Ormai abbiamo capito come funziona, la moda degli anni ’80 è persistente, ma come li ha ben definiti Leo Ortolani, esiste quel senso di revival “al gusto di anni ‘80” figlio di tante Strane Cose e poi ci sono gli anni ’80 veri, di chi era già in giro per ricordarli, a questa seconda categoria appartiene il compleanno di oggi.
Potremmo definirlo una perla che si è persa nell’oceano della cultura popolare che sono stati gli anni ’80, ricordato essenzialmente per il suo cast e per essere una postilla, uno di quei titoli in alto nella filmografia di cui fa parte, nello specifico, di un regista meritevole me ricordato solo per beh, i capezzoli. Joel Schumacher ha contribuito a definire l’estetica degli anni ’80 firmato un paio di titoli giovanili e carichi di sassofoni, il vero suono degli ’80, non è un caso che subito dopo aver diretto quello che per molti è il film definitivo del Brat Pack, sia passato da una banda di ragazzi perduti ad un’altra.
“St. Elmo’s Fire” ha Saputo fotografare perfettamente un momento storico e quella manciata di anni effimeri che vanno dalla fine della scuola all’inizio di tutto il resto, solitamente il lavoro, le colonne d’Ercole della vita adulta, e cosa vi dico sempre dei primi cinque minuti di un film? Ne determinano tutto l’andamento, ma qui sono anche manifesto programmatico: i protagonisti con il “tocco” in testa che camminano in parata felici e neolaureati, vanno incontro tutti insieme alla vita, un rumore di freni e un’ellisse narrativo per farli ritrovare, ancora insieme, per l’incidente automobilistico di due di loro. Più chiaro di così Schumacher (anche autore del copione insieme a Carl Kurlander) non avrebbe potuto essere.
“St. Elmo’s Fire” è l’ultimo capitolo, in ordine di uscita, della sacra trilogia Judd Nelson sull’adolescenza, iniziata con Fandango (data di uscita americana, 25 gennaio 1985) e continuata con il mitologico Breakfast Club (15 febbraio 1985), qui Nelson completa l’opera impersonando Alec Newbury e ritrovando un paio di compagni di colazioni come Emilio Estevez e soprattutto Ally Sheedy, anche se il personaggio che interpreta è il tassello che gli mancava perché Alec ha il carisma di John Bender ma è più stronzo e meno giustificabile del personaggio che Nelson impersonava in “Fandango”, non per questo recitato peggio, anzi, il problema è che dopo il 1985 e una trilogia così, nessuno avrebbe potuto reggere il colpo, di sicuro non lo ha fatto Nelson che si è perso senza più tornare a questi livelli, il che getta un’altra manciata di malinconia su tutto il film, che a suo modo come Nelson ha avuto la strada segnata.
Basta averlo visto, o rivisto di recente, pochi altri titoli hanno avuto il fegato di sfoggiare il vero stile anni ’80 nel vestire dei personaggi, le ragazze sembrano in scia a Madonna (a partire da Demi Moore) mentre i ragazzi sono un trionfo di capotti da Yuppie e cravatte indossate slacciate. Se poi ci mettiamo Rob Lowe che si definisce “maniaco saxuale” e appunto suona lo strumento simbolo del suono degli anni ’80, il sax, il quadro è completo, anche perché il film di Schumacher aveva tutto per diventare un culto, compresa una trascinante colonna sonora, trainata dal pezzo principale di John Parr a cui bastano due note per parcheggiarsi nel vostro cervello per ore.
Sembrava che nulla potesse fermare le ragazze e i ragazzi del Brat pack quando sulla loro strada, sgommando, si è messo di traverso beh, il futuro. Uscito nelle sale americane il 28 giugno del 1985 (in uno strambo Paese a forma di scarpa il 4 luglio del 1986), nel pieno dell’era Ronald Reagan, mentre EmmeTivì era il più grosso amplificatore di cultura Pop del mondo, il film macinò soldini al botteghino per le poche giornate disponibili, fino al 3 luglio, quando in sala sbarcò il titolo destinato a diventare IL film del 1985 e tangenzialmente, il preferito di molte infanzie, Ritorno al futuro.
Per quanto grondante anni ’80, il film di Bob Zemeckis con il suo elemento fantastico, ha contribuito largamente ad idealizzare il decennio dei jeans a vita alta e delle spalline larghe, facendo sembrare immediatamente una reliquia del passato un film come “St. Elmo’s Fire” che non ha una macchina del tempo fighissima dalla sua, ma parla comunque di tempo che passa e di come i protagonisti provano ad affrontarlo.
Qualcuno come Emilio Estevez cerca di bruciare le tappe provando a fare colpo su una compagna di università più grande fatta a forma di Andie MacDowell, altri battibeccano faticando a trovare loro stessi o il modo di funzionare come coppia, con l’apice rappresentato dai due pazzerelli del gruppo, belli belli in modo assurdo (cit.) ma con maggiori difficoltà relazionali. “St. Elmo’s Fire” è un film che parla così bene di emozioni effimere che ai personaggi di Rob Lowe e Demi Moore tocca il dialogo che spiega il titolo, quei fuochi di sant’Elmo, che sono la permetta metafora utilizzata da Schumacher per intrappolare il fulmine dentro la bottiglia, provando a mettere su pellicola quella manciata di anni, passati per tutti apparentemente più velocemente degli altri e destinati ad essere ricordati per sempre, gli ultimi metri prima di infilarsi con entrambe le scarpe nell’età adulta.
Non ti puoi distrarre un secondo con “St. Elmo’s Fire”, perché se fai l’errore di concentrarti su un dialogo figo che hai appena ascoltato, il film te ne sgancia immediatamente un altro della stessa portata, come quello sull’amore, invenzione degli avvocati o lo scrittore del gruppo, che ambisce a qualcosa di più che dattilografare necrologi.
La bontà di “St. Elmo’s Fire” sta tutta qui, oppure nel confronto con le altre opere “giovanili” dello stesso periodo, una spanna e mezza sopra la media, è l’unico titolo che può permettersi di competere o per lo meno, di sedersi allo stesso tavolo con il coevo Breakfast Club, anche lui fratellino minore de Il Grande Freddo, che resta il padre nobile di tutto questo filone.
Dico sempre che Joel Schumacher andrebbe ricordato di più e meglio, non solo per il suo essere subentrato a Tim Burton, ma anche qui, sulla grande bilancia della cultura Pop, l’elemento Nerd sembra pesare sempre un po’ di più. Anche per questo purtroppo, “St. Elmo’s Fire” sembra relegato agli anni ’80 veri, non quelli ortolaniani al gusto di anni ’80, se nemmeno la citazione spudorata e di cuore che Ti West ha regalato a questo film nel suo Maxxxine, sembra aver smosso qualcosa, allora non so che altro potrebbe farlo, eppure proprio come quella manciata di anni effimeri di cui parla, “St. Elmo’s Fire” è un ricordo persistente, diventato di culto con il tempo e non grazie alla malinconia.
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