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Sistemo l’America e torno (1974): Quasi amici (Arrivederci signor Villaggio)

Lo scorso 3
Luglio, il 2017 ci ha portato via anche Paolo Villaggio, comico che è riuscito
a strappare a tutti noi una risata. Con lo spettabile contributo della nutrita
cricca di blogger cinefili abbiamo messo su un lungo omaggio che si dipanerà
tra più blog, procedendo di titolo in titolo, con l’unico obbiettivo di rendergli
omaggio.

Quando si parla
di Paolo Villaggio, il primo nome che viene d’istinto di urlare è FANTOZZI
(vaccìù wari ah), ecco, poi, magari troverete qualche futurista pronto a citarvi Fracchia. Avrei potuto passare
direttamente a scrivere di uno dei film del ragioniere senza nemmeno bisogno di
ripassarlo prima, abbiamo tutti quelle ottantasei o ottantasette citazioni
tragicomiche da mandare a memoria, ma considerando che ho molto amato anche i
libri originali scritti da Villaggio, in cui Fantozzi faceva il suo esordio,
avrei rischiato di divagare davvero troppo.

Quindi, ho
preferito riscoprire un film di cui ho sempre sentito parlare e che non ero mai
riuscito a vedere, ovvero “Sistemo l’America e torno” scritto e diretto da Nanni
Loy, anche per un’altra ragione, di riffa o di raffa il film tratta l’altro
grande argomento che mi sta molto a cuore: la pallacanestro.



“We! Ma vuoi vedere che quel pirla del Cassidy adesso ci rompe i maroni con un’altro post sul basket?”.

Lo so che può
sembrare strano, ma questo strambo Paese a forma di scarpa (intento a calciare
un pallone impersonato dalla Sicilia), che giudica tutto secondo il parametro
“Era rigore!”, oppure del “No non era rigore cornuto!”, ha sempre avuto una
sacco di appassionati di basket, nel 1974 a vincere lo scudetto fu la Ignis di
Varese, di Dino Meneghin, ma la tradizione di avere grandi campioni, anche
provenienti dalla patria dove James Naismith (sempre sia lodato!) inventò il
giochino, era consuetudine. Un’ottima tradizione che è continuata per tutti gli
anni ’80 e una pezzo dei ’90, ancora mi ricordo uno dei più bei derby bolognesi
di sempre quello del clamoroso fallo di Dominique Wilkins e del canestro (da
quattro punti) di Sasha Danilovic.

Paolo Villaggio
qui interpreta Giovanni Bonfiglio, il suo lavoro? Quello che ha fatto per anni
anche l’avvocato Federico Buffa prima di diventare commentatore: andare negli Stati Uniti e portare campioni per il nostro campionato. Quindi, da Busto
Arsizio con furore (e tanta voglia di tornare a casa) Bonfiglio vola alla volta
del nuovo mondo, sulle ali delle tante care parole del “Padrun” della squadra
che lo maltratta telefonicamente per tutto il tempo della sua trasferta
(“Pronto non sento, è caduta la linea” , “Bonfiglio di puttana!” , “E’
tornata”).


“Che tempo da lassù dalle sue parti?”.

L’obbiettivo del
viaggio è Ben Ferguson (il modello e attore a tempo perso Sterling Saint
Jacques, intravisto anche in Occhi di Laura Mars), super campione che non sbaglia mai un tiro e non sbaglia
davvero mai nemmeno quando non è sul parquet di basket, una delle gag ricorrenti
è proprio vedere Ben fare canestro ovunque, anche lanciando i biscotti da
ragguardevole distanza, dritti nella tazza dell’agognato caffelatte di
Bonfiglio.


Un anno prima di
potare il ragionier Fantozzi al cinema nel 1975, Paolo Villaggio è ancora un
attore non così strettamente legato al suo personaggio più celebre, quindi
ancora non legato al suo successo e al dover ripetere le gag e le dinamiche che
lo hanno reso famoso. Però, il suo Paolo Bonfiglio come il suo personaggio più celebre, mette alla
berlina molti dei nostri tick, fa ridere (ma nemmeno poi così tanto) che tante
delle caratteristiche dell’Italiano all’esterno targato 1974, siano ancora le
stesse di quello dell’anno di grazia 2017.

Mossa disgraziata da Italiano in vacanza: Ordinare la pizza per poi lamentarsi che fa schifo.

Bonfiglio non
parla una parola di inglese, la maggior parte del tempo comunica a gesti ed
ogni volta che si deve presentare è un dramma, anche perché lo Yankee che gli
pronuncia il nome meglio, se ne esce con un drammatico “BonFAIGLIO”,
sottolineato da Villaggio con un “Perfetto!” uguale a quando commentata il riso
freddo della moglie Pina.

Non aiuta nemmeno
che lo spelling del suo nome, sia un’altra maratona (“Come cacchio la dite
voi la I, AI come AImola!”), per fortuna Ben è preparatissimo e in vista
del suo viaggio in Italia ha studiato la nostra lingua, cosa che facilita un
po’ Bonfiglio, se non fosse che Ben, come tutti i campioni, è leggermente
iperattivo, ecco.
Iperattivo
specialmente in campo politico, sì, perché Ben è membro della Pantere Nere e in
un attimo Giovanni per non perderlo d’occhio e convincerlo a prendere il volo
per l’Italia, si ritrova nel bel mezzo dei drammatici scontri di Detroit degli
anni ’70.



“Chi è ‘sto bianco che ti porti dietro?” , “Nessuna credo faccia il ragioniere, tranquillo”.

Se i dialoghi
filano e funzionano piuttosto bene, a Nanni Loy la pallacanestro pare
interessare il giusto, il viaggio a tappe “On the road” (per dirla
all’ammeriGGGana) di Giovanni e Ben diventa un’occasione per il regista per
mostrare la gloriosa America attraverso gli occhi di un italiano medio,
razzista e pure un po’ omofobo, che del Paese a stelle e strisce non ha mai
subito il fascino.

Lo stile di Loy a
tratti è quasi documentaristico, il regista ci mostra gli Hippy per strada, ma
anche quanto in un Paese così grande, si possa essere incredibilmente soli,
come il senzatetto senza qualche rotella che regala mucchi di giornali vecchi
a Bonfiglio, solo per avere qualcuno con cui scambiare due parole.



Traspare
chiaramente l’impegno politico di Nanni Loy che, probabilmente per far arrivare
il suo messaggio, in certi passaggi calca anche un po’ troppo la mano, di certo
“Sistemo l’America e torno” non risulta crudo e diretto come “Detenuto in
attesa di giudizio” (1972), ma ho apprezzato moltissimo il resoconto dolce amaro
di un’amicizia nata tra due opposti, all’ombra di un Paese da cui
spesso abbiamo importato grandi giocatori e qualche volta brutte abitudini.



Sì, perché Ben
prima di partire ha un po’ di faccende da chiudere, tipo un divorzio dalla
moglie che porta tutti a Reno e poi i saluti alla famiglia che, invece, si
trova giù a New Orleans, qui una delle scene più esplicite del film (tagliata
nei primi passaggi televisivi del film), dove Ben gonfia di sganassoni la
sorella, colta durante l’ignominioso atto di stirarsi e tingersi di biondo i
capelli, un tradimento della sua razza che per citare un’altra frase tipica di
Villaggio, fa leggerissimamente incazzare come una bestia Ben.

“The Hangover” ma con giusto qualche anno di anticipo.

Alla fine è una
delle storia più vecchie del mondo: il bianco e il nero che superano le
differenze e diventano amici scoprendosi più uguali di quello che non avrebbero
mai pensato (bellissime le telefonate notturne di Ben a Giovanni, che lo tiene
aggiornato sulla sua percentuale di gradimento, dopo l’ennesima bravata). Di
fatto, è “Quasi amici” (2011) solo una quarantina scarsa di anni prima,
eppure funziona, proprio perché Villaggio sfoggia la mimica giusta, i dialoghi
sono azzeccati e i battibecchi tra questa strana coppia strappano anche la
risata.

L’ultima tappa
del viaggio prevede la partita di Atlanta che Ben vuole giocare a tutti i
costi con la sua squadra, questi sono gli unici momenti di basket veri del film
anche se Nanni Loy li dirige tutti da bordo campo come se fosse la diretta di
una partita, salvo qualche primo piano su Ben impegnato a illuminare il
tabellone segna punti come un albero di Natale, almeno fino al momento in cui
interrompe la partita per un annuncio.



Grossomodo questo è tutto il basket che vedrete nel film, giusto per darvi un’idea.

Qui il messaggio
è chiarissimo, in America i “Fratelli” sono importati per vincere nello sport,
ma fuori dal campo non hanno diritti, chissà se prima di dirigere “He got game”
nel 1998 Spike Lee è andato a rivedersi questo film? Perché il senso è lo
stesso e Lee da grande appassionato di cinema degli anni ’70 potrebbe anche
conoscerlo. In ogni caso, la reazione del pubblico è un lancio di bottiglie di
vetro (Chiara Appendino non approverebbe) degno di “Vooooi siete i Good old
boys?”, ma con risultati molto meno comici.

Quel finale malinconico in puro stile Villaggio.

La chiosa finale
del film e di questo mio post è tutta per Paolo Villaggio: perfetto nel recitare
anche gli scarti tra comico e malinconico del film (“Ma che, piange perché Pulici
ha sbagliato un rigore?”). Mi ha fatto piacere salutare il signor
Villaggio, con una testimonianza del suo talento, anche fuori dai panni in cui
tutti lo conosciamo.


Ciao Paolo, ci
vediamo nei film…

Ecco il calendario completo, buona lettura!
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