre alcolizzato e
madre maltrattata. Chiaro che poi la ragazza torna alle sue vecchie abitudini
in meno di un minuto, tra i più disparati oggetti appuntiti e un bollitore
bollente, Lee si auto infligge dolore fisico per una sofferenza inespressa che
la ragazza ricaccia dentro di lei perché meglio nascondere e non fare rumore
shhhhh.

Tutto cambia quando per mettere a frutto il suo talento di
dattilografa, Lee risponde all’annuncio di un avvocato sui generis di nome E.
Edward Grey che ha il volto di James Spader e il nome che mi fa venire voglia
di dire una cosa, così, proprio dal profondo del cuore: Cinquanta sfumature di grigio? Puppa la fava! Ahh! Ora che l’ho detto su questo argomento lasciatemi
l’icona aperta che più tardi ripasso.
Tra i due personaggi, entrambi a loro modo complessati,
inizia uno strano rapporto di lavoro fatto di richieste denigranti, tipo andare
a ripescare un inutile plico di fogli dalla spazzatura (il tema del rovistare
nella monnezza torna nel film, metaforone suggerito di personaggi che scavano
dentro loro stessi, alla ricerca del loro vero io), fino all’apice delle
sculacciate per correggere errori di battitura, qualcuno involontario, altri,
anzi parecchi, molto volontari.

La voce del padrone.

Alla base della sceneggiatura di Erin Cressida Wilson, collaboratrice
di Steven Shainberg anche per “Fur”, c’è il racconto breve di Mary Gaitskill
intitolato “Bad Behavior” a cui, però, sono state applicate alcune
modifiche: nella storia la protagonista si chiama Debby Roe e il suo datore di
lavoro viene solo indicato come “l’avvocato” e tutto è ambientato nel Michigan.
Nel film, invece, la vicenda si sposta in Florida, la protagonista prende il nome
di Lee, mentre l’avvocato si chiama, come detto, E. Edward Grey, quindi
chiudiamola subito questa icona: la scrittrice E. L. James (pseudonimo di Erika
Leonard) avrà fatto pure i soldi con la trilogia di Cinquanta sfumature di grigio e i penosi film da esso tratti, ma ha
una conoscenza veramente approssimativa dell’argomento, perché se peschi il
nome del protagonista dal film più famoso sull’argomento, si capisce perché
i film hanno un quantitativo di sesso ridicolo, il BDSM è trattato in maniera
ottusa e grossolana e in generale fanno cagare a spruzzo, come dicono i
Francesi. Quelli eruditi, però! Forse, a ben pensarci, avrei dovuto commentare la
trilogia di “Cinquanta sfumature di grigio/nero/rosso/verde/giallo quella sarebbe stata un’altissima
forma di masochismo!

“Ti faccio vedere Cinquanta sfumature di grigio o vuoi altre sculacciate?” , “Le sculacciate! Vanno bene grazie!”.

Lee Holloway arriva sotto la pioggia con il suo cappuccio
(viola) ed entra nella tana di un lupo che poi è meno cattivo di quanto le sue
strambe abitudini lascino intendere, il suo comporre i numeri sulla tastiera
del telefono con una freccetta, seminare ovunque trappole per topi e prendersi
cura di orchidee in ufficio sono piccole ossessioni per tenere a bada il suo
ruolo di dominatore, in realtà una maschera dietro cui nascondere l’insicurezza
(«Io sono timido» , «Lei non è timido, è un avvocato»).

Due personaggi incompleti, complessati e frustrati che a
colpi di frustate riusciranno insieme a far venire fuori il loro vero io, in
una struttura che più classica di così non sarebbe possibile, perché di fatto “Secretary”
è la classica storia d’amore cinematografica, sono i modi ad essere originali,
anzi a dirla meglio: sono personalizzati attorno ai personaggi. In un altro film
sarebbero elementi esterni ad impedire all’amore di trionfare dando spazio al
lieto fine, roba tipo famiglie opposte (tipo “West side story” 1957) o la
malattia (come in “Love story” 1970), mentre qui sono cause interne ad impedire
ai due di stare insieme, per prima cosa Lee e Grey devono accettare le loro
naturali pulsioni.
Ad esempio, il fidanzato di Lee, Peter (il Jeremy Davies di
“Salvate il soldato Ryan” e Lost) è
talmente canonico da risultare inadatto per la ragazza, non che lei non si
sforzi di farselo piacere, in fondo ai suoi genitori piace, quindi dev’essere
per forza la scelta migliore, no? Ecco no, perché Steven Shainberg è bravissimo
a giocare con l’attesa del pubblico e con i suoi personaggi.

“Il suo caffè, doppio, macchiato freddo, con zucchero di canna e sculacciate servite a parte”.

Come spettatori sappiamo che i due protagonisti sono
perfetti l’uno per l’altra perché aderiscono alla perfezione al
canone di dominatore e sottomessa, il problema è che prima lo devono capire
loro, ma allo stesso tempo accettare qualcosa che cultura, famiglia e ambiente
hanno imparato essere meglio tenere nascosta e sopita. Lee è spavalda nel suo
essere sottomessa, accetta di buon grado tutte le critiche dell’Avvocato che
l’accusa di tirare su con il naso e di vestire in modo disgustoso, la ragazza
invece di farsi abbattere fiorisce e Shainberg è bravissimo a portarci tutti
per mano fino alla scena chiave, quella della prima sculacciata che è il
momento esatto in cui i protagonisti capiscono di essersi finalmente trovati.

In questo senso, “Secretary” è un film che tratta la
questione del BDSM senza moralismi tenendosi a distanza da pruriginosi falsi
miti su questa pratica, anzi “Il piacere del dolore” è portato in scena in
maniera giocosa e non senza ironia, non a caso quando finalmente Lee e Mr.Grey
iniziano a fare sul serio, parte un training montage degno di Rocky, solo con
più selle da cavallo e variopinti oggettini al posto dei guantoni da boxe, la
scelta musicale è azzeccatissima, “I’m your man” di Leonard Cohen che non
credo necessiti di particolari presentazioni, basta dire «And if you want a
doctor, I’ll examine every inch of you», no direi che è assolutamente perfetta
per l’atmosfera del film.

Ragazzi, poi fate come volete, ma non è così che si gioca ai cowboy!

A proposito di musiche, non dimentichiamo la colonna
sonora di Angelo “Twin Peaks
Badalamenti, il cui tema principale ha un andamento ondivago, quasi
orientaleggiante, una roba che pare muoversi al ritmo del corteggiamento, se
non proprio dell’inciucio vero e proprio? Si dice inciucio? Vabbè, dai ci siamo
capiti.

Ma dopo la sbornia iniziale, come in quasi tutti i rapporti,
anche per i nostri protagonisti arriva una fase di bassa marea ormonale, con
lui che la tratta come vecchia segretaria e lei le tenta tutte, pur di
provocarlo per farsi nuovamente punire come prima, perché i tentativi da sola
in bagno con la spazzola non sono la stessa cosa, un azzeccato metaforone del
rapporto di coppia che per funzionare deve passare anche attraverso momenti
così, prima di potersi considerare davvero completo.
L’ultima parte, forse, cerca un umorismo che non sempre
arriva, o che forse era più divertente negli intenti originali che nella messa
in scena: la sfilza di parenti, amici, preti e femministe che cercano a turno
di convincere Lee ad interrompere il suo sciopero autolesionista, allargano il
cerchio dei due protagonisti ad altri personaggi che c’entrano poco, ma che
ribadiscono che “Secretary” è il più romantico film sul BDSM che sia mai stato
fatto, perché il finale sembra quello di qualunque commedia romantica con che
so, Molly Ringwald giusto per fare un nome, solo con molto più sadomasochismo.

Prima ti sposo poi ti rovino frustino.

Impossibile non citare i due protagonisti, fondamentali per
la riuscita del film. James Spader è bravissimo a portare in scena tutti i tick
del suo personaggio, inoltre Spader è un professionista unico nel suo genere,
dà sempre la sensazione di uno che potrebbe essere tipo il più grande attore
del mondo, se solo non fosse impegnato a fare altro, che so tipo vivere la sua
vita senza particolari grilli da divo per la testa, in questo senso è l’attore
perfetto per un regista come Steven Shainberg.

Parliamo dello stesso attore che sale agli onori del grande
pubblico con il nerd di “Stargate” (1994), ma poi non ha paura di rischiare con
film difficili e dall’alto contenuto di “parola con le tre S” come Crash di David Cronenberg.

Quando c’è del torbido nell’aria, ciccia fuori James Spader.

Ma la migliore è proprio Maggie Gyllenhaal che grazie al suo
ruolo in questo film si è affermata portandosi a casa anche svariati premi, se
Spader non è arrivato tardi il giorno in cui distribuivano il coraggio agli
attori, quel giorno al banchetto per la consegna del coraggio forse c’era Maggie
Gyllenhaal, un’altra che ha dimostrato anche recentemente nella serie tv The Deuce, dà il meglio quando
l’argomento della trama si fa adulto. Qui è semplicemente perfetta nel
trasformare il suo linguaggio del corpo da goffa ragazzina insicura (il
doppiaggio italiano accentua questo dettaglio) a donna sicura di sé, dico
sempre che la trovo piuttosto sensuale anche senza essere bella come il canone
della vostra attrice media di Hollywood impone, ma a dirla proprio fuori dai
denti: più bella di come compare in questo film non è mai stata, in un’immedesimazione totale con il suo personaggio.

Alla fine il messaggio di “Secretary” è piuttosto chiaro,
gioioso anche nel suo essere assolutamente non moralista: l’amore non deve
essere per forza tenero, o ancorato ai canoni della convenzione, deve essere
giusto, deve adattarsi alla perfezione alle persone e bisogna essere, anche
fortunati, per trovare la persona giusta con cui esprimerlo, allora si può
essere davvero “Il piacere del dolore”.

Questo post fa parte dello speciale di
The Obsidian Mirror intitolato The pleasure of pain!

Quindi proprio oggi, trovate questo pezzo anche sulla pagine di The Obsidian Mirror, ma non perdetevi anche tutti gli altri capitoli già pubblicati fino a questo momento!

The Hellbound Heart di Nick Parisi
Il dolore di essere Masoch (Pt.1) di Lucius Etruscus
Il dolore di essere Masoch (Pt.2) di Lucius Etruscus
Il dolore di essere Masoch (Pt.3) di Lucius Etruscus
Religione e sofferenza di Ariano Geta
Il sacrificio umano e l’autosacrificio nella cultura azteca di Alessia H.V.
Masochisti fino all’ultimo di Donata Ginevra
L’impero dei sensi di Pietro Sidoti

Ma lo speciale continuerà per tutto il mese, quindi state pronti con il gatto a nove code!

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