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Star Trek – Discovery – Stagioni 1, 2 & 3: un futuro nato vecchio

Il viaggio di questa Bara Volante alla ricerca di strani,
nuovi mondi mi porta lontano, fino a “Star Trek Discovery”, una serie che ha
avuto il fegato di riportare la creatura di Gene Roddenberry al suo formato
originale, quello del piccolo schermo, solo che per farlo, ha scatenato un
putiferio galattico dividendo profondamente i Trekkie di tutta la galassia.

“Star Trek” mancava dal piccolo schermo dal 2005, la
cancellazione prematura di Enterpise
ha lasciato campo libero al maledetto GIEI GIEI, di cui abbiamo già parlato diffusamente di entrambi i suoi film. Titoli che in campo cinematografico, hanno
fatto più danni della grandine, sdoganando un modo di intendere il cinema di
intrattenimento che personalmente trovo ributtante. Gli effetti a lungo termine li abbiamo purtroppo visti ma se non altro,
il maledetto GIEI GIEI ha dimostrato che là fuori, esisteva ancora interesse
per tutto quello che riguarda il mondo di “Star Trek”.

A cogliere la palla al balzo è stata Netflix, che ha fornito
distribuzione e denari alla CBS (detentrice dei diritti sulla creatura di papà
Gene), affidandosi al lavoro di Bryan Fuller e Alex Kurtzman, che per quello che
mi riguarda è un po’ come tentare di mescolare il gelato alla stracciatella con
i carciofi bolliti. Fuller è quello che con il suo abbandono (a causa delle
solite inconciliabili differenze creative) ha determinando la fine anticipata
di una serie che finché è stata curata da lui, aveva dei numeri, mi riferisco
ad American Gods. Ma è anche lo
stesso che tra enormi difficoltà e risultati alterni, ci aveva regalato quel
macchinoso gioiellino di Hannibal,
serie che malgrado tutto, era un piccolo culto, forse solo mio.

Alex Kurtzman invece è uno degli zerbini schiavi
collaboratori di GIEI GIEI, oltre ai due Star Trek in carriera anche il (non tanto) Amazing Spider-Man 2. Serve davvero che io aggiunga altro?

Se non altro per il logo della serie si sono impegnati.

Cosa poteva nascere dalla collaborazione di questi due
loschi figuri? Ecco bravi avete già capito, qualcosa di parecchio bizzarro come
“Star Trek Discovery”, che prima di tutto è di nuovo un modo per “Star Trek” di
guardare indietro al suo passato. Se Enterprise
era ambientata circa un secolo prima della serie classica, “Discovery” torna indietro e circa dieci anni prima dell’esordio
di Kirk e compagni, quindi la tendenza a procedere all’indietro come i granchi
della saga non cambia, temo che i prossimi titoli di “Star Trek” saranno, una
serie che inizia sette minuti prima che Kirk salga per la prima volta a bordo
dell’Enterprise oppure… uno spin-off sul capitano Pike?
(occhiolino-occhiolino).

Se già Enterprise
aveva sbattuto il naso contro questo problema, capite da voi che una serie che
ha esordito nel 2017, nata con il compito di sembrare più datata (che non è un
androide costruito dal dottor Soong) di una andata in onda negli anni ’60,
richiede già una buona dose di sospensione dell’incredulità, ma se abbiamo per
anni creduto che pannelli con le lucine potevano essere la plancia di una nave
stellare, perché no dico io. Gli scricchiolii di “Discovery” però sono
parecchi, alcuni problemi di continuità e altri di tradizione, ma andiamo per
gradi, affrontiamo subito l’elefante Klingon al centro della plancia di
comando.

I Klingon intonano un canto di morte, dedicato alle loro folte chiome ormai perdute.

Senza aver visto nemmeno mezzo minuto di questa serie, già
sapevo della sua fama che si è sparsa in tutta la galassia nerd, non solo in
quella Trekker, ovvero il nuovo aspetto pensato per i Klingon, aggiungerei gli
amatissimi Klingon, tra i personaggi più impersonati dai Cosplayer alle fiere
del fumetto, una pratica che bisogna dirlo, se è così diffusa oggi in occidente
è stato anche grazie all’enorme popolarità di “Star Trek”.

Nel corso del tempo i Klingon sono passati dall’essere dei
muratori calabresi baffuti come li abbiamo visti nella serie classica, fino
alla mitica cresta sulla fronte, per arrivare in “Discovery” a una sorta di Uruk
Hai sfuggiti da “Il signore degli anelli”, a ben guardare una versione Klingon della famigerata “Black Face” che mi ha spiazzato. Si Perché “Discovery”
nell’aspetto generale e malgrado molti episodi diretti da veterani come LeVar
“Geordi La Forge” Burton e Jonathan “Two-takes” Frakes,
sembra aver ricevuto la direttiva di scuderia di darci dentro con i “lens
flare” e con le inquadrature a girare, attorno al cast fermo a discutere del
problema del momento, mentre la macchina da presa gira tutto loro intorno, come in un pezzo famoso di Battiato. Capisco
perfettamente che una buona fetta di pubblico, potrebbe aver sviluppato
interesse per la saga creata da Gene Roddenberry dopo il successo al
botteghino dei film del maledetto GIEI GIEI, ma per via dell’aspetto dei
Klingon e di tutti quei “lens flare”, ho seriamente pensato che “Discovery”
fosse una sorta di prequel sì, ma del “Kelvin-verso”, sul serio con tutto quel
parlare di Spock, ho davvero creduto di veder spuntare Zachary Quinto,
nuovamente con le orecchie a punta, nel corso della seconda stagione.

Quelle lucine stronze, ormai mi hanno lesionato la retina.

Ma superato questo spiazzamento estetico iniziale, forse la
vera grande differenza di “Discovery” rispetto a tutte le altre serie di “Star
Trek” sta nell’aver chiesto alla coralità del cast di sedersi un attimo in
panchina a prendere fiato, in favore di trame che ruotano molto più intorno ad
un personaggio identificabile come protagonista, mi riferisco a Michael Burnham,
interpretata da Sonequa Martin-Green. Il fatto che si chiami con un nome
storicamente identificato con il genere maschile, sarebbe una lancia a favore
del tema caldo dell’inclusività, ma anche qui andiamo per gradi, non sembra ma
questa serie ha parecchi nodi da sciogliere.

Michael Burnham è il classico personaggio pensato a
tavolino, purtroppo si vede fin troppo, una donna di colore con il nome da
maschietto, nel futuro di “Star Trek” serve a spuntare vari punti sulla lista
delle minoranze da rappresentare, un fattore che è sempre più influente al cinema
e nelle serie televisive contemporanee. Ma per essere sicuri che il pubblico
identifichi Michael come il personaggio di riferimento, perché non appiccicarle
addosso anche un po’ di “retro-continuity”? Michael Burnham è un’umana
cresciuta dai Vulcaniani e se non ne avete mai sentito parlare prima, in più di
cinquant’anni di storie di “Star Trek” è perché le premesse di “Discovery”
vanno prese per quello che sono, una serie prequel che però porta novità, o
presunte tali.

Con quella banana in testa, potresti dire delle grandi verità, ma diventa complicato crederti.

Di più? Alziamo la posta in gioco? Perché farla allevare
solo da semplici Vulcaniani? Perché non proprio da Sarek, rendendola così
sorellastra di Spock? Dopo pochi minuti di “Discovery” ho capito che i danni
fatti da GIEI GIEI a questo universo, non si limitavano ai “lens flare”, ma anche
a queste trovate ad effetto non sostenute dalla trama. Già perché Michael
Burnham, la perfettissima Michael Burnham, la petulante e piagnucolante Michael
Burnham del suo lascito Vulcaniano non ha nulla, di sicuro non la
criticatissima acconciatura, modificata in treccine (più Afro che Vulcaniane a
ben guardare) solo nel corso della terza stagione, quella utilizzata da
“Discovery” per correre dietro alle lamentele dei fan, introducendo in corsa
una serie di modifiche, ma ancora una volta vi devo chiedere di andare per
gradi, questa serie mette parecchia carne sul fuoco.

Passata dall’avere un gatto morto in testa, ad uno vivo in braccio.

Michael Burnham è colei che dopo anni di silenzio ha il
“primo contatto” con i Klingon e che di fatto provoca l’inizio delle ostilità,
ma è anche l’ammutinata, successivamente reintegrata con meriti che ha sempre
l’ultima parola, quando non è impegnata a piangere o a disperarsi per le sue
scelte tutte molto istintive, tutte molto di pancia, alla faccia della capacità
Vulcaniana si controllare le emozioni. Ma cosa ha imparato a fare questa su
Vulcano? A muovere medio e dell’anulare della mano? Nano nano, la tua mano, nano nano, apri piano!

La posa tipica di Michael: lo sguardo da triglia.

A bordo della nave che dà il nome alla serie poi, una banda
di gatti senza collare notevole: al comando Philippa Georgiou (la mitica Michelle Yeoh), una sorta di mentore per Michael, che viene spazzata via dalla storia,
solo per ritornare grazie al trucco dell’universo specchio, in una versione
distorta e cento volte più sopra le righe, una sorta di super cattiva Bondiana
(dell’epoca Roger Moore, quella più fumettosa) malvagia ed orgogliosa di
esserlo, tutta arti marziali e strizzate d’occhio al pubblico.

La “quota aliena” della serie è rappresentata da Saru,
l’alieno Sardo Kelpiano che ricopre il ruolo di Spock Data
ufficiale scientifico, appartenente ad una razza che non si è mai vista in
“Star Trek”, ma tanto il gioco ormai lo avete capito no? Saru funziona per la
natura paziente, quasi timorosa della sua specie, ma soprattutto perché ad
interpretarlo, sotto quintali di lattice troviamo un veterano di mostri e
creature fantastico, il leggendario Doug Jones, qui intento ad interpretare
l’ennesimo uomo-pesce della sua
carriera. Ok, Saru non è una creatura anfibia, ma ditemi se non sembra il cugino
di Abe Sapien.

Il più grande attore che non avete mai visto in faccia: Doug Jones.

La Discovery passa dall’essere una delle tante navi della
Flotta Stellare ad una corazzata da battaglia grazie alla scoperta del motore a
spore, che con quel nome, a me fa pensare alle scorie e nella mia testa, mi
immagino una sorta di propulsione alimentata a cacca, nemmeno fossimo nel
futuro di Mad Max. La mia testa è un
posto strano lo so.

La propulsione a spore permette alla Discovery di tele
trasportarsi ovunque nella galassia, inutile che vi ripeta che si tratta
dell’ennesima trovata troppo avanzata per una serie che dovrebbe essere un
prequel, ma più che altro ci tengo a parlarvi del Gran Visir delle spore, dei
muschi e dei licheni della nave, il Paul Stamets interpretato da Anthony Rapp,
personaggio che ha due principali caratteristiche, la seconda è quella di avere
una lunga storia d’amore con il medico di bordo Hugh Culber (Wilson Cruz), una
coppia Gay che continua a ribadire quanto “Discovery” abbia puntato
sull’inclusività, anche se posso essere spudorato? “Star Trek” teneva conto di
minoranze, mostrava baci interrazziali sul piccolo schermo e parlava di vivere
in armonia, ben prima che tutto questo fosse un tema caldo sul tavolo di tutte le serie
televisive, quindi anche da questo punto di vista, “Discovery” invece che
tracciare la rotta e andare là dove nessun uomo, donna, gender fluid era mai
giunto prima, gioca in difesa risultando meno innovativo di una serie che aveva
lucine colorate e porte automatiche, che venivano aperte a mano al passaggio
degli attori. Un passo avanti e due indietro avrebbe detto Springsteen.

Tu nella vita comandi fino a quando. Hai stretto in mano il tuo telecomando (cit.)

L’altra grande caratteristica di Paul Stamets? L’isteria. Si
lancia in lunghi monologhi, blatera da solo come un matto, cambia umore come se
più che di spore, sia esperto di altro tipo di sostanze ricavate da erba,
funghi e loro derivati, insomma spesso più urticante che simpatico, anche se questo primato va a Sylvia Tilly (Mary Wiseman): formosa, perché mi rifiuto categoricamente di utilizzare il
termine “curvy”, una cascata di riccioli rossi sulla testa, per la prima volta
una donna vera sulla plancia e non una super modella come Sette di Nove oppure T’Pol,
peccato che Tilly sia di un fastidioso che levati, ma levati proprio.

Non è cattiva, ma purtroppo la scrivono proprio così.

Sempre frasi fuori luogo, specialmente nei momenti in cui è
richiesto un certo rigore nel trattare con altre specie, con quella sua mania
di fare battute che NON fanno ridere e poi, passare il tempo a spiegarle. Un
altro personaggio pensato a tavolino per piacere che invece risulta fastidioso
e basta. Peccato, tifavo per lei per mettere fine alla dannata moda dei
pigiamini super aderenti di “Star Trek”.

Anche se in versione Xena principessa guerriera mi piace molto di più.

Le trame di “Discovery” alternano episodi riusciti ad altri
che a livello di trama mi hanno lasciato francamente perplesso. Una volta
digerito il nuovo aspetto dei Klingon devo dire, che mai come in questa serie i
fieri guerrieri vengono rappresentati come una serie di famiglie e caste, in
lotta interna tra di loro, pomposi e tosti come se fossero usciti dalla
copertina degli album dei Manowar anche se per assurdo, i personaggi più
riusciti sono quelli che ruotano attorno al cast principale.

Che sia qui o in un film di Snyder, Tig Notaro non cambia mai, la comica che non fa ridere nemmeno per sbaglio.

Il capitano Gabriel Lorca è il carismatico bastardo che da
solo, rende la “Discovery” una nave più unica che rara del panorama della
Flotta Stellare, ad interpretarlo un campione del mondo delle facce da schiaffi
come Jason Isaacs, uno che su una nave spaziale, di norma si trova a suo agio.
Lorca è quasi un anti-eroe, finché sta in scena questa serie offre spunti e
segni di vita, anche se essendo interpretato da Isaacs (di fatto uno “Spoiler”
umanoide a livello di scelta di casting) non è difficile intuire il destino del
suo personaggio, ma posso dirlo? Meglio dieci Gabriel Lorca che un solo altro
piagnisteo di Michael Burnham! Non ho ancora capito perché un’attrice che
risultava anonima già nel cast di I Camminamorti, sia stata considerata quella giusta per diventare il nuovo
volto di “Star Trek”. Ma magari sono solo io che non ho capito lo spirito di
questa serie, o come funziona Hollywood eh?

E Rhett Butler… MUTO!

A proposito di capitani, nella seconda stagione di “Discovery”
la nave riceve un supporto (anche in termini di interesse per il pubblico) da
lei, l’unica, la sola, anzi la prima USS Enterprise, comandata dal capitano Christopher
Pike e ovviamente dal lungo “Aspettando Spockò” che caratterizza la seconda stagione.
L’Enterprise entra in scena con i suoi colori, i suoi “pigiamini” sgargianti e
con una sotto trama legata alla ricerca di Spock (occhiolino-occhiolino) qui
interpretato da Ethan Peck, posso aggiungere interpretato anche molto bene?

Non so dove l’abbiano pescato, ma questo Pike ci fa viaggiare indietro nel tempo.

Immaginatevi la pressione del dover essere un giovane
attore, chiamato ad interrpepetare Spock in “Star Trek”. Peck qui risponde
benissimo, anche meglio del blasonato Zachary Quinto che risultava spesso
troppo sguaiato (per via delle scelte assurde del maledetto GIEI GIEI) oppure
fin troppo con la sua aria da professorino. Ethan Peck più che cercare di
imitare Leonard Nimoy, trova il modo di regalare un giovane Spock convincente,
pacato dei modi, proprio dove Quinto invece risultava essere
passivo-aggressivo.

Poi dicono che bambini e Vulcaniani non capiscono la satira eh?

Anche Anson Mount risulta essere una scelta perfetta per il
ruolo del capitano Christopher Pike, a tratti sembra davvero di essere tornati
indietro ai tempi del primo pilota della serie originale, se poi aggiungiamo la
presenza della misteriosa Numero uno (quella santa donna di Rebecca Romijin), sono più interessato
alla già annunciata serie spi-off “Star Trek – Strange new worlds”, piuttosto
che alla quarta stagione di “Discovery” o alla seconda di “Picard” (a breve su
queste Bare).

Già perché la terza stagione di “Discovery”, tira un calcio
al secchio del latte, spargendo sul pavimento quanto di buono fatto da una
serie che mi è parsa l’eterna indecisa. Senza rovinarvi il finale della seconda
stagione (l’unico che mi ha un po’ preso) di colpo all’inizio della terza stagione, l’equipaggio della
Discovery si ritrova catapultato 900 anni nel futuro, dove finalmente una serie
contemporanea, non deve più mordere il freno per sembrare un prequel a tutti i
costi e dove finalmente, “Star Trek” torna a parlare del suo futuro, senza
rivolgere costantemente lo sguardo al passato, risultato? Peggio che andar di
notte.

Ma solo a me ricorda Chiara Appendino dipinta di verde?

Il viaggio nel futuro non porta grandi cambiamenti alla
serie, se non i nuovi capelli di Michael Burnham, che mettono in chiaro che
tutta la terza stagione, sia stata scritta e pensata per tener conto del
borbottio dei Trekker, ma da quando correre dietro ai fan è la soluzione? Non
lo è mai stato e non lo sarà mai, infatti l’ultima (al momento) stagione di
“Discovery” è la più insignificante, nemmeno la minaccia delle aliene
verdastre, passate da odalische iper sessualizzate a cattive ribelli contro il
patriarcato, portano davvero una ventata di novità in una serie che fa di tutto
per strizzare l’occhio alla comunità LGBT, ma risulta molto meno ispirata in
tal senso della serie classica, per
un motivo semplice: “Discovery” si affanna a sottolineare il suo cast pieno di
attrici e i suoi personaggi omosessuali, quando invece la serie classica, dava per
scontato che il futuro dell’umanità, non si soffermasse più su tutte queste
classificazioni. Un passo avanti e due indietro l’ho già detto vero?

Cosa mi ha convinto a concludere le tre stagioni di
“Discovery”? Un regalo inaspettato, di colpo nel cast in un ruolo fisso,
compare uno dei prediletti di questa Bara, David Cronenberg nel ruolo di
pensate un po’? Un dottore. Strano, non gli chiedono quasi mai di interpretare un medico.

Romulano? Vulcaniano? No meglio, Canadese!

Il mio secondo Canadese preferito non è nuovo a piccoli ruoli da attore, aveva recitato anche in un paio di puntate di “Alias” e in
Jason X, per restare in tema spaziale. Per sua stessa ammissione Cronenberg ha
dichiarato che apprezza recitare, un’attività di tutto riposo, basta
presentarsi in orario sul set conoscendo le proprie battute a memoria, quasi
una vacanza dal lavoro del regista, dove sei costretto a rispondere a mille
domande, formulate da chiunque sul set, ogni minuto, di ogni giorno.

Cronenberg per altro abita poco lontano da dove la serie
viene girata in Canada, ha dichiarato di costare poco e di apprezzare la serie
classica, quindi state sicuri che il suo occhialuto personaggio continuerà a
spuntare in questa serie. Insomma hanno trovato il modo di farmi guardare anche
la quarta stagione già annunciata!

Per quanto riguarda “Discovery” è tutto, prossima settima
continueremo questa lunga maratona Trekker con un’altra serie, avrete già
capito a quale mi riferisco: il ritorno di Gianluca. Non mancate!

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