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Shining (1980): Shine On You Crazy Jack!

Vi abbiamo mai fatto mancare niente su questa Bara? Non avete sempre trovato un posto caldo dove sdraiarvi e qualcosa da leggere per passare il tempo? Allora potevamo forse negarvi un post scritto da Quinto Moro tutto dedicato a “Shining”? Stendete le gambe, mettetevi comodi e godetevi la lettura, non sarà una cosa breve.

Shining. Ne ho sentito parlare per tutta l’infanzia, e quando sono riuscito a vederlo verso il 2000 me lo aspettavo più eccessivo e spaventoso, ma l’idea che mi ero fatto si avvicinava molto al tipo di pellicola, basata su tensione e paura piuttosto che sul vero e proprio horror. Almeno non quello più caciarone e splatter con cui ero cresciuto, dagli incubi su Elm Street alle pessime estati a Crystal Lake.

Mi affascinò enormemente, specie in un paio di scene che ancora oggi mi danno i brividi. È diventato uno di quei film che rivedo regolarmente, ancora oggi non riesce a stancarmi, come dimostra la doppia visione per questo commento tra la cara vecchia vhs (che ha l’oro in bocca, come il mattino) e per la prima volta al cinema, in versione estesa (all dubbing and no cuts make Jack a dull boy).
Il problema di Shining è che tutti ne hanno già parlato. È stato aperto e smontato pezzo per pezzo. Ma l’uscita di Doctor Sleep era l’occasione giusta per farlo dentro la cara Bara. I claustrofobici possono tenere il coperchio aperto.

Visto che non vogliamo clonare un articolo di wikipedia, nelle prossime 237 pagine parleremo di quello che ci pare. Criticheremo cominciando dai critici. All’uscita nei cinema Shining fu da subito amato dal pubblico ma snobbato dalla critica. Il nostro Special K c’era già passato con “2001: Odissea nello spazio”, ma qui si arrivò alla lesa maestà, con la nomination ai Razzie Awards per la regia di Kubrick. Critici. Brutta gente. Specie quelli di professione (quelli veri, non come noi spiantati che cianciamo su infernet) misurano il cinema su quanto hanno già visto. Innovazioni e bizzarrie raramente vengono accettate e certi capolavori vengono fatti a pezzi (l’avete capita? Accettate… fatti a pezzi…)
Per fortuna, se Jack Torrance è come Ralph, il tempo è come Felix, aggiusta tutto.
“Un’altra battuta così e ti metto alla porta, poi la apro a modo mio!”, “Non ti scaldare Jack, la smetto con le freddure. Se mi cerchi sono nel labirinto” (tripla battuta con doppia citazione carpiata e spoiler finale)
I “vecchi” critici tirano le cuoia come tutti gli altri. Alcuni sono duri a morire, ciondolano un po’ come gli zombi, sbranando pellicole senza sentirne più il gusto. Poi ne arrivano altri che sono stati giovani – perfino vivi – quando un film è uscito, l’hanno amato e visto con occhi diversi. Molti critici cercano invano il futuro e non lo riconoscono quando gli passa sotto il naso, tanto sono concentrati a giudicare il cinema presente con quello passato. Ma chi viene dopo legge la società e i contenuti in modo diverso. Altri autori citano e imitano, così arrivano le riabilitazioni, gli osanna e i cherubini che squillano le trombe. Proprio Shining ha goduto del fantastico omaggio di Spielberg in Ready Player One, inno alla cultura pop di un trentennio, prendendosi un altro pezzetto d’immortalità presso un pubblico più giovane. Ma era già leggenda, perché come diceva il buon vecchio Stephen HawKing, se sei apparso nei Simpson, ti fai una ragione di non aver vinto il Nobel per la fisica (o per la letteratura).
Famiglia Cristiana Americana
Ho una teoria sociologica (eeeeeh i paroloni) sul perché Shining sia rimasto così attuale. Non mi vengono in mente molti vecchi film con padri maniaci che vogliono massacrare la famiglia. Dal 1980 ad oggi, la società si è sempre più ribellata al guscio di omertà sui maltrattamenti domestici, perciò la follia di Jack Torrance non sembra più tanto irrazionale e soprannaturale. Il nuovo millennio ha sdoganato la presa di coscienza verso generazioni di padri violenti. È stato abolito il delitto d’onore (anche se a molti bisogna spiegarlo), i divorzi sono più veloci e non fanno più scandalo, mentre le denunce per i maltrattamenti, beh, finalmente si fanno. Si parla di femminicidi, c’è il reato di stalking e la legge sul codice rosso. Nel mondo cinema c’è stato il #metoo, e qui bisogna aprire una parentesi se King per primo definì misogino il trattamento che Kubrick aveva riservato al personaggio di Wendy. Ma nell’idea di un inferno domestico la cosa ha perfettamente senso.

Shining è un horror con elementi soprannaturali, ma è un credibile inferno casalingo. Merito più di Kubrick che di King, che infatti non ha mai apprezzato il film, non tanto per i cambiamenti al finale ma proprio nel modo in cui Jack era stato cambiato. Che io trovo anche comprensibile, perché quando scrivi un personaggio gli dai un pezzetto di te stesso, ma empatizzare col mostro non avrebbe reso il film così efficace.

“Lo vuoi capire, che questo è il MIO film, la MIA responsabilità! O vuoi vedermi a girare commedie di natale, o i video dei matrimoni? È questo che vuoi per me?”
Il Jack Torrance di King è un insegnante fallito con problemi di alcolismo, e l’alcolismo è il demone intorno a cui ruota buona parte del romanzo (come il sequel Doctor Sleep). L’alcolismo prima, e le influenze maligne dell’Overlook poi, andavano a “giustificare” la follia di Jack.
A Kubrick, dell’alcolismo di Jack non fregava assolutamente niente. Le scene in cui beve non servono a mostrare il cattivo influsso del “demone nella bottiglia”. Kubrick ha colto l’orrore di Shining: una famiglia in cui l’elemento paterno, che dovrebbe essere protettivo, diventa la minaccia numero uno. L’Overlook Hotel è la metafora perfetta di un ambiente domestico tossico: isolato, senza poter chiedere aiuto al mondo esterno.

L’altro colpo a segno è stato tenere il focus su Danny, là dove il romanzo dava spazio ai vari personaggi, restando più saldamente su Jack. Ma Shining funziona per la continua identificazione dello spettatore con Danny, specie nella prima parte. È Danny che ci introduce all’elemento soprannaturale, è attraverso lui che ci sentiamo minacciati dalla follia del padre. La parabola di Jack Torrance è vista con distacco, e se nel romanzo ci sta a cuore anche il destino del tormentato Jack, nel film è difficile empatizzare con lui, eretto a minaccia assoluta. Non c’è un solo istante in cui Jack paia lottare con le forze oscure dell’Overlook, o cerchi di redimersi, e noi non ci speriamo nemmeno.
“La gente pensa che io sia una persona strana. Non è vero. Ho il cuore di un ragazzino. Si trova in un vaso di vetro, sulla mia scrivania” (Il vero Jack Torrance. Guardatelo bene, è uguale! Vuol nascondersi dietro gli occhiali ma io non ci casco)
A differenza del nostro amichevole Cassidy di quartiere, che tutto legge e tutto sa del Re, gli unici due libri che ho letto di Stephen King sono Shining e il suo seguito, Doctor Sleep. Ho letto il romanzo molti anni – e molte visioni – dopo il film.

Per me, i film più interessanti non sono quelli più fedeli ai libri, letteratura e cinema hanno tempi e modi di raccontare diversi, ma possono completarsi. Shining è uno degli esempi perfetti (un altro che mi viene in mente è Fight Club), che si discosta dal romanzo quanto basta per rendere il film un’opera a sé, rispettosa entro i limiti che non danneggino l’intrattenimento in sala.
1997: Fuga dalla lucentezza (“volevi dire luccicanza!?” Cit.)
Vi avevo avvertiti, parliamo sì di Shining, ma dei suoi dintorni sozzi e scuri, come sobborghi in cui si compiono empi riti di blasfemia. Tipo la miniserie tv del ’97. 
Erano anni d’oro per il buon Stewie King. Qualsiasi cosa uscita dalla sua penna veniva schiaffata in tv, da “It” in giù gli adattamenti si moltiplicarono come neri ratti appestati, col vello arrossato e reso ispido da sangue rappreso. Ma tra tanti prodotti più o meno validi, spuntò l’orrore di “The Shining” (1997).
Non fatevi ingannare, è tipo l’unico fotogramma degno della miniserie.
Sarò onesto, non avrei retto ad una seconda visione completa, perciò mi sono rinfrescato la memoria con l’avanti veloce. Penso abbia avuto uno dei peggiori casting tra gli adattamenti kinghiani: Mr. Halloran sembra un jazzista barbone, Wendy una biondona uscita da Playboy, mentre quel bambino… quel fottuto bambino coi capelli a scodella, suscita un odio più profondo delle viscere di Cthulhu. Sorvoliamo sulla drammaticità della mazza da roque (alzi la mano chi l’ha visto ed è riuscito a non pensare a The Mask), non vi sto a dire quanto è ridicola la scena della porta sfondata. Anzi ve lo dico, perché c’è lui che si butta a martellare, imitando vagamente la posa di Jack Nicholson, e quel martellozzo di legno che rimbalza sulla porta graffiandola appena, poi stacco frontale su un foglio di compensato da tre millimetri. Imbarazzo e facciapalmi a go-go. Il bulletto Harry Bowers col coltello a scatto mi faceva ben più paura. Poi c’erano delle perle negli effetti speciali, tipo la “manichetta serpente”: mi ricordo la mia reazione alla prima visione di quella scena, metteva subito in chiaro che sarebbe stata una boiata. E infatti, tra siepi animalesche e le maschere nel party dei morti fu davvero una brutta roba. Ma King era soddisfatto, e i torti di Kubrick vendicati. Contento lui.
Room Rum 237 – Ubriachi complottisti interpretano Kubrick
La scomparsa prematura di Kubrick ha portato alla celebrazione del suo mito nel ventennio successivo. Ed era già celebrato prima, forte di un trentennio in cui i registi raggiungevano lo status di superstar. Ma nell’epoca del complottismo da social media, c’è chi è mentalmente disposto ad accettare qualsiasi supposizione (l’avete capita? Accettare mentalmente, nel senso, accette, e non seghe… mentali. No Jack, nooo, metti giù l’ascia, la smetto!)
Nel 2012 è uscito il documentario “Room 237”. E perché non “Redrum 237”. O soltanto “Rum 237” visto il tasso di alcolico insito in certe teorie. Oh, poi non manca di lanciare spunti interessanti e nuove chiavi di lettura, ma ci sono forti eccessi. A turno, Shining diventa: un film sullo sterminio dei nativi americani, la confessione di Kubrick per aver girato il finto sbarco sulla Luna, un film sull’olocausto, e le incursioni del piccolo Danny col triciclo sintetizzano una proiezione ortogonale in cui si può decodificare il lato B del genoma umano e le sue traslazioni intrinseche basate sul moto dei pianeti che hanno portato gli antichi egizi a posizionare in linea le piramidi di Giza. Pare che grazie al film sia stato fondato un istituto professionale per l’addestramento di operai abili nell’uso di motoseghe mentali, con cui estrarre dal legno dell’accetta di Jack Torrance una resina che curi per il cancro al cervello dei piccioni.
Complottista 1: “Visto? Non siamo mai andati sulla Luna!” Complottista 2: “E’ una prova schiacciante!” Io: alzo lo stereo e canticchio “Rocket maaaaaan / burning out his fuse up here alone”
Di “Room 237” condivido l’idea che Shining sia l’opera di un genio annoiato, che dal romanzo prende le cose che gli interessano. Il vaffanculo di Stan a Stewie arriva nella tormenta che riporta Mr. Halloran all’Overlook Hotel, col cuoco bloccato nella tormenta per via dell’incidente a un Maggiolino Volkswagen rosso. Il maggiolino rosso era l’auto originale del romanzo, mentre nel film di Stan l’auto di famiglia è un Maggiolone Giallo. Sottigliezze da genio o seghe mentali di chi cerca il pelo nell’uovo, ma tra le tante ipotesi e indizi nascosti, veri o presunti, questo ha senso se Kubrick spende un’intera inquadratura per il Maggiolino rosso.

Tutta la faccenda sulle lattine con la faccia dell’indiano mi è parsa ridicola, gli arredi dell’albergo sono pregni dell’arte nativa, ma da qui a leggerci una critica storico/politica ce ne vuole. Anche perché l’Overlook è costruito su un cimitero indiano e nell’economia del racconto, del luogo maledetto che vuole uccidere i suoi occupanti, preferisco associare questo elemento in chiave più sovrannaturale.
Un Vero Americano non piange mai sul sangue versato, se non è il suo.
Molti discorsi vengono fatti sulle scene tagliate, il che ha anche poco senso se si va a cercare significati su qualcosa che di senso, per il regista, non ne aveva abbastanza da finire nel montaggio definitivo (su questo ci torniamo).

C’è poi la manna dei cospirazionisti: il castello di neve riguardo al falso sbarco sulla Luna. Che sono pure divertenti da ascoltare, come le accette mentali di Roberto Giacobbo, che saprebbe trovare indizi sul Santo Graal nella moquette dell’Overlook. Per me il semplice gusto estetico di Kubrick ha prodotto delle cose fuori dal comune (come la scena di Danny col maglioncino dell’Apollo 11 che mi ha sempre affascinato). La versione più credibile della storia è che sì, Kubrick abbia girato lo sbarco sulla Luna, ma era così pignolo che volle girare il tutto sul posto.
“Sheeelley, dobbiamo ripetere la sceeena”, “Stan! Ti prego! Nooo!”
Si scrive Shining, si legge casting. 
Avere Jack Nicholson aiuta, ma quando devi ingaggiare un bambino puoi incorrere in un grande successo o un brutto flop (chiedere a George Lucas). Ma spesso i bambini nei film horror sono una rivelazione, e il piccolo Danny Lloyd (“salve Lloyd” cit.) fa spavento. Dal suo volto il terrore fluisce allo spettatore, con quegli occhi sgranati e il respiro sospeso rende angosciante e terribile il “dono” della luccicanza.

Shelley Duvall è il personaggio più lontano dalla controparte cartacea, dimessa, minuta e fragile. 
John Carpenter ha praticamente inventato la figura della final girl, ed è un dato di fatto che identificare un protagonista positivo “che ce la farà” abbia via via tolto forza ai vari cattivi del cinema moderno. Il cattivo emerge schiacciando la forza del buono, altrimenti non rappresenta una vera minaccia. E se il buono non ha forze, il cattivo è minaccia assoluta. La Wendy voluta da Kubrick è una donna schiacciata, distrutta dalla disperazione. Jack non arriva mai a picchiarla o metterle le mani addosso, ma dall’umiliazione verbale e le urla passa all’accetta. La sua condizione d’inferiorità esalta la negatività di Jack, come pure Danny che nonostante i suoi poteri resta un bambino indifeso (quando i bambini non erano armi di distruzione di massa stile Stranger Things).

Nel “Making the Shining” di Vivian (figlia di) Kubrick, si vede tanto il rigore e la severità di Stan nella direzione, quanto lo sfinimento di Shelley Duvall in certe situazioni, con alcuni rimproveri del regista nei suoi confronti. La fatidica scena della scala, venne girata per i celeberrimi 127 take, che non vuol dire rifare tutta 127 volte ma è comunque un fottìo di riprese. Pare Kubrick volesse una Wendy totalmente distrutta ed esasperata. Direi che per il film ha funzionato, per la Duvall un po’ meno, ma pare che anche Nicholson fosse rimasto provato dalle riprese, nonostante appaia all’apice del suo talento. Nel documentario troviamo anche la genesi di una delle scene più iconiche, con Kubrick che si sdraia per provare l’inquadratura di Nicholson che dà di matto dietro la porta.
La mia inquadratura preferita di tutti i tempi [Anche la più citata nella storia del cinema, Nota Cassidiana]
C’è poi il discorso del “final cut”. Vanno di moda le versioni estese, più per ragioni commerciali che artistiche. C’è chi ha costruito mezza carriera sulle versioni estese, da George Lucas che le fa per hobby, a Ridley Scott che con Alien e Blade Runner ha fatto pure qualcosa di interessante (coincidenza: tagliando da BR proprio il girato sulle montagne rocciose riciclato da Shining!)
Kubrick, dopo l’uscita del film ha pensato di mettere mano all’accetta e togliere tutto il superfluo, cambiato pure tono alla vicenda. Mi spiego: il discorso sull’alcolismo di Jack sparisce insieme a certi passaggi delle sue bevute al bar. Il racconto di Wendy sull’alcolismo già nei primi minuti identificava Jack come il cattivo. Senza quella scena, la follia di Jack è più subdola e senza nome, perciò più spaventosa. Togliendo parte del background oscuro al protagonista, appare la sola figura paterna che diventa minaccia.

La scena in cui Danny è “assente” e Wendy prende la mazza per andare a parlare con Jack toglie pathos alla scena madre della scala. Nella versione tagliata invece la troviamo smarrita nel salone, con la mazza baseball che ho sempre interpretata come una paura generica, anche verso la donna che aveva aggredito Danny (e gli spettri dell’Overlook), piuttosto che la minaccia specifica di Jack.
Gli altri tagli servono più che altro a snellire la narrazione.

p.s.: sulla “versione estesa” ridoppiata stenderei un velo pietoso. Nonostante Giannini abbia doppiato Nicholson, è l’unica voce familiare, e sarebbe stato meglio tenere tutto in lingua originale. I cambi di voce in scene tanto lunghe sono davvero fastidiosi.
Quando leggo la Bara Volante. Vi fa lo stesso effetto?
Chiudiamo levandoci il cappello per tutto il comparto sonoro, musiche ed effetti con note e suoni distorti prolungati che creano una tensione pazzesca, e valorizzano le singole inquadrature. Altra cosa che spicca è la fotografia, con quella sua luce diffusa in cui mancano quasi del tutto le ombre. L’assenza del buio è atipica in un film horror, ed è curioso che in uno dei più famosi e importanti della storia, sia stato completamente ignorato. Poi ho capito: la luccicanza! È la luccicanza che illumina tutte le scene! Ah, che genio Kubrick, che genio! Ha messo la luccicanza sotto i nostri occhi per tutto il film!
Lo so. È stato un commento romanzo piuttosto lungo, ma avendo a che fare con Stephen King non volevo far brutta figura. Prossimo delirio: Doctor Sleep!
P.S.
Mille grazie a Quinto Moro per aver recensito il film!
Vi invito tutti a passare a scoprire qualcuno dei suoi lavori, che potete trovate QUI.
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