Sono abbastanza convinto che se Discovery non avesse fatto parte di un marchio ultra noto in circolazione dagli anni ’60, col cavolo che sarebbe arrivata a durare cinque stagioni spalmate nell’arco di sette anni e sessantacinque episodi.
Anche perché io capisco che le tematiche inclusive siano argomento caldissimo quando si parla di serie televisive, ma “Discovery” ha fatto parlare essenzialmente per due cose, il modo in cui ha scientificamente applicato questa sacrosante tematiche alla selezione del casting e i buchi logici di continuità che ha generato, nel suo tentativo di innovare e portare avanti la serie.
Quello che trovo buffo è che “Discovery” con il suo cast al femminile, con un capitano donna di nome Michael (sensato che nel futuro di Star Trek non sia più esclusivamente un nome maschile) e i pochi eterosessuali impersonati da attori provenienti da minoranze etniche, oppure da alieni come Saru (Doug Jones), tutto giusto, tutto sacrosanto, anche se mi fa veramente ridere che la “novità” di “Discovery” sia davvero solo questa, cioè gente, Star Trek era inclusiva fin dagli anni ’60, mi sembra di essere al cospetto della scoperta dell’acqua calda.
Sui buchi logici poi non entro troppo nel merito, ho già dichiarato che questa serie ormai la seguivo solo più per la presenza del dottor Kovich, interpretato da uno dei miei prediletti, ovvero David Cronenberg, fine dei motivi di interesse della serie.
Va detto per onestà intellettuale che la quinta stagione di “Discovery” l’ho iniziata sia per Cronenberg che per vedere il finale, visto che è stata annunciata come l’ultima, quella di chiusura per la creatura di Alex Kurtzman e Akiva Goldsman, quindi ormai, sono arrivato fino qui, tanto vale chiudere e devo dire che almeno a livello di ritmo, e grazie a personaggi che conosciamo (e che si conoscono tra di loro) da cinque anni, almeno l’ultima stagione sembra quasi viva.
Lo spunto è la “Direttiva rossa” del primo episodio (5×01), i ribelli Moll e L’ak sono in possesso del solito artefatto MacGuffin in grado di spaccare l’universo, quindi bisogna mettersi sulle loro tracce, a fine puntata è proprio il dottor Kovich a metterci a pari dell’obbiettivo a lungo termine, ripescando una vecchia sottotrama dimenticata da Star Trek NTG che se non altro mette in chiaro che “Discovery”, non ha mai avuto paura di puntare in alto.
Un capitano vissuto ottocento anni prima, il solito Jean-Luc Picard, aveva trovato un messaggio dell’antica specie, i Progenitori, il cui scopo oltre che creare la vita è giustificare come mai tutti gli alieni di “Star Trek” siano di base umani con il trucco prostetico sul viso, fino qui tutto bello, peccato che i dieci episodio della stagione finale si trasformino presto in una lunga caccia al tesoro.
Io capisco che il pubblico G-G-G-Giovane, sia abituato alle trame Marvel, ecco quindi che l’oggetto MacGuffin di turno ormai è la normalità, mi chiedo che senso abbia avere un “Ordigno fine di mondo” (cit.) per le mani e spezzettarlo e spargerlo in giro per la galassia, detto questo Moll e L’ak tengono banco, la prima diventa l’ultimo legame per Book (David Ajala) di trovare una specie di famiglia, mentre la stramba coppia di pirati ribelli, sono una sorta di Romeo e Giulietta che sulla lunga distanza, risultano più interessanti di molti veterani di “Discovery”.
Va detto che anche il modo in cui abbiano pensato di mettere in panchina Saru mi ha convinto poco, utilizzato con il contagocce, almeno resta una dei personaggi che ha avuto un arco narrativo completo, inoltre devo dire che il soprannome “Action Saru” gli sta bene addosso.
Una delle costanti di “Star Trek” poi è la sua capacità di mandare a segno un episodio veramente figo, illudendoti che l’andazzo generale possa essere cambiato, di solito quella puntata poi è diretta da un mito, il grande Jonathan “Two takes” Frakes che con l’episodio 5×09 (Lagrange Point) manda a segno la puntata migliore del lotto, una in grado di far digerire anche la versione locale della discussa manovra Holdo della concorrenza.
La delusione arriva con il finale, che ti fa pensare: come mai ho speso così tanto tempo dietro ad una serie che si conclude con le paranoie della protagonista e che per lo meno, con un balzo in avanti nel tempo, concede a Star Trek di imboccare quella porta, di poter narrare con le prossime serie quella porzione, quella si inesplorata, di galassia. Il prezzo da pagare? L’ennesima trama che ruota attorno alla solita, precisissima, impeccabile, anche nelle sue debolezze, il capitano Michael Burnham, ultra cesellata per risultare carismatica e simpatica, tanto da non esserlo, con buona pace di Sonequa Martin-Green che ci ha messo tutto l’impegno ma anche quattro stagioni per trovare una capigliatura decente e nel finale, gliela cambiano ancora. Cattivi!
Come si risolve tutto? Sempre con lui, il mio preferito, la rivelazione sull’identità, quella vera del Dottor Kovich, Cronenberg sa essere carismatico senza cambiare mai espressione (o numero di battiti cardiaci suppongo) confermandosi come una vecchia, vecchissima conoscenza direttamente da “Enterprise”. Lo avevano capito tutti che Cronenberg non poteva essere un semplice comprimario, quindi hanno pensato di giocarsela così. Anche perché il fatto che Sylvia Tilly sia simpatica e carismatica è un falso mito che esiste solo nella testa degli autori, quindi normale che poi sia tutto sulle spalle del mio secondo Canadese preferito.
Insomma, non so a chi mancherà davvero “Discovery”, spero solo che quella porticina lasciata aperta in direzione del futuro sia il suo vero lasciato, “Star Trek” ha passato fin troppi anni a specchiarsi e rimirarsi guardando al suo passato, sarebbe ora di tornare a volare verso le stelle per davvero.
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