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Sei donne per l’assassino (1964): quest’anno va fortissimo il Giallo

Ho iniziato questa tradizione lo scorso anno, ci tengo a portarla avanti nel pieno della “Spooky season” di ottobre, perché se tutti conoscono Sergio Leone, in questo strambo Paese a forma di scarpa il nome di Mario Bava, che meriterebbe la stessa fama, è ancora relegato alla nicchia di noi fanatici, quindi oggi e la prossima settimana, festeggiamo due compleanni belli grossi pescando dalla sua filmografia, bentornati a… Il Bava Volante!

Quando si inizia a discutere su quale film abbia dato vita ad un genere, spesso di finisce a coltellate, perché spunta sempre il cagacaz… Ehm, il precisino che con fastidiosa voce nasale (me li immagino così) ti dice: «Hai dimenticato quel titooooolo», per non parlare delle date, delle fazioni, di chi patteggia per un regista piuttosto che per l’altro, insomma un bagno di sangue. Quando si parla di Giallo all’italiana, le chiacchiere invece stanno a zero, lo ha creato Mario Bava e i cagacaz… Ehm precisini, MUTI!

Per amore di precisione, bisogna comunque fare un piccolo passo indietro agli anni ’50, primi anni ’60 e ricordare l’influenza fondamentale dei Krimis tedeschi, abbreviazione per Kriminalfilm o Kriminalroman, essenzialmente gialli investigativi tratti dai romanzi dell’inglese Edgar Wallace, recitati dalla stessa banda di attori e da un paio di registi specializzati come Harald Reinl oppure l’imprendibile Alfred Vohrer, che ne vanta addirittura quattordici nella sua filmografia. Il gioco lo conosciamo, l’industria cinematografica italiana del tempo guardava spesso all’estero per replicare, rigorosamente a basso o bassissimo costo, titoli popolare altrove, puntando poi all’esportazione all’estero dei film e Mario Bava come tutti i suoi colleghi del periodo era regista di “sistema”, anche lui sul curriculum ha le sue commedie con Franco e Ciccio, i suoi Peplum e i suoi Western, però di fare un whodunit alla moda dei teutonici, aveva come dire, un interesse limitato, al regista sanremese interessava altro.

Mario Bava, quando lo stile è anche la sostanza.

Produzione messa su con i soldi provenienti da Italia, Francia e Germania, distribuito all’estero con vari titoli, il più popolare “Blood and Black Lace” per Mario Bava “Sei donne per l’assassino” è stato un film in cui il regista ha potuto contare su una grossa libertà creativa, garantita dal successo de La maschera del demonio e I tre volti della paura, anche se il film più vicino per sensibilità a questo resta La ragazza che sapeva troppo, che è il titolo con cui Bava ha sparso in giro i semi del Giallo all’italiana che poi avrebbe coltivato e fatto germogliare con il Classido di oggi. Il mio omaggio ai colori intensi della fotografia di Ubaldo Terzano è il logo rosso qui sotto.

Mi concedo una piccola deviazione, un breve riassunto del perché a mio avviso, Mario Bava si meriterebbe di essere ricordato alla pari di Sergio Leone, se dovessi spiegare i meriti del suo cinema a qualcuno che non lo ha mai sentito nominare (purtroppo tanti) avrei tanti argomenti, ma il principale sarebbe questo: il mercoledì Mario Bava si annoiava, uffa che barba il fine settimana è ancora lontano! Quindi cosa faceva? Inventava generi cinematografici. Ok, i fatti non si sono svolti proprio così, ma il risultato non cambia, dopo aver creato da solo il Gotico italiano, Marione nostro con due titoli ha fondato il Giallo all’italiana dando così il via alla carriera di uno che invece in Italia e all’estero è famosissimo, Dario Argento non avrebbe mai avuto una carriera senza le idee create prima di lui da Bava. Non pago poi il regista sanremese avrebbe ispirato “Alien”, creato i Cinecomics in tempi non sospetti, il genere Slasher e poi con il titolo della prossima settimana, anticipato molto nel noir e neo-noir con i piedi ben piantati nel genere che va ancora fortissimo oggi. Se vi sembra poco tutto questo, allora io non vi conosco e non ho nemmeno voglia di conoscervi, torniamo al film di oggi.

«Queste premesse infinite di Cassidy mi soffocano»

Dell’indagine poliziesca dietro alla serie di omicidi nello scintillante atelier di moda a Marione nostro, interessava il giusto, tanto che questo elemento passa quasi in secondo piano, rispetto ad dettagli che rivisti oggi, a sessant’anni esatta dall’uscita del film, sono stati totalmente assorbiti diventando canone del genere, che poi è il problema (che non è tale) di tutti i film archetipici, rivisti dopo rischiano di sembrare identici a tutti gli altri che nemmeno esisterebbero senza il modello creato. In questo caso da Mario Bava che ha puntato tutto su estetica ed elementi a contorno dell’indagine, il risultato? Uno degli esempi più clamorosi di film di puro genere che si fa arte, se non proprio autorialità a pieno titolo.

La prendo alla lontana, partiamo da un elemento di contorno, gli oggetti, sulle note di Carlo Rustichelli, i titoli di testa sono una stilosa carrellata sul cast del film, modelle, proprietari dell’atelier e investigatori vengono presentati immobili, come manichini in un film di oggetti, che oggettivizza i personaggi. Se il connubio modella/manichino e fin troppo facile, fateci caso, ogni personaggio dipende da qualche oggetto, c’è quello in fissa per la “sostanza” mai citata di cui in tanti fanno uso, che la cerca ossessivamente per tutto il film, ci sono borse e soprattutto diari su cui mettere sopra le grinfie e da distruggere, lo stile del film ben si adatta all’ambientazione e quella vena di critica non fa di certo male, il tutto senza la minima morale.

Fashion victim.

Se il genere cugino del Giallo all’italiana, ovvero lo Slasher, era caratterizzato da un’entità moralizzatrice, venuta a punire (a coltellate) chi si lasciava andare in atteggiamenti edonistici tipici dell’America degli anni ’80 (non a caso luogo e decennio dove il genere ha attecchito di più), Mario Bava qui dipinge, come poi avrebbe rifatto nel proto-Slasher fondatore del genere Reazione a catena, un mondo spietato privo di una mente folle dietro agli omicidi, alla fine qui c’è solo il grigio squallore dell’avidità umana e proprio per questo il film resta ancora così attuale, certi elementi chiave dell’animo umano restano identici a tutti le latitudini dello spazio tempo.

A Mario Bava interessa così poco l’indagine e la risoluzione del mistero che per certi versi, a suo modo sbandiera la soluzione direttamente nel titolo del film, anche se poi in molte locandine italiane, di donne per l’assassino, ne ritraevano solo quattro. Il regista sanremese qui punta tutto su quello che poi sarebbe diventato un classico anche nel genere cugino, ovvero il “Bodycount”, la conta delle morti che qui avvengono tutte con la massima cura, ognuna è diversa dalla precedente e sempre più efferata, ad ogni omicidio viene dato il giusto tempo prima, per la costruzione della tensione prima di culminare nella morte, di volta in volta più barocca e violenta, tra vasche da bagno che si tingono di rosso e facce bruciate.

Il rosso nei film di Bava, non esiste niente della stessa bellissima tonalità.

L’altro elemento divenuto canonico nel genere e creato da Mario Bava ruota intorno all’aspetto dell’assassino, Dario Argento avrebbe rubacchiat… Ehm, replicato identico in molti dei suoi lavori quella mano avvolta in guanti di pelle nera che brandisce coltelli, che strangola gole, che esce dal buio ed è costante fonte di terrore, forse anche più della non-faccia, la maschera completamente bianca che annulla l’espressività (quindi l’umanità) dell’assassino del titolo, altro elemento che avrebbe influenzato lo Slasher che verrà, per non parlare del cappello.

È un fatto noto che alla ricerca di un aspetto minaccioso per il suo assassino da sogno, Freddy Krueger, abbia pescato anche dal cappellaccio nero che Bava aveva messo in testa al suo iconico assassino in questo gioiello, che sapeva far culminare ogni omicidio in un climax di tensione, creata essenzialmente solo grazie ai movimenti e alle prospettive della macchina da presa.

Nessuno ha mai fatto più paura con una borsa per la spesa in tela in testa.

Ovviamente alla sua uscita la novità sconvolse tutti, “Sei donne per l’assassino” ad esclusione del furto di cavalli, è stato accusato di tutto, sadismo, eccessiva violenza, misoginia, anche perché Bava era arrivato prima di tutti là dove anche altri registi hanno dovuto poi difendersi dalle stesse accuse, esiste ben poco di più cinematografico di una donna in pericolo sul grande schermo, è la sfortuna dei pionieri, infatti dopo lo scarso successo al botteghino italico, dovuto alla manifesto futurismo del cinema di Bava, il nostro ha ripiegato su un Wester come “La strada per Fort Alamo”, soldini facili per un lavoro firmato sotto pseudonimo.

Eppure Padre Tempo, il miglior critico cinematografico del mondo, avrebbe dato ragione al nostro e ci tenevo moltissimo ad avere questo Classido qui sulla Bara, prossima settimana, altra razione di Mario Bava, non mancate!

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