Potete battere il piede a ritmo di musicale, se ve la sentite esibirvi in un ballo sfrenato a centro pista, è il tipo di entusiasmo che il film di oggi richiede, il capitolo più musicale della rubrica… King of the hill!
Non credo proprio di poter fare a meno della musica e del cinema nella mia vita, con la notevole differenza che per il cinema sono alla costante ricerca del mio prossimo film preferito, una ricerca che mi fa rimbalzare tra i generi senza preconcetti. Per la musica ho le briglie un po’ più tirate, sono un rockettaro vecchio stampo, difficilmente mi smuovo da chitarre, basso e batteria incalzante, mi dico sempre che dovrei esplorare di più, se per un film posso (tentare invano) di analizzarlo secondo qualche parametro logico, la musica per me è una cosa “de panza”, da usare per gasarsi, consolarsi, uscire a fare casino o semplicemente accompagnarti per tornare a casa. Capite da voi che se trovo un film in grado di dare alla musica un ruolo così chiave, un po’ mi sento davvero come tornare a casa.
I guerrieri della palude silenziosa sarà stato un film troppo sottovalutato, anche dal pubblico che aveva ancora negli occhi I guerrieri della notte, una pietra miliare, prova del cristallino talento di Gualtiero Collina e senza dimenticare il suo fondamentale contributo alla realizzazione di Alien, nel frattempo Hill aveva anche spaccato i botteghini con un film meno personale, un caposaldo come 48 Ore. Era giunto finalmente il momento per Walter Hill di dirigere il film della vita, quello che sognava da sempre e per farlo, si è rivolto proprio alla musica.
Stiamo parlando di Walter Hill, un tipo di poche parole, tosto come i film che dirige, storie di pit fighter, oppure western urbani con automobili sgommanti, uno così con il ragguardevole budget di quasi quindici milioni di bigliettoni verdi, con sopra le facce di altrettanti presidenti morti che genere potrà decidere di ridefinire questa volta, facilissimo: una storia romantica con musica, canzoni e momenti musicali. Se non siete andati lunghi distesi dopo una notizia così, è perché siete fanatici di La La Land e per questo un pochino dovreste sentirvi in colpa, io ve lo dico.
Gli Americani sono sempre stati ossessionati dagli anni ’50 e ’60, lo abbiamo visto per “Happy Days” e per Ritorno al Futuro, il piano di Walter Hill era semplice: fare il film che avrebbe voluto vedere da quattordicenne, pieno di vecchie auto classiche, come la Cadillac decapottabile blu che fa sempre capolino nei film di Gualtiero, di locali con grandi insegne al neon come il Torchy’s che torna anche in questo film. Dove ci siano bus che filano, treni lanciati nel cuore della notte, baci intensi tra amanti scambiato sotto la pioggia battente, eroi, principesse da salvare e musica, tanta musica. Se la tag-line di Alien è una delle più micidiali della storia del cinema, quella di questo film riassume tutto: A Rock & Roll Fable.
Infatti il film inizia proprio così, con una frase sul grande schermo che ci introduce a questa favola Rock & Roll, seguita da un’altra, quella che Hill avrebbe già voluto usare per sottolineare la natura fittizia della storia in I guerrieri della notte: «Another time, another place». Anzi, a dirla proprio tutta, questo film si prende anche il titolo che nelle intenzioni di Hill sarebbe dovuto essere quello di “The Warriors” ovvero “Streets of Fire”, parole che se siete fanatici di La-La Land magari non vi diranno molto, ma se siete Springsteeniani come me, adesso siete saltati sulla sedia, perché Walter Hill proprio lui voleva per la colonna sonora, Bruce Springsteen e qui, mi spiace per voi, vi beccate una mia parentesi sull’argomento.
Bruce Springsteen e Walter Hill sono due animi affini, sono venuti su con i film western e con la musica giusta Rock, Blues, Soul, nella sua autobiografia il Boss ha dichiarato che sulla sua lapide vorrebbe una sola parola “Soulman”. Tra di loro ballano pochi anni di differenza, uno è un musicista con la passione per il cinema, l’altro un regista con la passione per la musica, nei suoi pezzi Bruce parla di vecchie auto che gareggiano per la strada, di ragazzi che provano le loro mosse da duri, mentre le ragazze si sistemano i capelli negli specchietti retrovisori, quello che senti in un pezzo di Springsteen potresti trovarlo in un film di Walter Hill e viceversa, per me è facilissimo apprezzarli entrambi, perché è chiarissimo il filo che li unisce, sono due tipi tosti con il cuore dal lato giusto. Se mai questi due fossero finiti a lavorare insieme, “Streets of Fire” (film, non la canzone del Boss), avrebbe avuto la coesione e l’unità di intenti che a questo film purtroppo manca e vi lascio immagina il quantitativo di decibel che avrebbe toccato l’esplosione del mio cervello, nel vedere un film così la prima volta.
Walter Hill con i suoi gusti molti classici, avrebbe voluto una colonna sonora Rock ‘n’ Roll sostenuta da un paio di pezzi travolgenti a trascinarla, la Universal, invece, vorrebbe non solo classici, ma qualcosa di più moderno che magari finisca in classifica e porti a casa qualche altro soldino. Per questa ragione, viene coinvolto un produttore musicale leggendario come Jimmy Iovine che tra i suoi clienti negli anni ha avuto tutti: Lennon, Tom Petty, Patty Smith e Bruce Springsteen che sarebbe la quadratura del cerchio, nonché l’uomo che ha ispirato il titolo del film con un suo pezzo.
Le cose non vanno in porto, perché con gli anni Bruce un po’ ha lasciato indietro qualcosa, ma è sempre stato un testone perfezionista e per precedenti impegni tra tour e dischi non può partecipare, ma la Universal pronta a dare a Walter Hill solo il meglio, assume Jim Steinman, se non lo conoscete, basta il suo soprannome: il Richard Wagner del Rock.
Walter Hill passa di colpo con le musiche di uno noto per le sue produzioni epiche al limite del pomposo, parliamo dell’uomo dietro a cosette che sicuramente conoscete tipo l’album del mitico
Meat Loaf “Bat out of hell”, oppure canzoni come “Total eclipse of the heart” e “Holding out for a hero” di Bonnie Tyler, tutta roba che ho nel mio lettore MP3 quando vado a correre insieme ai pezzi di Springsteen (storia vera), ma passare da Bruce a Jim Steinman è come passare dal completo nero elegante e sempre efficace, al completo nero, con gli stivali di serpente, il cappello da cowboy da abbinare magari ad una bella pettinatura cotonata, vuoi non mettercela?
Walter Hill riesce, comunque, ad avere il bluessaccio figo del fidato Ry Cooder per tutti i pezzi non cantanti che si sentono del film e ottiene di avere i Blasters ad esibirsi nel film con un paio di loro canzoni “One Bad Stud” e “Blue Shadows”), con il loro rock più classico nello stile, decisamene più vicini ai gusti del regista, bilanciando un po’ la colonna sonora che, malgrado pezzi di mezzo notevoli come “Sorcerer” di Marilyn Martin (ma scritta da Stevie Nicks), ha proprio nelle canzoni di Steinman due apici non alti, non altissimi… DI PIU’ che inevitabilmente si divorano il film.
In una delle sue rare interviste, Walter Hill ha dichiarato di essersi ispirato per la storia al film francese “Les parapluies de Cherbourg” (1964) di Jacques Demy, una commedia musicale di culto che a me piace tradurre come “Il parapocchio di Cerbocchio”, questo per dirvi dei miei problemi. Ma, badate bene, “Strade di fuoco” non è uno di quei musical dove improvvisamente i personaggi smettono di fare le cose importanti (tipo spararsi e inseguirsi) per mettersi a cantare, è comunque un film diretto dal regista di I guerrieri della notte che prende proprio l’idea dell’estetica volutamente esagerata del suo film più famoso e la spinge al limite, con lo stesso intento di Driver l’imprendibile, ovvero rendere il cinema, più grande, più figo della vita, anche grazie alla musica.
Il risultato finale è straniante, penso sia impossibile vedere questo film la prima volta e non pensare alla parola “Musicarello”, per rifarci ad un sottogenere un tempo polare qui da noi. Il film proprio come la colonna sonora che lo compone, ha dei problemi di coesione, le singole parti funzionano non bene, ma meglio, però nell’insieme a volte un po’ incespica. Ma è efficacissimo nel creare un mondo da favola, sospeso nel tempo, figlio di una notte d’amore tra gli anni ’50 – rappresentati da automobili e costumi – e gli anni ’80, con un uso sparato della fotografia del fidato Andrew Laszlo e un taglio montaggio che sembra anticipare la neonata MTV, anticipando di fatto una buona fetta dell’estetica di un paio di signori che a muovere la macchina da presa sono sempre stati bravini, gente come Tony Scott e Michael Bay.
A ben guardare, molti dei film da regista di Stallone, con l’alternanza tra recitazione e momenti musicali, ricordano un po’ Rocky IV oppure Cobra. Insomma, anche questa volta Walter Hill ha mostrato a tanti la strada da seguire, penso che nessun altro regista come lui sia riuscito ad essere il padre nobile di così tanti generi cinematografici, tutti orgogliosamente “di genere”. Al netto dei difetti, ma in virtù della sua unicità, per me tanto basta per farlo rientrare tra i Classidy!
Cosa vi dico sempre dei primi minuti di un film? Bravi, ne determinano tutto l’andamento, quelli di “Streets of Fire” ci raccontano anche tutta la storia, una famosa cantante viene rapita dal palco su cui si sta esibendo, da una banda di motociclisti che se la portano via, nemmeno fossero gli Indiani di un vecchio western. Per salvarla l’ex fidanzato, un militare ancora cotto di lei torna in città, imbraccia il fucile e va a caccia di Indiani. Fine della trama.
Far notare che il rapimento di una donna che porta alla guerra tra fazioni, sia sottolineato fin dal nome del personaggio, Ellen Aim, che ricorda volutamente un’altra Elen(a)della mitologia, offre un gancio con l’Anabasi che stava dietro a “The Warriors”, ma è inutile far più di così e sollevare lo scudo per proteggersi dietro alla definizione di “Favola Rock & Roll”, la trama di “Strade di fuoco” è un pretesto per scatenare il film, una storiella che non reggerebbe se a dirigerla non ci fosse un gigante, la scena d’apertura della pellicola è la prova che Hill così deve essere considerato, un gigante.
Partono le note sincopate di “Nowhere Fast” di Jim Steinman, eseguita dai Fire Inc. e Walter Hill parte con un montaggio che segue il ritmo, in cui ci mostra il mondo da favola Rock & Roll da lui creato e tutti i protagonisti della vicenda, a partire proprio dalla bella da salvare, una tigre sul palco che è stata doppiata per le canzoni, ma è fatta a forma di una Diane Lane allora diciottenne, bella, ma così bella che vorresti partire insieme a Tom Cody (Michael Paré) per andare a salvarla, perché parliamoci chiaro: Diane Lane è sempre stata una delle donne più sensuali mai viste al cinema, ma qui è una roba da morire, roba che persino Paride, Ettore, Agamennone, Achille e tutto il resto della banda avrebbero smesso immediatamente di calcolare quella racchiona di Elena.
La scena procede con un ritmo che t’incolla alla poltrona anche se sei in piedi, la banda di motociclisti cattivi noti come Bomber, è guidata da “quello spostato di Raven” (stando al bellissimo doppiaggio vecchia scuola come la colonna sonora), interpretato da un Willem Dafoe in una delle sue versioni più diaboliche, visto, piaciuto e preso di peso da Hill dal film d’esordio di Kathryn Bigelow, “The Loveless” (1981) dove pensate? Faceva la parte del motociclista (un cinque alto per Katrina). Il tutto mentre hai già imparato a memoria la canzone, anche se è la prima volta che la senti e stai cantando che anche se non vai da nessuna parte, ci vai in fretta, proprio come questo film.
Vedere per la prima volta “Strade di fuoco” è un’esperienza straniante, si finisce per aggrapparsi alle facce degli attori, in cerca di volti nomi ed elementi comuni al cinema di Walter Hill che, anche qui, ad esempio, a metà film riesce ad infilarci un mezzo inseguimento con un bus (sta in fissa con i pullman il nostro Gualtiero!). Sì, perché “Streets of Fire” è un film che migliora con il tempo e le visioni, questa favola Rock & Roll un po’ scollata ti conquista con il tempo e ti resta nel cuore come fanno le grande canzoni e mentre lo guardi passi da un pezzo all’altro facendoti conquistare dai personaggi, molti dei quali apparentemente fuori posto.
A partire dal protagonista, Walter Hill ha affidato il tostissimo Tom Cody (Cody, come William Frederick Cody, meglio noto come Buffalo Bill) allo sconosciuto Michael Paré, scelto con lo stesso principio per cui Hill aveva voluto Michael Beck nei suoi Warriors. Aveva visto Paré in “La banda di Eddie” (1983) e se l’è preso per il ruolo di protagonista nel film della vita. Poco importa se poi Paré sia finito a morire male in un Carpenter e poi dritto filato in serie Z. Qui, malgrado la camicia senza maniche e le bretelle (eh?) è abbastanza grosso da passare per quello che mena bulli nel locale della sorella Reva (interpretata da Deborah Van Valkenburgh, anche lei dritta da “The Warriors”), se siete fanatici del numero di espressioni facciali degli attori, Paré non sarà mai uno dei preferiti, ma come alter ego di uno di poche parole come Gualtiero Collina può andare bene.
Tom Cody, proprio come Hill, è uno cresciuto a pane e film di John Ford, la sua idea di romanticismo prevede anche rifilare cazzottoni in faccia alla propria bella, per mandarla prima al sicuro tra le braccia di Morfeo e poi al sicuro dai cattivi, ok forse non è l’esempio migliore che potevo scegliere, però è il tipo d’uomo che non ti fa la serenata sotto casa – di musica ne abbiamo già parecchia in questo film – ma la sua donna la bacia con impeto sotto la pioggia per mettere fine ad una litigata, uno spirito libero che le paroline che trovi nei Baci Perugina, non le pronuncerà nemmeno sotto tortura, ma se c’è da farsi sparare addosso o andare nella tana del lupo dei Bomber per la sua amata, di che stiamo aspettando? Si va!
Il suo perfetto contraltare è quello che porta un po’ di pepe in una storia d’amore come “Strade di fuoco”, l’attuale fidanzato di Ellen Aim, il suo agente che, non solo è fisicamente l’opposto di Tom Cody, si chiama Billy Fish e ha anche la faccia occhialuta di Rick Moranis. Cosa ci fa Rick “Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi” Moranis in un film di Walter Hill? Contribuisce al senso di straniamento iniziale dello spettatore, per poi tradursi nel viscido bastardo pieno di soldi che sul set era in sofferenza per due ragioni: la prima, Hill gli ha vietato di improvvisare le battute, la seconda, una naturale antipatia corrisposta con Michael Paré (storia vera). Quindi, quando i due si esibiscono nel vero classico dei dialoghi di Walter Hill, uomini che si mandano allegramente a cagare con una varietà di insulti davanti a cui si può prendere solo appunti, forse non era tutta recitazione.
Tra le facce note, impossibile non citare il barista con ciuffone Rockabilly Bill Paxton che qui si vede poco e prende tante botte, in compenso faceva lo stesso sul set dell’altro film a cui stava lavorando in contemporanea a questo, Terminator (storia vera).
Ma ancora più clamorosa è Amy Madigan moglie nella vita di Ed Harris che al provino per il ruolo di Reva, ha chiesto di sua spontanea iniziativa di provare a leggere la parte dedicata al sodato che avrebbe dovuto accompagnate Tom Cody nell’impresa, un ruolo da uomo che Hill voleva assegnare alla faccia di cuoio di Edward James Olmos, ma la Madigan è stata così perfetta che con un paio di modifiche alla sceneggiatura Hill ha creato la soldatessa McCoy che da sola porta avanti la tradizione della coppie male assortite nei film di Gualtiero Collina. Senza alcuna traccia di sospetto, perché tra Cody e McCoy la faccenda “sesso” viene seppellita con una riga di dialogo e il personaggio è il classico caso di donna più “maschia” dei maschi, pensare che nel 2019 per una roba così ci dobbiamo puppare mesi di polemiche ridicole.
Tutte queste facce e personaggi tengono insieme un film in cui Walter Hill è perfettamente a suo agio nelle parti cazzute, mentre quelle più romantiche, sono gestite da uno che proprio come Cody ha un’idea tutta maschile del romanticismo, ecco perché la sparatoria con cui Tom e McCoy salvano Ellen è impeccabile e il duello finale a colpi di martello sembra la sfida con il coltello di I cavalieri dalle lunghe ombre, ma più si finisce per guardare “Streets of Fire” più diventa un grande film, incredibilmente personale per Hill, anche in quel modo tutto suo di gestire il romanticismo.
Alla sua uscita “Strade di fuoco” spiazza tutti, esattamente com’è ancora in grado di fare oggi con gli spettatori che si avvicinano a lui per la prima volta, al botteghino porta a casa solo otto milioni di dollari e, per assurdo, l’unica canzone ad entrare per un po’ in classifica è anche l’unica che nel film si sente pochissimo, “I can dream about you” di Dan Hartman. Pare che guardando i primi risultati al botteghino, il produttore Joel Silver abbia fatto il verso alla canzone principale del film, dicendo: «Tonight is what it means to be dead» (storia vera).
Un’ingiustizia che il tempo ha solo in parte avuto modo di correggere, “Strade di fuoco” è un film di culto ancora troppo poco sconosciuto, una favola senza lieto fine che termina con un’esplosione nucleare, l’ultimo pezzo “Tonight is what it means to be young” è talmente grandioso da rendere lui da solo la vera dimensione di questo film, perché lo fa chiude alla grande, con un trionfo, quando, invece, questa favola termina in un modo che dice più di Walter Hill di mille parole.
Ellen Aim ha una carriera e una vita tutta sua, Tom Cody è un solitario di poche parole, avevano già provato a stare insieme senza che i loro stili di vita potessero davvero conciliarsi, dopo 93 minuti (durata perfetta per i film) lo scenario sembrerebbe cambiato, ma in un finale su cui potrebbe starci bene anche un pezzo famoso di Sting, con una scelta che ricorda molto “Casablanca” (1942), “Strade di fuoco” il musicarello romantico di Walter Hill finisce come un western, con un uomo che fa una scelta da uomo, giusta, ma difficile. Per un finale che riesce a scavarti dentro di più, che si svolge sulle note di una canzone del tutto fuori contesto, devo scomodare Brazil di Terry Gilliam, solo che Walter Hill se ne va sulle note di “Tonight is what it means to be young” che potrebbe intitolarsi anche “Stasera è ciò che significa essere uomini”, sicuramente “Strade di fuoco” è ciò che significa essere grande cinema, poco, ma sicuro.
Vi ricordo a tutti la locandina d’epoca di questo film dalle pagine di IPMP, mentre per oggi è tutto gente, prossima settimana la rubrica continua, portate il portafoglio, qui non si bada a spese!
Sepolto in precedenza venerdì 26 aprile 2019
Creato con orrore 💀 da contentI Marketing