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Southpaw – L’ultima sfida (2015): Se i Weinstein sotto la cintura picchieranno (non aver paura forza Sutter)

Cosa succede
se metti insieme nella stessa stanza quel pazzarello tatuato di Kurt Sutter e
i due produttori più potenti di Hollywood, ovvero i fratelli Weinstein? Succedono
cose come “Southpaw” con tutti i pro e i contro che questa buffa alleanza
comporta.

L’idea
iniziale era quella di sfornare un sequel di “8 Mile”, con tanto di Eminem
come protagonista (per la serie, largo al nuovo, viva le novità!), poiché a mio
avviso “8 Mile” è stato forgiato sullo stampo del primo Rocky (talentuoso
perdente arriva a giocarsi il tutto per tutto nella prova della vita), i
fratellini Weinstein devono aver pensato che si poteva ancora sfruttare il
soggetto di Rocky, magari con qualche piccola variazione, per i fan del Rapper
di Detroit, posso dirvi che la sua Shady Records ha curato la colonna sonora
del film, sefoste stati ansiosi di vederlo tornare ad infilarsi il cappuccio di
Bunny Rabbit è andata male…



Guess who’s back, back again. Shady’s back, tell a friend (Notare la faccia di Jake).
Da buon
cinefilo ossessivo leggo i titoli di testa e di coda dei
film, in quelli di “Southpaw – L’ultima sfida” (sottotitolo italico come al
solito fondamentale) trovate tutte le indicazioni necessarie per decrittarlo, dei Weinstein alla produzione vi ho già detto, ma il nome chiave è quello
dello sceneggiatore… Kurt Sutter, guarda un po’ chi si rivede.
Kurt è il
pazzoide responsabile delle serie Tv “The Shield” e “Sons of Anarchy”, se la
prima l’ho seguita (apprezzandola) a spizzichi e bocconi, la seconda la conosco
molto bene e magari una volta di queste dovrei decidermi a scriverci su
qualcosa. Kurt Sutter è uno talmente contro da dovervi stare simpatico per
forza, ha più inchiostro addosso lui che un salone di tatuaggi e la capacità
di portare se stesso e il mondo da cui proviene in quello che scrive, “Sons of
Anarchy” è una sua creatura a tutti gli effetti, dov’è possibile trovare il
suo passato da bikers nelle vicende dei centauri di SAMCRO, una di quelle serie
che tra pro e contro, alla fine ti tira dentro coinvolgendoti.



Dirty Kurty Sutter…. Una mia vecchia conoscenza.
Due parole
sulla trama di “Southpaw”:
facciamo la conoscenza
del campione del mondo dei medio massimi Billy Hope (Jake Gyllenhall) durante
un match al madison square garden, da cui esce vincitore, Billy ha un clamoroso
record di vittorie, un irreale 43-0 KO a suo favore, ha una bella moglie che
ama alla follia (Rachel McAdams), il manager più influente del giro (50 cent),
il maggiordono, la villa a Como, i macchinoni, i miei milioni…
Lo spavaldo
Miguel ‘Magic’ Escobar (Miguel Gomez il Gus di The Strain) gli rompe le palle per
sfidarlo sul ring, ma a parte quello, Billy Hope cresciuto in un orfanotrofio
di Hell’s Kitchen (come Daredevil) ha tutto quello che si può chiedere dalla
vita, compreso un bruttissimo carattere, l’incapacità di controllare la rabbia
e uno stile di Boxe che rispecchia la sua furia.



I Lie! I Cheat! I Steal! … Viva la Raza!
Le cose si
fanno brutte quando in un incidente, che prevede nella zona delle operazioni lo
sfidante Escobar, sua moglie viene uccisa, per Billy inizia una
spirale di autodistruzione che gli farà perdere tutto: la fama, i soldi e la
custodia della figlia.
Nel tentativo di riavere la sua bambina, Billy
Hope torna da dove è arrivato, un allenatore di quartiere che sembra uscito da
“The Wire” (Forrest Whitaker) lo prende sotto la sua ala protettiva, da qui in
poi sono sciuro che avrete già intuito come continuerà il film…
“Southpaw” è Rocky alla rovescia, almeno nella struttura,
lo stallone italiano di Philadelphia partiva dal nulla e arrivava (nel secondo
film) a diventare il campione, Billy “The Great” Hope fa il percorso inverso,
su tutto metteteci i Weinstein, che non muovono un dito se non pensano di poter
mandare un loro film in lizza per la statuetta di Zio Oscar, quindi impongono
tutto quello che serve per ritrovarsi a gareggiare a febbraio.

“‘Azzo tocchi la mia macchina, ‘stardo di merda, ti rompo il cOOlo!”
L’attore protagonista intensissimo che si trasforma nel
fisico per calarsi nel ruolo lo abbiamo, Jake Gyll… Gil…Gyllen… Donnie Darko!
E’ ancora bollente come una stufa dopo la sua ottima prova in “Nightcrawler”, qui
è perfetto a rendere Billy Hope un ottuso testone in preda al suo brutto
carattere ed è efficace allo stesso modo quando deve combattere sul ring, se
il film non si perde completamente è proprio grazie alla sua prova e a quella
del sempre solido Forrest Whitaker, che non scade nel melenso, anche se magari il
Morgan Freeman di “Milion dollar baby” andava un po’ meglio di lui…
Cosa ci vuole poi per puntare all’Oscar? Facile, il
dramma e che ce ne sia tanto, in abbondanza, una dramma grande, un drammone! E
da questo punto di vista Kurt Sutter gioca in casa.

“Morgan perdonami… Non volevo, non pensavo che sarebbe finita così…”.
Lo dico subito, a me “Sons of Anarchy” piaceva e a tratti
anche molto, ma il difetti della serie erano tutti imputabili a Sutter a mio
avviso. Se capitasse di vedere Billy Hope a cavallo di una moto insieme a Jax e
Clay nessuno si stupirebbe, è lo stesso tipo di personaggio in cui Sutter può
buttare dentro tanto di se stesso: passato da galeotto, tatuaggi, brutto
carattere e gran picchiatore, ma anche l’assoluta volontà di fare quadrato
intorno alle sue donne e la propensione a sfogare la rabbia urlando fortissimo
in faccia a qualcuno, magari mentre gli preme il ferro contro lo zigomo.
L’argomento richiederebbe un approfondimento, ma come per
“Sons of Anarchy” le donne anche qui sono di corredo alla storia, infatti
Rachele D’Adami fa la sua cosa e poi scompare presto dal film, probabilmente
impegnata sul set di Detectiveri 2, il suo personaggio diventa la donna
angelicata, guida spirituale del protagonista.

“Mentre tu fai la doccia io a vado a fare Detectiveri 2, ok tessò?”.
L’idea del campione che torna nella piccola palestra di
provincia e ricomincia da zero è affascinante, inutile negarlo, una parabola
che al cinema funziona sempre e i Weinsteinlo sanno. Il problema è che in “Southpaw”
non c’è davvero niente di davvero originale, Sutter come al solito ama il
drammone, quando scrive ha la propensione di caricare le scene (tutte
indistintamente) di un pathos a volte eccessivo, nessuno dei suoi personaggi è
solo arrabbiato, sono tutti incazzati neri e inoltre, anche se in modo meno
accentuato rispetto a SOA, anche in “Southpaw” Sutter non dà tanto peso alle
svolte, se la storia prevede che il personaggio arrivi da un punto A ad un
punto B, lui butta sul tavolo due righe di dialogo e PAF! Lo scenario è
cambiato completamente… Spiego.
La storia prevede che Billy perda tutti i suoi capitali?
Arriva il commercialista e gli spiega che sta perdendo soldi, non importa che
fino a due minuti prima fosse ricco sfondato, Sutter non perde tempo con questi
dettagli, come detto in “Southpaw” è qualcosa di comprensibile, ma in “Sons of
Anarchy” succedeva continuamente il momento in cui la logica andava a farsi
benedire.

“Stai parlando male di SOA? Ti spacco la faccia, ti storpio il cane, ti buco le gomme alla bici!”.
Ma l’errore (se così vogliamo chiamarlo) più grosso della
sceneggiatura Sutter lo fa nel primo atto e potremmo riassumerlo con la
pistola di Chekhov: una situazione o un elemento della storia che
appare all’inizio della vicenda e che viene spiegato o utilizzato solo nella
parte finale. Detta malamente: se nel primo atto della storia dici che il
fucile appeso alla parete è carico, prima o poi, magari nel terzo atto, quel
fucile deve sparare e proprio un’arma da fuoco fa la sua comparsa (e
scomparsa) in “Southpaw”.
Prima Sutter ci mostra che Escobar nasconde la pistola
con cui uno dei suoi addetti alla sicurezza ha ucciso la moglie di Hope,
durante il film ci viene detto (velocemente) che il mistero della morte non è stato
ben spiegato, dopodichè, arma, moglie e mistero vengono mesi da parte. Uno si
immagina che saranno utili nel finale, magari per portare enfasi durante
l’inevitabile scontro finale tra Hope ed Escobar, invece nisba, se non fosse
per una provocazione di Escobar durante il match, il personaggio della moglie,
l’arma che la uccide e tutto il dramma iniziale potrebbero appartenere ad un
altro film. Badate bene, a me Sutter è simpatico, nel suo modo di fare film e
serie tv ci sono tante cose che apprezzo, eppure certi passaggi a vuoto delle
sue sceneggiature mi saltano particolarmente agli occhi… Sarò troppo rompicoglioni io, non so.

“Azzo fratè ma quando parla ‘sto qua mi sta asciugando…”.
Su tutto aggiungete la regia di Antoine Fuqua, uno che ha
stupito il mondo con “Training Day” e poi tra alti (tipo “The Equalizer” che ha
me è piaciuto un sacco) e bassi, ogni volta che esce con un film nuovo sembra
sempre chiamato ad un grande prova. Capisco anche che fare qualcosa di nuovo e
originale quando si dirige un film di Boxe sia difficile, ci sono così tanti titoli che non mi va nemmeno di elencarli tutti.
Qui Fuqua sembra attestarsi su una regia piuttosto
standard, non è aiutato dalla voce dei commentatori, che non fa altro che
sottolineare tutto quello che stiamo vedendo sul ring, molto spesso, poi, cerca
di rendere l’effetto dei colpi (mandati a segno o schivati) mettendo la camera
in linea con i pugni, nemmeno stesse dirigendo un film in 3D, con l’obbligo di
sparare in faccia al pubblico un guantone gigante. Avrebbe dovuto
sfruttare la selvaggia tecnica di combattimento del suo protagonista, sporcando
un po’ di più il foglio. Il risultato non è certo un film poco curato, ma sicuramente troppo anonimo, che inizia mille trame e non ne conclude mezza.

“Io ti spiezzo in d…” No sul serio, dai, non tocciamo i classici per favore!
Il coinvolgimento va a pari merito con la prevedibilità della storia, non nego che il film troverà i suoi estimatori, ma in soldoni lo schema sa parecchio di già visto e l’intensa prova di Jake Gyllenhall (sono riuscito a scriverlo giusto!!) probabilmente non basta, ma il dramma sportivo/pugilistico è qualcosa di facile da vendere al pubblico, con tutti gli sport che ci sono, alla fine il cinema torna sempre sul ring della boxe ed è curioso come nella realtà i match durino un paio di round, mentre al cinema si finisca SEMPRE alla valutazione dei giudici…
Pensavo che “Warrior” avrebbe aperto il campo ad una serie di film ambientati nel mondo della MMA, ma sarebbe bello ogni tanto applicare il dramma a qualche altra disciplina, la pallacanestro, il ciclismo, o anche cambiare completamente campo da gioco, c’è chi ha saputo fare benissimo facendo un film su un batterista ad esempio. Ma evidentemente il richiamo di Rocky è troppo forte, d’altra parte, fra un po’ uscirà Creed, più le cose cambiano, più restano sempre le stesse.

Ultima cosa, perchè fare riferimento nel titolo al fatto che il protagonista è mancino, se poi questa cosa nella storia non ha alcun peso? Evidentemente volevano avvertirci che il vero colpo mancino, è questo film. Sapete che vi dico, era meglio una puntata a caso di “Forza Sugar”.

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