Ho già raccontato questa storia, ma la ripeto anche sapendo che non ci faccio una gran figura (sai che novità…): io ci credevo che quell’indiano dal cognome che ancora oggi non riesco a pronunciare due volte nella stessa maniera (storia vera) potesse un giorno diventare qualcuno.
Ci ho creduto malgrado i difetti, malgrado la sua incapacità di dirigere gli attori che sotto le sue direttive sembravano tutti dei cavedani in amore, ci ho creduto pure con “Lady in the Water” che a quel finale posso perdonare (quasi) tutto e poi? E poi “E venne il giorno” (2008), mai titolo fu più azzeccato e allora Michael Knight Shyamalan lo abbiamo perso, fino almeno all’anno scorso quando uscì The Visit, un film che anche dopo la visione, anche dopo aver scritto il commento, ancora non ero in grado di rispondere alla semplice domanda “Ma allora mi consigli di vederlo questo film?”. Ecco, non ero in grado, fino ad adesso. Oggi risponderei: sì, te lo consiglio perché The Visit erano le prove generali, per ritrovare il ritmo partita usando una metafora cestistica e, malgrado i tanti difetti, una palestra per questo “Split”.
Oh, lo dico subito: il commento è tutto NO SPOILER, non ho intenzione di rivelarvi quasi nulla, specialmente sul finale, anzi vi consiglio proprio di non informarvi. Sappiate che se avete apprezzato in particolare i primi film di Shyamalan, potreste uscire dalla sala con un sorrisone sulla faccia. Trama in arrivo!
Tre ragazzine, di cui una è la biondina di The VVitch, solo che qui è mora (Anya Taylor-Joy), vengono rapite nel parcheggio e al loro risvegliano si ritrovano chiuse in una stanzetta, il loro carceriere è Dennis ossessivo compulsivo maniaco della pulizia, in combutta con la signorina Patricia, gonna lunga collana di perle vecchia maniera e modi belli brutali. Tra i rapitori anche Hedwing, ragazzino tenerino a forse non tutti finito, ma bisogna contare anche Barry, evidentemente effemminato e con il talento dello stilista. Problema: tutti questi personaggi sono solo alcune delle 23 personalità di Kevin Wendell Crumb (James McAvoy da moltiplicare per 23). Riusciranno le tre ragazzine a salvarsi, prima dell’arrivo della ventiquattresima personalità, la più terribile: la bestia?
Era parecchio che M. Night Shyamalan girava intorno a questo progetto, vorrei dirvi da quanto, ma vi farei importanti rivelazioni sulla trama, quindi mi tengo per me l’informazione. L’ispirazione è arrivata al regista e sceneggiatore indiano dal vero (e terrificante) caso di Billy Milligan, un ragazzo che negli anni ’70 rapì e violentò delle ragazze, il primo caso di disturbo dissociativo dell’identità riconosciuto in un processo americano, sì, perché Milligan, dichiarava di avere 24 identità, tutte estremamente dettagliate nei modi, nei caratteri e nell’orientamento politico, basta dire che uno degli “ospiti” della sua testa era uno Jugoslavo, fervente comunista che, ovviamente, parlava perfettamente il serbo (storia vera!).
Le personalità di Billy Milligan non si presentavano tutte assieme, ma a turno, venivano alla luce (stando alla sua espressione) solo dieci di loro, un vero tribunale che decideva chi doveva comandare e chi restare nelle retrovie, al buio. Il cinema è sempre andato a nozze con i serial killer, è dal 1992 che la biografia di Milligan, “Una stanza piena di gente” aspetta di arrivare al cinema, per un po’ abbiamo rischiato di vedere il film diretto da James Cameron (parlapà!), per ora il progetto con data da destinarsi è nelle mani di Joel Schumacher e Leonardo Di Caprio dovrebbe ricoprire il ruolo di Milligan e di tutto il resto del branco.
Michael Knight Shyamalan fa qualcosa di diverso: prende la tormentata storia di Billy Milligan come spunto iniziale e la trasforma in un thriller, poi piano piano introduce un elemento fantastico (non eccessivamente invasivo) e fa cambiare genere al film. Voi direte: beh, dai, tutto come da programma, la solita svolta narrativa che è il vero marchio di fabbrica di Shyamalan. Sbagliato! Il vero colpo di scena di “Split” è che il classico “Twist in end” a cui ci ha abituati qui manca e questo è il massimo della rivelazione che vi farò sulla storia.
“Split” ha un buon inizio, poi nella parte centrale il brodo viene allungato da qualche lungaggine e da un paio di ripetitivi spiegoni, la psicologa di Kevin sembra il personaggio inserito nella storia, per illustrare allo spettatore la patologia del pazzarello e, allo stesso tempo, per dare una giustificazione medica (o presunta tale, dovrei dire) all’elemento fantastico che farà capolino nel finale. Ma, a ben guardarlo, se escludiamo l’ultima scena sui titoli di coda, “Split” resta un thriller bello dritto che, tutto sommato, si lascia guardare, in particolare se, come me, siete impallinati di assassini e serial killer. Ok, mi rendo conto che non tutti coltivano la passione di leggersi le biografie degli omicidi seriali, ma nel mondo ci sono anche i toccati come me, eh? No, lo dico così lo sapete.
Per quanto riguarda la messa in scena, la mano corta e tirchia di Jason Blum si nota, una sola location, pochi attori, il tutto per tenere sotto controllo il budget, ma la sensazione generale è che Michael Knight Shyamalan abbia trovato la sua anima gemella, almeno dal punto di vista artistico.
Jason Blum sembra il coach autoritario, ma paterno, che può permettersi di richiamare in panchina la sua superstar quando in campo inizia a perdere tempo in palleggi incrociati di troppo, o decide di prendersi qualche tiro di troppo. Blum era proprio quello che serviva all’indiano, uno che ogni tanto gli dice “Guarda che ti porto via il pallone, eh?” e lo tiene concentrato, a questo ritmo, quei due insieme possono sfornare un film l’anno per i prossimi quindici anni senza difficoltà.
Ora, Shammy Boy non è mai stato proprio un drago a dirigere i suoi attori, la costante nelle recitazioni di tutti quelli che hanno lavorato per lui, sono sguardi fissi, pochi movimenti, come se fossero tutti appena scesi dal letto e, a ben guardare, anche Anya Taylor-Joy qui, recita proprio in questo modo.
Mi viene da pensare che la buona prestazione personale di James McAvoy sia più farina del sacco dell’attore scozzese che del regista indiano, in ogni caso, sono i risultati quelli che contano. James McAvoy che arriva dalla pelata tattica del Professor X dell’ultimo X-Men, risponde presente con un ruolo in cui esagerare e finire dritto in “Zona Nicolas Cage” è facilissimo, certo se nello stesso film devi interpretare una signora con le perle, o un ragazzino in fissa con la parola “Eccetera”, un minimo devi esagerare. McAvoy qui risponde presente, una prova di recitazione valida in un film di Shyamalan è roba rara, quindi vale doppio!
Come detto, il film termina senza il famigerato colpo di scena tipico della filmografia del regista, perché, ammettiamolo, Shyamalan ormai è schiavo della struttura che lo ha reso celebre con Il sesto senso, che ha ripetuto nei vari Unbreakable, “Signs” e “The Village” e, in parte, anche in The Visit, ma per compensare l’assenza, qualcosa se lo doveva pur inventare, no? Infatti, arriva quella scena sui titoli di coda che non mi aspettavo minimamente, ma mi ha fatto fare un mezzo salto carpiato avvitato alle coronarie. Per questo ribadisco: non documentatevi in rete, guardatevi il film e magari uscirete dalla sala contenti.
Sì, perché quella scena, presa da sola, sembra una ruffianata degna del peggior GIEI GIEI Abrams, in realtà è coerente nel suo giustificare l’elemento fantastico che fa capolino nella storia, di fatto Michael Knight ha preso la vera di Billy Milligan e l’ha introdotta nel suo “Universo narrativo”, per usare un’espressione tipica dei fumetti americani.
Risultato finale: l’ultima scena è un Boom! Potrebbe risolversi in un niente, oppure in una interessante promessa per il futuro, per ora me la sono goduta, così come il film, bravo Jason Blum, bastone e carota, ci vuole bastone e carota con quell’indiano pazzo!
Sepolto in precedenza mercoledì 8 febbraio 2017
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