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Steve Jobs (2016): stay hungry, stay Sorkin

Non sono mai stato uno di quegli smanettoni informatici che deve per forza avere l’ultima versione di sistema operativo e di hardware a tutti i costi, però l’informatica mi è sempre piaciuta ed è anche parte del mio lavoro, non vado nemmeno pazzo per la famosa azienda con la mela masticata e per il suo celebre fondatore, ma quando ho letto che Aaron Sorkin era al lavoro su una sceneggiatura sulla vita di Stefano Lavori, non avevo davvero bisogno di sapere altro per convincermi a vedere il film.Ormai i computer sono qualcosa di scontato, fanno parte delle nostra routine (seee! Spiegatelo ad alcuni dei miei colleghi…), sono sempre molto interessato a conoscere l’evoluzione dei computer, macchine inventate da alcuni occhialuti smanettoni nei garage delle rispettive case, per arrivare ad influenzare (e il più delle volte facilitare) la vita di tutti. Quindi da (abbastanza) appassionato, ho un’infarinatura decente sull’argomento, voi direte: “Ma un bel chissenefrega non lo mettiamo?” vero, ma tra un po’ questa cosa torna buona, lasciatemi l’icona aperta… Per restare in tema informatico.

Questo film ha avuto una genesi moderatamente travagliata, tratto dalla biografia ufficiale di Stefano Lavori, avrebbe dovuto essere diretto da David Fincher, ricomponendo così la squadra (vincente) di “The Social Network”, a mio avviso uno dei migliori film di questi anni 10 e spiccioli. Sorkin ha portato a casa l’Oscar per la sceneggiatura di “Moneyball” (L’arte di vincere), quindi era lecito aspettarsi moltissimo da questo film, anche perché il regista nel frattempo è diventato Danny Boyle, un altro ancora piuttosto fresco di Oscar.

Anche Danny Boyle cede alla moda dell’inquadratura “NUCam” (copyright La Bara Volante aut.min.rich)

Risultato: negli Stati Uniti di Applelandia, il film è stato un mezzo flop al botteghino e l’Accademy quest’anno ha preso in considerazione solo Michele Piegaveloce e Kate Winslet tra i nominati per le statuette. Se fossi in vena di dietrologie gratuite potrei speculare sul legame tra scarsi incassi e mancate nomination (… COFF COFF Straight outta compton CoFF CoFF!!), ma preferisco parlarvi del film, che è meglio, come direbbe il Puffo Quattrocchi, bluastro rappresentante della categoria “Smanettoni informatici” presso la Puffo Comunità.

Come vi dicevo, mi è basato il nome Aaron Sorkin a convincermi a voler vedere il film, quindi non avendo visto nemmeno mezzo trailer, quando ho intuito la struttura del film ho iniziato a fregarmi le mani: quel diavolaccio del Sorkin ha piazzato un’altra zampata delle sue.


«Cosa ne pensi Steve?» , «Mmm va bene, però facciamolo tutto bianco»

“Steve Jobs” è diviso in tre grosse porzioni, tre momenti (chiave) della vita di Stefano Lavori che di fatto rendono il film in un’opera in tre atti, dove il personaggio evolve, ma più che dei classici ascesa, trionfo e caduta, parlerei di un (vana)gloria, vendetta e redenzione (super Ego permettendo), vado a spiegare.

Il primo atto è ambientato nel 1984, negli ultimi 15 minuti prima del lancio del Macintosh 128K. Il secondo va in scena nel 1988, Steve Jobs è impegnato a lanciare il cubo perfetto della NeXT Computer, alla Davies Symphony Hall di San Francisco. L’ultimo nel 1998 vede Jobs come nuovo CEO della Apple, questa volta è il momento di lanciare il Macintosh Apple.

Sorkin fa un lavoro micidiale, il livello di cura del dettaglio della sceneggiatura lascia senza parole, se avete familiarità con l’argomento trattato e conoscente la storia dell’azienda con la mela masticata, l’unica cosa che potrete fare e alzarvi in piedi per gridare “Bravò!” al buon vecchio Aronne, che nel suo script dimostra di aver fatto i compiti alla grande (non mi aspettavo niente di meno). Si ricorda dello storico spot pubblicitario andato in onda durante la finale del Super Bowl, intitolato “1984” ispirato al romanzo capolavoro di George Orwell e per altro diretto da Ridley Scott. Ma non manca nemmeno una geniale citazione alla morte da Biancaneve di Alan Turing (si quello del film The imitation game), che mette in correlazione la famigerata mela con il logo dell’azienda di Jobs, se si fosse anche giocato “la mela di Odessa” degli Area, il capolavoro sarebbe stato completo.

Trionfo senza precedenti e flop ingiustificato? Secondo me no, perché bisogna dire che la sceneggiatura di Sorkin parte a cannone come un centometrista strafatto di Metanfetamina. Dopo quelli che mi sono sembrati circa una ventina di minuti, ho buttato un occhio all’orologio e mi sono reso conto che il film era già iniziato da tre quarti d’ora ariosi, questo per dirvi del livello di coinvolgimento (mio), ma anche delle frenesia degli eventi sullo schermo.

«Michael come faccio a fare un film così io faccio solo commed…», «Seth, Seth, respira, se qui perché avevamo bisogno di qualcuno che portasse il fumo»

La parte iniziale di “Steve Jobs” non prende prigionieri, se ti distrai non dico un minuto, ma anche solo mezzo secondo, rischi di perderti un dialogo chiave, ad una velocità folle viene introdotto il borioso e ossessivo Steve Jobs (Michele Piegaveloce), la sua assistente storica Joanna Hoffman (Kate Winslet), l’amico e compare dai tempi dei “Garage Days” Steve Wozniak (Seth Rogen con barbone), l’amministratore delegato arrivato dalla Pepsi John Sculley (Jeff Daniels) e il nerdissimo tecnico Andy Hertzfeld (Michael Stuhlbarg). Aggiungete anche la figlia piccola Lisa (come il modello del computer, sì, no, forse…) e avrete tutti gli attori di questo dramma in tre atti.

A questa velocità da microprocessore aggiungete il fatto che Sorkin non fa nessuna facile concessione al pubblico: devi avere già presente chi era Steve Jobs e cosa aveva fatto prima del 1984, altrimenti? Beh, altrimenti, ciccia… Prrr! Circolare!

Riprendo l’icona lasciata aperta lassù: ora io non so quanti spettatori siano così pronti quando si parla di computer, ma soprattutto di storia dell’informatica, anche quelli che ci tengono ad avere sempre l’ultimo modello di i-Qualcosa, non credo che sappiano poi molto della vita di Steve Jobs. La sensazione che ho (e sicuro mi sbaglierò) è che molti percepiscano il personaggio solo come il santo inventore di telefoni, quello di “Stay hungry, stay foolish”, a mio avviso il motivo del flop al botteghino va ricercato qui.

Quando ho le maniche tirate su mi prendono tutti per il culo, ma se lo fa Steve Jobs è figo.

Ma se il primo atto del film è ottimo, il secondo è anche migliore: qui ritroviamo Steve Jobs (sempre più elegante e ossessionato dalla precisione) di nuovo alle prese con il lancio del NeXT e ancora una volta ad interfacciarsi con l’ex socio (e amico) Steve Wozniak, con la figlia, ma soprattutto con John Sculley, l’uomo che tutti ricordano come colui che ha licenziato Steve Jobs dalla Apple. Ecco, lo scontro verbale tra Jobs e Sculley è la scena più riuscita di tutto il film.

Sorkin sovrappone l’incontro tra i due nel 1988, al momento della cacciata di Jobs dall’azienda da lui stesso fondata. Già prese singolarmente le scene rappresenterebbero due manuali su come scrivere dialoghi riusciti in un film, ma Sorkin fa molto di più e intrecciandole crea un momento di pathos che levati, ma levati proprio, invece di tenerselo per il finale, lui se lo gioca a metà film, provate a fare meglio adesso.

Il problema di “Steve Jobs” è il terzo atto, quello dove finalmente vediamo il Jobs che tutti conoscono, con gli occhiali tondi, i jeans e la maglia nera. Per la terza volta lo vediamo scontrarsi con Joanna, Andy (tutti e due), John Sculley e soprattutto Steve Wozniak e sua figlia Lisa. Qui i nodi del film vengono al pettine.

Sorkin è talmente intelligente che ad un certo punto, fa pronunciare a Stefano Lavori la frase (cito a memoria): “Possibile che tutti quanti cerchino di chiarirsi con me negli ultimi 5 minuti prima di un lancio?”, a questo punto la precisissima circolarità (che sarebbe piaciuta al vero Jobs) del film, inizia ad assomigliare troppo a ripetitività. Ma non credo nemmeno che sia davvero questo il problema del terzo atto, quello che mi è mancato un po’ nel finale è il colpo del KO, forse perché lo scontro Sculley/Jobs della seconda porzione è un apice troppo alto, forse perché un po’ di buonismo viene fuori (la trovata del Walkman della figlia), ma il film che dovrebbe finire con un KRAKABOOM! Termina sì con un’esplosione, ma più moderata.

In tutto questo, cerca di incastrarsi il regista Danny Boyle, nel primo atto risulta soffocato (per non dire strangolato) dalla sceneggiatura al fulmicotone di Sorkin, limitandosi a portare in scena il tutto molto bene, ma senza guizzi, quasi mettendosi da parte.

«Ok Aaron, quindi tutta quella roba che hai scritto, ora la giriamo… Qui, giusto?»

La prima cosa alla Boyle che si vede nel film, arriva verso la fine del secondo atto, nel momento in cui Joanna parla della “macchina della vendetta di Steve Jobs”, Boyle sottolinea il monologo successivo di Fassbender proiettando un razzo in partenza sulla parete, una trovata che a mio avviso non serve a molto e mi ha fatto esclamare: “Ecco la prima cosa alla Boyle di Danny Boyle”.

Il terzo atto, che se non si fosse capito è quello che ho apprezzato di meno (ma penso fosse chiaro) è anche quello dove Boyle sbraga. Non credo sia un problema di formato, il vecchio Danny ha deciso di dirigere le tre porzioni di film rispettivamente in 16mm, 35mm e in digitale ed è un risultato che visivamente paga dei dividenti.

Quello che non ho apprezzato è proprio il contorno, in una scena in particolare si vede che manca la mano del regista, quando Steve e sua figlia Lisa hanno un diverbio nei corridoio della Apple (sotto la foto di Bob Dylan), le comparse intorno a loro sono ferme. Ferme immobili, non fanno nemmeno finta di stare facendo qualcosa, sono proprio immobili. Non ho potuto fare a meno di pensare all’unica scena non dialogata di “The Social Network”, quella della gara di canottaggio, David Fincher con quella scena ha saputo dire moltissimo della frustrazione dei personaggi, solo mostrando (e usando le musiche di Trent Reznor) incastrando alla perfezione il suo lavoro, nella sceneggiatura di Sorkin, ecco a mio avviso, nel confronto diretto, Danny Boyle ne esce sconfitto con perdite.

«Aumenta la risoluzione, aumenta la risoluzione… No, troppo. Portalo via»

Detto questo, il film vola comunque a livelli molto alti, gli attori funzionano alla grande, anche se ho qualche dubbio sulla resa scenica del loro invecchiamento (il personaggio di Kate Winslet sembra più giovane nel terzo atto che nel primo), ma in generale il cast è davvero ottimo ed è chiaro che ogni personaggio rappresenti una parte della coscienza di Stefano Lavori, come tanti grilli parlanti.

Insomma, “Steve Jobs” sembra tre episodi di “Halt and catch fire” (serie che potrei anche decidermi a riprendere in mano) scritti da un fenomeno come Sorkin, temo che una grossa porzione del pubblico si perderà sulla storia pregressa, che viene data per scontata senza troppe spiegazioni (in questo senso il film sembra l’ANTI-“La Grande Scommessa”, a breve su questi schermi…).

Concludo dicendo che Michael Fassbender ha mandato a segno un’altra grande prova, purtroppo la sua performance sarà sempre messa in ombra da quello che è stato il più grande Steve Jobs cinematografico di sempre (Modalità Sarcasmo:  Inserita), ovvero Ashton Kutcher nel BELLISSIMO (si fa per dire…) “Jobs” del 2013. Avrei davvero voluto vedere Fassbender esibirsi nella camminata alla Steve Jobs di Kutcher. Vi giuro che ancora oggi a distanza di anni, quando ci penso, scoppio a ridere come uno scemo, una roba da fare quasi invidia al John Cleese dello sketch dei Monty Python “Ministry of silly walks”… Ashton Kutcher! Quello sì che è un grande attore! Ok basta, fatemi disinnescare questa modalità sarcasmo, è troppo anche per me. 

Sepolto in precedenza lunedì 25 gennaio 2016

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