Come per molti, il mio incontro con “Slam Dunk” lo devo alla messa in onda su MTV dell’anime tratto dal manga di Takehiko Inoue, era l’ottobre del 2000, il vostro amichevole Cassidy di quartiere aveva 17 anni e un’ossessione nella vita: la pallacanestro.
Passavo le mie giornate dentro le scarpe da basket aspettando il momento di poter essere di nuovo sul campo o sul campetto, di tutte le passioni brucianti della mia vita, la più intensa per un Nerd con gli occhiali di Kogure e il fisico da gorilla proto-Akagi (seee magari!). Quando non gioco a pallacanestro penso alla pallacanestro e le divise rosse dello Shohoku le riconosco al volo, sono palesemente ispirate a quelle della squadra più popolare del mondo sul finire degli anni ’90, i miei preferiti.
Però andiamo, non ho mai sopportato roba tipo “Mila e Shiro” o peggio, il pallosissimo “Holly e Benji” da bambino – fucilatemi, ma mi facevo due maroni stile palle da basket a guardarlo – e anche per roba come il mitico “Gigi la trottola” non ho mai avuto questo gran colpo di fulmine. Figurati se a 17 anni può interessarmi una roba analoga per quanto dedicata alla pallacanestro, poi su andiamo, che avranno mai da dire i giapponesi sul Basket? Il protagonista poi ha i capelli rossi, di che stiamo parlando esattamente? Fate i bravi.
Ma in quanto affetto da quella che l’avvocato Federico Buffa chiama “The disease”, se sento il rumore di un pallone che rimbalza e il gnic-gnic stridulo delle scarpe sul parquet ne sono magneticamente attratto, inoltre la serie fa molto ridere ma quello che mi colpisce è il manifesto amore per il gioco della pallacanestro, spiegato ai neofiti attraverso gli occhi dell’absolute beginners (per dirla alla David Bowie) Hanamichi Sakuragi, ma quello che mi colpisce davvero è la cura e il rispetto per il gioco, “Slam Dunk” mi aveva già accalappiato, ma mi ha conquistato per davvero sulla tecnica di tiro libero del rosso protagonista, mi sono ritrovato a puntare il dito verso lo schermo della tv urlando: «Rick Barry!» (storia vera).
Combattendo con la difficoltà di seguire una serie d’animazione sulla tv italiana nei primi anni del 2000, seguo lo Shohoku nella sua rincorsa verso i campionati nazionali, eppure mi auto convinco di non essere arrivato alla fine, esattamente l’opposto di quanto accaduto con le serie di Star Trek, per quelle ero convinto di aver visto molto e grazie al ripasso, mi sono reso conto di quanti episodi avessi perso, qui l’esatto opposto. Rivedendo “Slam Dunk” ricordavo ancora moltissimo, il nuovo taglio di Hanamichi, il maledetto Kainan (che sfoggia non a caso i colori dei Lakers… Beat LA Kainan!), eppure mi ero convinto di non aver visto il finale, il ripasso mi ha confermato che invece già ai tempi avevo seguito tutti e 101 gli episodi dell’anime, anche se va detto che il finale vero di “Slam Dunk” non lo avevo visto, Time Out Cassidy! Qui ci vuole un obbligatorio salto indietro.
Takehiko Inoue ha creato uno degli spokon (i manga di genere sportivo) più famoso del mondo, spinto dalla sua passione per la pallacanestro, sport assolutamente minore in Giappone come in uno strambo Paese a forma di scarpa. Composto da 31 Tankōbon (volumi) pubblicati tra l’ottobre del 1990 e il giugno 1996, la serie è stata un tale successo da ispirare un inevitabile adattamento per il piccolo schermo, in cui, dettaglio chiave, Takehiko Inoue, non è mai stato coinvolto tanto da arrivare a dichiarare di non amarlo molto e di sfotterlo in altri suoi manga, sempre dedicati alla pallacanestro come ad esempio “Buzzer Beater” e “Real”, anche se tutto questo fa parte dell’andamento della carriera del mangaka.
Cresciuto alla scuola del sensei Tsukasa Hōjō, papà di “City Hunter”, Takehiko Inoue ha progressivamente abbandonato il fumetto, facendo in tempo a completare “Slam Dunk”, cosa che non si può dire di altri sui manga, immagino che i fan di “Vagabond” siano leggermente incazzati con lui e ve lo dico solo perché nel corso degli anni ho fatto quello che faccio sempre quando non so qualcosa: mi tiro su le maniche e faccio i compiti.
Si perché pur avendo visto tutti e 101 gli episodi del manga, quella sensazione di non aver visto la fine di “Slam Dunk” è facilmente spiegabile con il fatto che la serie animata copre volutamente metà dei volumi del manga, tutta la parte dedicata al campionato nazionale studentesco resta fuori dalla storia, per conoscere la fine bisogna leggere il manga oppure aspettare la prossima settimana, con l’inevitabile ed ideale seconda parte del post di oggi, perché avete già capito che questo è solo il mio primo tempo con addosso la divisa dello Shohoku.
Rivedere “Slam Dunk” a ventitré anni dalla prima volta conferma un dettaglio semplicissimo, senza girarci attorno siamo di fronte ad un capolavoro. La storia la conoscente ma è facilmente riassumibile anche da me, incapace di sintetizzare: Hanamichi Sakuragi è una testa calda con la testata facile, un fisico prodigioso per la sua età (e nazionalità) che non sa nulla di pallacanestro, quello che vorrebbe è solo smetterla di essere rimbalzato dalle ragazze, almeno fino al momento in cui non incontra Haruko, fanatica di pallacanestro. Per conquistarla Hanamichi si metterà in testa di diventare un campione di basket, finendo presto a scontrarsi – letteralmente! – con quel gorilla del capitano dello Shohoku, il mio personaggio preferito della serie, praticamente uno scimmiesco Samurai votato al gioco creato dal dottor James Naismith di nome Akagi, tangenzialmente anche fratello maggiore della “Harukina” di Hanamichi, giusto per mettere un po’ di pepe all’assunto di partenza.
Hanamichi è cotto di Haruko, lei invece stravede solo per il talentuoso ed ombroso Kaede Rukawa, rivale d’amore e di basket del rosso casinista che per Takehiko Inoue rappresenta il punto di vista di chi non conosce il gioco, sul mondo della pallacanestro. Grazie alla sua perseveranza (moooooolto orientale), a superiori motivazioni, ad un talento naturale per i rimbalzi, palesemente ispirato a Dennis “Il verme” Rodman, il nostro Hanamichi passa da totale schiappa a prospetto con potenziale, anche se nella sua testa di rosso megalomane si considera, con molta modestia, “il genio del basket”, insomma un adorabile idiota per cui è impossibile non patteggiare.
Ora io lo dico, tutto ruota attorno ad Haruko e nessuno si fila nemmeno di pezza l’assistente del signor Anzai, ovvero Ayako che è palesemente la meglio della serie, ma fatemi uscire da questa modalità “Gigi la trottola” per mettere nero su Bara alcuni dettagli chiave di “Slam Dunk”. La serie tratta in maniera serissima e appassionata la pallacanestro ma riesce anche a fare davvero ridere, grazie alle svolte “super deformed” del tratto di Inoue, perfette per le fesserie e le uscite cretine di quell’adorabile pirla di Hanamichi, per un anime che – non me ne vogliamo i puristi – in italiano fa scompisciare. Condito da linguaggio da spogliatoio molto adeguato, roba tipo “Baciapiselli”, la serie si inventa trovate tutte da ridere come lo spassoso coro della groupie di Rukawa, il martellante e divertentissimo ma che fico mi ci ficco, insomma uno spasso.
Ma dove davvero “Slam Dunk” si rivela un capolavoro sta nella parte giocata, in maniera molto giapponese la serie ci ricorda che ogni singolo miglioramento sul parquet, ogni risultato, ogni rimbalzo conteso facendo a sportellate con quei cristoni (cit.) te le devi sudare, se non lavori duri puoi essere anche benedetto dal dono del talento, ma non vai da nessuna parte e i giocatori di “Slam Dunk” sudano, sudano come beh, me, sul campo, perché l’animazione ci porta davvero nel gioco, mescolando il tutto con le linee cinetiche e l’enfasi tipica della narrazione giapponese, in cui dramma, spirito di sacrificio e rivalità, si sposano alla perfezione con il gioco della pallacanestro, che ha già tutto questo nel suo DNA.
Quindi il matrimonio tra la scuola di fumetto giapponese e lo sport più americano di sempre crea una tempesta perfetta, una serie animata caratterizzata da una colonna sonora impressionante e riuscitissima (mi canticchio i pezzi da anni, non so bene cosa sto pronunciando esattamente e mi auguro che nessuno giapponese mi senta mai, ma lo faccio, storia vera) al servizio dell’amore per il gioco che traspare in ogni episodio.
Affrontiamo il gorilla (non Akagi) al centro della stanza, Inoue è così intelligente da “occidentalizzare” quel tanto che basta i suoi personaggi, creando riusciti momenti di sospensione dell’incredulità (specialmente sulla stazza dei suoi adolescenti orientali) pescando a piene mani dai giocatori dell’NBA in voga in quel periodo, di Hanamichi/Rodman vi ho già detto, così come dei colori delle divise dell’odiato Kainan, ma in campo nei 101 episodi di “Slam Dunk” troverete versioni locali di Shaquille O’Neal o di Magic Johnson, con l’enfasi sempre focalizzata sul gioco il cui unico segno di invecchiamento rispetto a ventitré anni fa, non sta nella bellissima animazione orgogliosamente 2D (sembra uscita direttamente dalle pagine del manga), in cui spesso i giocatori vanno a canestro come figure statiche, in posa stilosissima ma in cui l’idea di movimento è data solo dall’enfasi e dalle linee cinetiche sullo sfondo no, il vero segno di rughe per “Slam Dunk” è strutturale, qui i tiri da tre punti sono una semi rarità come lo erano nel gioco durante gli anni ’90, oggi invece, la soluzione con piedi dietro la linea da tre è l’arma principale, ma è davvero l’unico dettaglio che oggi possiamo additare a “Slam Dunk” e non si tratta nemmeno di un vero difetto, è il gioco ad essere cambiato in questi ventitré anni.
Cosa funziona davvero in “Slam Dunk”? Il suo essere una storia che guarda al basket di oltre oceano, ovvero da dove arriva, ma essere allo stesso tempo giapponese al 100%, la frase chiave per capire questo bellissimo anime viene pronunciata da uno dei Coach, per i ragazzi giapponesi molta della loro vita si consuma a scuola, anche perché dopo, entrati nell’età adulta iniziano a lavorare ventordici ore al giorno dedicando la loro abnegazione da samurai al bene dell’azienda. Ecco perché moltissimi manga e storie provenienti dal Paese del Sol Levante hanno la scuola come centro nevralgico, lo conferma anche il Coach quando dice che a differenza degli Stati Uniti, in Giappone non c’è un campo da basket in ogni quartiere, per i ragazzi della scuola superiore Shohoku, del Kainan, del Ryonan e compagnia palleggiante, il campionato scolastico è l’unica occasione per mettere in campo – letteralmente – quella passione bruciante che era la stessa del vostro amichevole Cassidy di quartiere diciassettenne (e oltre).
I giocatori di “Slam Dunk” a differenza di quella palla al cazzo di “Holly e Benji”, non sono destinati ad arrivare a giocarsi e a vincere improbabili campionati del mondo, alcuni sognano l’America ma nessuno arriverà mai in NBA, in questo sono identici a molti diciassettenni (per gamba, citando una delle battute migliori di “Slam Dunk”) affetti da “The disease”, anche se il fuoco che li muove è proprio quello. La partita è TUTTO, ogni rimbalzo una guerra, ogni tiro libero una prova di volontà, anche le sparate da megalomane di Hanamichi («Chi controlla i rimbalzi controlla il mondo») sono del tutto funzionali a veicolare quella passione per il gioco che arde forte, ma brucia al massimo della sua potenza in gioventù, in particolare quando sai che hai davvero poco tempo per scaldarti con quel calore. Ecco quindi che un tiro allo scadere, per alcuni dei ragazzi dello Shohoku è un ricordo da portarsi vita natural durante, Basta vincere, Colpo vincente e tutte quelle cose lì, però con le linee cinetiche a portare ancora più enfasi. ecco perché ho trovato logico e giusto concludere l’anime dopo 101 episodi, dando ai personaggi una conclusione che è allo stesso tempo un limbo, per una storia che parla di pallacanestro e sogni di gloria adolescenziali, il finale della serie “Slam Dunk” è il migliore possibile e non me ne vogliano i fan di “Vagabond”.
Se volessimo guardare a “Slam Dunk” solo come alla storia di Hanamichi Sakuragi, un’altra chiave di lettura sarebbe il suo arco narrativo, da bulletto dedito alle risse, con un limite di sopportazione prima di esplodere e passare alle mani pari allo zero. Il nostro rosso eroe in 101 episodi diventa un vero giocatore di basket, da piantagrane individualista a pedina chiave di un gruppo, attraverso dedizione ed ore di lavoro, il valore salvifico dello sport, oppure più semplicemente la famosa massima per cui la pallacanestro ne ha salvati, perché non anche Hanamichi Sakuragi?
Eppure come sa chi ha letto il manga oppure io che ho fatto i compiti, quello non è il finale della storia, non ancora almeno, perché Takehiko Inoue con la stessa dedizione del suo rosso protagonista aveva ancora qualcosa da dire sullo Shohoku ma di questo parleremo diffusamente su questa Bara la prossima settimana, per concludere ci tengo a dire una cosa molto importante.
Non importa che voi siate affetti da “The disease”, o che non abbiate mai messo un piede su un campo da basket in vita vostra, “Slam Dunk” è per tutti, non solo grazie agli interventi puntuali di Dr. T, per cui le “difficilissime” (secondo gli italiani medi) regole del basket vengono spiegate, al resto ci pensano questi personaggi divertenti e motivati, archetipi narrativi riuscitissimi che tutti insieme formano una chimica riuscitissima, come solo quella che le grandi squadre possono avere.
Per questa settimana la sessione di allenamento è terminata, fatemi gli auguri per la prossima perché sarà una partita davvero complessa da giocare, intanto io, vado al campetto. Arigatō!
Sepolto in precedenza martedì 19 settembre 2023
Creato con orrore 💀 da contentI Marketing