Nel silenzio assordante, come si dice in questi casi, quello di
buona parte dei miei contatti (tranne uno, ciao DonMax) e di quasi tutta la critica
specializzata, quella stipendiata per scrivere di cinema, alcune settimane fa
ci ha lasciati Monte Hellman, per questa Bara è arrivato il momento di fare
qualcosa.
Tra tutti i registi della New Hollywood che hanno
rivoluzionato il cinema americano negli anni ’70, Monte Hellman è stato il più
silente, quasi la pecora nera del gruppo, atipico in tutto, dalla sua
formazione artistica fino alla poetica, chiarissima in tutti i suoi film ma per
certi versi opposta a quella dei registi che normalmente trovate celebrati su
questa Bara. Ecco perché deve starci.
Personalmente amo tutti quegli autori in grado di essere
autoriali anche utilizzando il cinema di genere, sono sempre pronto a
utilizzare questa Bara per ricordare a tutti i cinefili con un po’ di puzzetta
sotto il naso, che si può fare arte, ma arte vera, anche con sgommate, motori
rombanti, esplosioni e sparatorie. Monte Hellman con la sua vita artistica fuori
dagli schemi, aveva entrambi i
piedi ben piantati nel cinema di genere, ma lo utilizzava in maniera quasi intimista.
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Giuro che per rispetto, non farò battute del tipo: l’uomo del Monte. |
Forte di una formazione teatrale e di un lungo apprendistato
come montatore, Monte Hellman era un intellettuale Newyorkese con una
predilezione per le opere di Camus e Beckett. Non è un caso se uno dei suoi
primi lavori di rilievo fu proprio la messa in scena di “Aspettando
Godot” sì, però in versione western (storia vera). Perché Hellman era così, cultura “alta” e “bassa” per lui non hanno mai fatto distinzione, infatti
proprio grazie a dei Western il suo nome è finito sulla mappa geografica, ai Western e al suo mentore, il solito immarcescibile Roger Corman, che dopo averlo
tenuto a battesimo per titoli horror come “Beast from Haunted Cave” (1959), lo
ha prodotto e supportato nella sua intenzione di dirigere un western, anzi,
perché non farne due Monte?
“La sparatoria” e “Le colline blu”, entrambi del 1966, sono
stati girati in contemporanea su suggerimento di Corman, infatti sono popolati
dalle facce della “factory” del maestro di Detroit, uno tra tutti Jack
Nicholson, il leggendario Harry Dean Stanton e ovviamente Warren Oates,
attore feticcio di Hellman e Sam Peckinpah, perché come dichiarò il buon
vecchio Monte: «Ci sarà sempre un ruolo per Warren Oates nei miei film» (storia
vera).
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Facce da schiaffi da competizione: Warren Oates. |
Per certi versi entrambi questi Western sono stati una
reazione all’omicidio del presidente Kennedy, non a caso una sparatoria ora che ci penso.
L’eterno vagare dei protagonisti, che sono il più delle volte anti eroici in
tutto e per tutto, erano la perfetta metafora di un Paese senza più una strada da
seguire, raccontata utilizzando non a caso il più americano dei generi
americani, quello con revolver, cavalli e cappelli a tesa larga. Tra i due, ho
sempre avuto una predilezione per l’essenzialità assoluta di “La sparatoria”, dove Warren Oates si carica sulle spalle il film, dove Jack Nicholson ghigna
diabolico nei panni di un provetto assassino e dove la stessa sparatoria del
titolo, sono un paio di colpi sparati senza gloria, l’opposto delle grandi
enfatiche attesa Leoniane, ma comunque in puro
stile Western. Sono anni che ripeto che se mai qualcuno
volesse fare un film (uno bello intendo!) tratto da “L’ultimo cavaliere” di Stephen
King, dovrebbe prima ripassarsi per benino “La sparatoria” di Monte Hellman.
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Giovani, ribelli e motorizzati. |
Ma prima di trasformare questo post in una (tediosa)
disamina sui Western di Monte Hellman, passiamo al film con cui ho scelto di
ricordare il regista, uno che proprio quest’anno compie cinquant’anni ovvero “Strada
a doppia corsia”. Un film uscito sull’onda del successo di “Eady Rider” (1969)
di cui è quasi l’antitesi. Perché Dennis Hopper alzava il volume della radio,
utilizzando la musica (diventata leggendaria) e la droga come inno alla
rivoluzione di una gioventù senza più punti di riferimento, invece Monte Hellman
ci trascina nell’America sfiduciata, che vaga senza meta nel vuoto generato dal
passaggio dal democratico Lyndon Johnson al repubblicano Richard Nixon, ma lo fa
esattamente al contrario di Hopper. In “Two-Lane Blacktop” il rumore dei motori
sovrasta la musica e persino il logo della Universal Pictures, che produsse il
film ma non prese proprio benissimo questa scelta del regista (storia vera).
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Dennis Hopper un ferro così se lo poteva giusto sognare. |
Per certi versi “Strada a doppia corsia” è un film
estremamente musicale (lasciatemi l’icona aperta su questo punto, più avanti ci
torneremo) anche se nel film, la musica quasi non si sente, l’unica ad accennare qualche
pezzo canticchiato è l’autostoppista, la ragazza, perché in questo film, tutti i
personaggi non sono identificati da un nome ma dal proprio ruolo, come una
versione figlia dei fiori di Driver di Walter Hill. La ragazza è un’anima tormentata in fuga, interpretata dalla
giovanissima e appena maggiorenne Laurie Bird, che otto anni dopo questo film
morì suicida, sinistra conferma che il tormento del suo personaggio forse, non
era tutta recitazione.
Monte Hellman con “Two-Lane Blacktop” scardina un altro
genere Americano al 110%, dopo il Western tocca ai film – occhio che arriva il
virgolettato – “On the road”, sulla strada come Jack Kerouac qui troviamo due
amici, un pilota e un meccanico, a bordo del loro “catenaccio”, una Chevrolet
55 con motore truccato, che i due hanno costruito pezzo per pezzo e che nel
film viene smontata, ripulita, sistemata con la stessa metodica e distaccata
cura che dopo, ho ritrovato solo in certi film di David Cronenberg, non a caso un appassionato di motori.
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“Cosa sta blaterando Cassidy?”, “Che ti frega, ora premo a tavoletta e sentirai solo più il rombo” |
I due protagonisti sono giovani, capelloni e ribelli,
guidano da costa a costa, in cerca di un uno sfidante contro cui gareggiare e
scommettere. In auto parlano del più e del meno (una costante in tutto il film)
se non fosse per la giovane autostoppista che caricano, la radio in auto che
trasmette musica per loro sarebbe un rumore di fondo, sovrastato costantemente
dal rombo del motore del loro bolide. In un film che parla (anche) delle
contraddizioni di una nazione, Monte Hellman sottolinea questo paradosso
facendo interpretare due che sono fissati con il suono del motore, a due veri
musicisti, il cantautore James Taylor interpreta il pilota mentre il batterista
dei Beach Boys, Dennis Wilson, ricopre il ruolo del meccanico.
Il loro perfetto contraltare è interpretato dall’attore
feticcio di Hellman, il solito gigioneggiante Warren Oates, proprietario di una
Pontiac GTO gialla e tamarissima come il suo autista, perché Warren Oastes si
divora ogni scena in cui compare come la sua auto divora chilometri di asfalto.
Ad ogni autostoppista che carica, racconta una versione diversa della sua
storia, avete presente il Joker di Heath (in amicizia “BIP”) Ledger? Un dilettante a confronto di quel caccia balle di Oates.
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“Vuoi sapere come mi sono fatto |
Visto che Monte Hellman è a mezzo grado di separazione da
tutti i miei preferiti – anche in questo riusciva ad essere fuori dagli schemi – potremmo parafrasare il pezzo simbolo di Strade di fuoco dicendo che i protagonisti di questo film, non vanno da nessuna
parte, ma ci vanno in fretta. Per certi versi sembra di vederli vagare sulle
strade d’America come se guidassero lungo un nastro di Möbius, quando entrano
in scena sono già alla guida e se ne andranno così, al volante, a tavoletta
anche più di quanto faceva il Kowalski di un altro film uscito nello stesso
anno, “Punto Zero” (1971).
Ma se il film di Richard C. Sarafian, si concentrava sui
muscoli e i cavalli della Dodge Challenger bianca in fuga, Monte Hellman mette
su una sparatoria su gomme, un lungo inseguimento, quasi una sfida infinita tra
i ragazzi sulla Chevy e il chiacchierone sulla Pontiac, due opposti che in
qualche modo si attraggono, ma sicuramente si sfidano.
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“Ladies and Gentlemen, start your engines!” |
La gioventù senza meta, alla guida di un’auto fuori da ogni
schema, costruita letteralmente in casa, pezzo per pezzo, contro la vecchiaia
piena di boria, alla guida di un ferro che invece è frutto dell’industria, della
catena di montaggio, identica a mille altre Pontiac GTO in giro per il mondo. Omologazione
contro ribellione, scontro generazione sì, ma tutto gestito dal campione del
mondo degli anti eroi senza un minimo di gloria. Infatti Monte Hellman fa
parlare i suoi protagonisti come se non ci fosse nessuno ad ascoltarli, nemmeno
noi spettatori. Se volete un film facile cercate altrove, se volete un autore completo
davvero unico, salite a bordo e lasciate che Monte Hellman vi guidi in questo
infinito aspettando Godot su gomme. Aspettando sgommò.
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“Lo senti? Dice a noi che parliamo, ha riempito un post di caSSate” |
Dovremmo andare ad Amarillo, dovremmo andare a vedere il
Gran Canyon, parlano di tutto e sembrano non dire niente i personaggi del film,
il fatto che molti di loro non siano nemmeno veri attori, rende il tutto ancora
più naturale perché l’importante per questi personaggi è andare, dove? Chi lo
sa, vagano spersi in un Paese in cui per assurdo, nessuno tiene più le mani sul
volante. Il sogno Americano si è infranto da tempo e qui si guida tra le rovine
e per certi versi, anche questo mi fa tornare ancora in mente Cronenberg.
In 102 rarefatti minuti, sembra che Monte Hellman ci
racconti 66 storie, come la Route 66 attraversata e ormai completamente diversa
da quella diretta dal regista, come lui stesso dichiara nel documentario
sulla realizzazione del film intitolato “On the road again”. Ogni personaggio
che entra in scena a parlare del più o del meno, lo fa spesso di colpo perché
Hellman nel suo stile rivoluzionario, se ne frega anche del luogo sacro dove i
film nascono per davvero, la sala di montaggio. Ecco quindi apparire dal nulla il cowboy
di Harry Dean Stanton, che più che da un film di Ford sembra il “Midnight
Cowboy” diretto da John Schlesinger nel 1969, un personaggio che da solo
anticipa “Brokeback Mountain” (2005) e i viaggi dello stesso Stanton diretti da
Wim Wenders.
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“Ti ho detto che non mi va di giocare ai cowboy gay, smettila!” |
Non è un caso se uno così capace di far chiacchierare i suoi
personaggi sui massimi sistemi così tanto, sia finito a lanciare la carriera di
un altro esperto in dialoghi, producendo “Le Iene” (1992) di Quentin Tarantino,
che poi è anche l’unica voce della filmografia di Monte Hellman che è stata
ricordata dalla stampa stipendiata, il giorno della suo dipartita: «Morto Monte
Hellman… bla bla bla… TARANTINO!», più o meno la notizia è stata riportata
così. Beccami gallina se qualcuno ha ricordato che so, che un Hellman non
accreditato, ha curato la regia della seconda unità di Robocop (storia vera), giusto per dirvi quanto il nostro avesse
entrambi i piedi ben piantati nel cinema di genere.
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“Quando ho chiesto se avevate una gomma non intendevo questo” |
Bisogna destreggiarsi tra i dialoghi, per
capire quale punto del nastro di Möbius chiamato “Stati Uniti d’America” stiano
attraversando, se il gareggiare per soldi o per il libretto dell’auto
caratterizza la prima parte della sfida, nell’ultima parte viene introdotto il
tema della morte. A farlo è un’anziana autostoppista, reduce dalla morte della
figlia, stando alle sue parole avvenuta durante un incidente su “un’auto
come questa”, nello specifico la GTO di Warren Oates, il simbolo della catena
di montaggio. L’anziana signora, una delle mille apparizioni in un film in cui
sembra che gli eventi semplicemente accadano, a volte senza troppa soluzione di
continuità, perché tanto i protagonisti di fermarsi non hanno nessuna
intenzione.
Per mettere fine al loro disilluso e disperato vagare senza
meta, deve intervenire un fattore esterno, una trovata metacinemtatografica che
straccia il nastro di Möbius che è la pellicola cinematografica, che
letteralmente si brucia e prende fuoco sotto i nostri occhi. Quindi dimenticate
ogni finale anti climatico visto nella vostra vita di spettatori,
nessuno potrà mai battere Monte Hellman in questa specialità, proprio nessuno!
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Oh, Thunder Road, sit tight, take hold, Thunder Road (cit.) |
Ma se proprio volessimo cercare un finale “vero”, uno da
considerarsi canonico (o presunto tale), dobbiamo ascolta ancora una volta i
vaneggiamenti di Warren Oates, che all’ennesimo autostoppista caricato a bordo,
racconta l’ennesima versione della sua storia, questa volta facendo sua quella
dei suoi “nemici”. Allo sconosciuto racconta di come un tempo, giovane e libero
guidasse una Chevy costruita da lui stesso, non questa roba fatta in serie
gialla su cui sgomma adesso. Un finale che ogni volta mi lancia addosso otto
quintali di amarezza, perché arriva come ogni altra cosa nel film e nella
vita, senza preavviso mentre sei impegnato a correre, correre per andare poi
dove, nessuno lo sa per davvero.
Ultima prima di andare, avevo un’icona da chiudere quindi lo
faccio ora. Per essere un film dove la musica è presente ma sovrastata dal
boato dei motori e dove i cantanti, invece che far musica guidano e recitano, “Strada a
doppia corsia” di musica ne ha generata tanta, però tutta di sponda. Quell’adorabile
tamarro di Rob Zombie ha confermato il suo buon gusto cinematografico e la sua
passione per il cinema degli anni ’70, con la sua strombazzata Two-Lane Blacktop, ma il migliore come
al solito, resta Bruce.
Per uno Springsteeniano come me scegliere è impossibile, ma
in un’ipotetica classifica dei miei pezzi preferiti del Boss (che da me non
avrete mai, quindi non chiedete), “Racing in the Street” occupa una posizione
molto molto alta anche per motivi affettivi. Il motivo per cui di pancia, il
cinema di Monte Hellman mi ha sempre trovato molto pronto e ricettivo non so
spiegarlo per davvero, so che è legato ad un momento, vogliamo dire
malinconico della mia vita in cui guidare, preferibilmente di notte, mi dava
serenità e Bruce con le sue canzoni, tra cui proprio “Racing in the Street”, era
la perfetta colonna sonora.
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Me and my partner Sonny built her straight out of scratch / And he rides with me from town to town (cit.) |
Che il Boss sia sempre stato cinefilo non lo scopriamo certo
oggi, ma voi provate ad ascoltare le parole di “Racing in the Street” e dentro
ci ritroverete il pilota e il meccanico, a cui Bruce appioppa un nome (Sonny),
se questo film avesse mai avuto una colonna sonora ufficiale, che non fosse il
rombo del motore di una Chevrolet 55, sarebbe stato sicuramente la voce di Bruce
Springsteen.
Quello che invece vi consiglio e di fare più di quanto abbia
fatto la stampa stipendiata nostrana, se non conoscete il cinema di Monte
Hellman andare ad esplorarlo, il viaggio sarà strano, non sempre immediato o
facile, la direzione incerta, come il titolo del suo film testamento “Road to
Nowhere” (2010), ma per qualcuno di voi potrebbe valere davvero la pena. Di
sicuro questa Bara aveva bisogno di correre e rendere omaggio ad uno che per
fare questo film ha rifiutato L’ultimo Buscadero dell’amico e collega Sam Peckinpah (storia vera), forse perché
l’ultimo dei Buscadero era proprio Hellman.
tonight the strip’s just right
blow ‘em off in my first heat
Summer’s here and the time is right